Medici a metà. Quel che manca nella relazione di cura — Claudio Rugarli

martedì, 6 Giugno, 2017
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Claudio Rugarli

Medici a metà

Quel che manca nella relazione di cura

Giovedì 8 giugno, ore 11, Università San Raffaele

Aula Aristotele (DIBIT 1)

Copia di Medici a metà - Prof. Claudio Rugarli

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Un commento a Medici a metà. Quel che manca nella relazione di cura — Claudio Rugarli

  1. andrea paolini
    lunedì, 15 Gennaio, 2018 at 12:51

    Sottolineature e note a margine
    Letture di Andrea Paolini

    Vengo dalla lettura del libro di Claudio Rugarli, Medici a metà, Raffaello Cortina Editore, 2017.

    Il maggior pregio del libro è quello di aver messo in luce l’“antinomia” (dalla quarta di copertina, parola che è indizio di provenienza da Giulio Giorello) che scaturisce dall’esercizio della professione medica: il punto di vista sulla malattