L’epoca della disperanza. A proposito del recente libro di Roberta De Monticelli “Al di qua del bene e del male” – di Fortunato Aprile

venerdì, 22 Gennaio, 2016
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L’epoca della disperanza
A proposito del recente libro di Roberta De Monticelli
Al di qua del bene e del male*

di Fortunato Aprile

Ci sono eventi che vanno segnalati per la loro significatività, le cui ragioni esplicative sono strettamente correlate alla natura di quella significatività. La prospettiva qui è quella assiologica connessa ai processi formativi responsabili questi, in buona misura, della formazione costrittiva (egoistica) o lasca (dispersiva) che genera –anche per  facile verifica sperimentale che le presenti note propongono- soggetti, in prevalenza, disponibili a corrompere o a farsi corrompere. La politica, in particolare, ne è infetta. A una tale destabilizzante condizione che ha già prodotto danni dai quali sarà eroico sollevarci, occorre rispondere, come fa Roberta De Monticelli, con un’azione di guerriglia etica, guidata però dalla logica del trial and error e dalla richiesta di mobilitazione delle coscienze, nell’esercizio della ricerca del vero.

Il libro di Roberta De Monticelli –tra i tanti problemi che pone- richiama più volte la responsabilità degli educatori a tutti i livelli, rispetto alla perdita di quelle dimensioni assiologiche, per noi primarie, date dalle condotte orientate dall’etica; a partire dalla obnubilante incapacità di compiere distinzioni tra ideale e realtà.

Condizione questa che è all’origine delle immense coltri di fumo in cui i cittadini si avventurano a tentoni per cercare di orientarsi. Operazioni difficili da praticarsi perché è venuta meno la virtuosa dimensione del “faccia a faccia” , ovvero delle concezioni che non si sono formate dai confronti interpretativi, ma dalle impartizioni  derivate  dal sistema delle informazioni, inteso come involuzione del sistema della comunicazione.

In tal modo si sono interrotti i processi esplorativi della conoscenza personale connessi al “conosci te stesso” e si sono assunti schemi di pensiero e di azione votati “all’autodestituzione spontanea del soggetto morale negli individui” (p.41).  Il venir meno di quella “immensa invenzione del faccia a faccia socratico” (p.43) ha portato alla prevalenza del pensiero unilaterale, svincolato dal “confronto sui valori e sui fini nello spazio delle ragioni” (id).

Poiché “la relazione tra mezzi e fine comporta un ordine di priorità tra i beni” (p. 81) in campo, é soprattutto in ambito pubblico che diventa vincolante che l’ordine di priorità venga definito alla luce del faccia a faccia collegiale, perché i beni prioritari vengano riconosciuti, nel crogiuolo delle interpretazioni, come tali; purché però tali interpretazioni siano svolte mediante “prova ed errore, di sofferenza e di scoperta” (p. 35).

Sta che –come evidenzia Roberta De Monticelli – la prospettiva fenomenologica “include sensibilità e sentimento”;  ma perché queste dimensioni possano generare l’etica –che è macrofinalità per eccellenza nei processi formativi- occorre che l’educatore sappia coniugare ragion pura e ragion pratica. Nel senso che una volta individuati i fini mediante la ragion pura da un testo normativo (le Indicazioni nazionali e gli Orientamenti che i docenti sono tenuti a conoscere), il loro raggiungimento –per tentativi ed errori- può avvenire principalmente con la scelta dei mezzi; e questi non possono essere solo derivati dalla stessa ragion pura ma soprattutto dalla ragion pratica, cioè dalla ragione guidata percettivamente dall’etica, quella implicata in quei fini.

Dalla prospettiva dell’educazione, l’autodestituzione della morale nei soggetti si è originata dal deficit formativo sopra espresso, connesso alla mancata interazione di sistemi concettuali e sistemi di valore. O, meglio, connesso al tradimento dei fini e dalla prevalenza destabilizzante dei mezzi: quella che produce le coltri di fumo date dall’eccesso di nozioni, le quali ultime –in quanto conoscenze separate-  non fanno relianza, non fanno conoscenza. Da qui, l’incapacità diffusa a non intendere la differenza tra ideale e realizzazione pratica.

Un esempio empirico che potremmo, estensivamente, definire “destituzione morale” nei soggetti è dato da come sono utilizzati testi di grande portata formativa ma che sono sistematicamente deprivati del loro potenziale assiologico. Ci si riferisce a testi come La Cicala e le formiche di Esopo. Verso cui ci si limita a chiedere quale sia la morale della favola; operazione peraltro inutile anche perché versioni successive ad Esopo ve ne hanno aggiunta una: uno splendido esempio di banalità del bene.

Ma ritorniamo al testo esopèo. Una volta richiesto a un gruppo di docenti di tre ordini di scuola di un Istituto comprensivo statale quale dei due atteggiamenti fosse più conforme ai fini dell’istituzione in cui ci si trovava ad operare, il 70% decise che era la scelta di vita delle formiche; scelta effettuata  in nome della salvaguardia della sicurezza personale; mentre il 20% indicava nell’atteggiamento della Cicala una positiva opzione creativa. Il restante 10% si orientò per la terza opzione: quella dell’incertezza. Il faccia a faccia che ne segui, a conduzione non intrusiva, non spostò le scelte precedentemente effettuate nei due gruppi maggioritari, mentre negli indecisi vi fu una confluenza nell’uno o nell’altro gruppo. Una sola docente, non leader, restata in ascolto delle ragioni articolate addotte dai componenti dei due gruppi, sollevò il dubbio – nei giorni successivi e dopo una ricognizione sul testo delle Indicazioni per il curricolo (uno dei testi ministeriali in vigore, che orienta l’elaborazione del curricolo, redatto sotto la direzione di Mauro Ceruti, con la consulenza di Edgar Morin)- che né l’atteggiamento delle formiche, né quello della Cicala risultavano, a suo avviso, coerenti con i fini dell’istituzione scuola, in ragione del fatto che è vero che la scuola mira a formare alla previdenza della sicurezza personale, ma indica di viverla con il sentimento delle ragioni degli altri. Correlativamente, è anche vero che la scuola è tenuta a valorizzare la creatività delle persone affidate ai processi formativi in svolgimento nel suo ambito, purché però le opzioni esistenziali connesse non risultino disfunzionali, dispersivi dei potenziali delle persone.

L’efficacia del “faccia a faccia” e su questo si insiste –condotto in forma non intrusiva- di qualche  giorno successivo, rivelò la sua valenza assiologica nel determinare lo spostamento di posizioni tra i gruppi, istituendone un terzo, divenuto maggioritario: il30% rimase a condividere le ragioni delle formiche; col 30%  aumentò il gruppo che condivideva l’istanza della Cicala, mentre il 40% sosteneva che andava ricercata un’alternativa a quelle due tradizionali posizioni.

Resta la gravità del fatto che i precedenti valori statistici (70, 20 e 10%) risultano confermati anche dalla somministrazione del dilemma morale agli allievi. Per cui se non si tenta di “cercare il vero”, che nel nostro caso è quello di un insegnamento più in linea con i fini istituzionali, i docenti vengono, inconsapevolmente, a svolgere una funzione monca, destituita della dimensione etica. Insomma, in tal modo,”Socrate è latitante, e l’idealità perduta è buona parte colpa nostra, colpa di noi “educatori”, che abbiamo latitato con lui” (p.33).

Perché, paradossalmente, così stando le cose –peraltro verificabili sperimentalmente-  dalle nostre istituzioni formative sortiscono –in prevalenza- persone che nelle scelte dell’esistenza fanno dominare le ragioni costrittive, egoiche, delle formiche o quelle ragioni lasche, dispersive del sé, della Cicala. Che traduce visivamente l’incapacità di distinguere tra ideale e pratica.

Nell’orizzonte di un’altra favola, “Il riccio e la volpe”, possiamo solo affermare che la stringata minoranza di persone equilibrate, le cui condotte sono percettivamente e sentimentalmente guidate dall’etica, devono solo testimoniare dell’inarrestabilità della caduta nel regno dello scetticismo assiologico delle volpi o –salvaguardando la logica- possono condurre, trial and error- una risalta per una ripopolazione dei ricci, ovvero della “ ricerca di verità[…] rispetto alle questioni di valore” (p. 78)?**

Al di qua del bene e del male  di Roberta De Monticelli dimostra che l’Università è pronta per assumersi la responsabilità di condurre ricerche sulla utilità dei dilemmi morali ai fini della valutazione dei processi formativi. E ciò è bene non solo rispetto al buon funzionamento delle istituzioni scolastiche, ma perché può prevenire che il mondo sia “di chi se lo rapina”;  impresa in verità assai facile perché la imperante  “cecità del valutare”  sta  producendo eserciti di deinos, quei mostri aristotelici predatori delle risorse pubbliche e che la Magistratura ci sbatte sotto il muso quotidianamente, come per dire: -C’è qualcuno che possa fare qualcosa?

La politica, quella della residua dignità, l’educazione e la cultura hanno il dovere di sortire dalle nicchie in cui si giacciono, sempre più attratti dal “sonno del cuore e dei sensi”, effetto drammatico dell’apatia e della disperanza.

*Einaudi, Torino, 2015.

** Vedi, per la genesi della reinterpretazione della favola, da parte di R. De Monticelli, Archiloco, Frammenti, XXIII; I.Berlin, Il riccio e la volpe, Adelphi, Milano, 1986, pp.71-72.

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Un commento a L’epoca della disperanza. A proposito del recente libro di Roberta De Monticelli “Al di qua del bene e del male” – di Fortunato Aprile

  1. sabato, 23 Gennaio, 2016 at 16:53

    Grazie a Fortunato Aprile per questa riflessione, insieme pensosa e concreta, sulle implicazioni pedagogistiche del mio libro. Trovo gustoso e appropriato l’uso sperimentale della favola di Esopo. Siccome poi nel libro propongo una faunistica del pensiero assiologico, affiancando alle volpi scettiche i lupi decisionisti e le falene relativiste, e inseguendo la genia muta e accorata dei ricci cui sta a cuore una sola cosa ma grande – la coerenza dello spazio assiologico, che è poi la sola possibilità di una coerenza delle nostre convizioni e della nostra vita – accolgo con grande simpatia ulteriori meditazione faunistiche. Cicale e formiche. Antico dilemma, più chiaro e analitico, per così dire, di quello un po’ mistico o comunque troppo ermeneutico di cani e gatti: felinità sensuale, riservata e un po’ altera, o caninità fiduciosa, fedele ed entusiasta?
    Insomma, è anche giusto prendersi un po’ in giro, ma mostrare quanto falso sia il dilemma morale delle formiche e delle cicale è opera degna. Il mio amico Diego Fusaro direbbe che è un dilemma tutto mercatistico, roba da animal oeconomicus. Ovvìa, anche gli scheleriani sarebbero d’accordo: sopra la sfera del dilettevole e sopra quella dell’utile sta pur sempre quella del vero del bello e del buono, con le loro luci che brillano nelle tenebre senza alcuna gratificazione e alcun salario, le belle luci disinteressate. Diciamo, in termini faunistici, la sfera delle lucciole. E sopra ancora sta – come l’homo aesteticus di Soeren Kierkegaard aveva un suo specchio magnificante e assoluto nell’homo religiosus, ben più serio in materia di gratuità e di abbandono – sta il vero scialo, l’inveramento spirituale e assoluto della cicala, il favoloso spreco d’anima e sostanza, il fondersi scintilla nel divino incendio, perché chi vorrà salvarsi l’anima la perderà…. In termini faunistici: la beatitudine della farfalla che si precipita nella fiamma del lume. Amen.

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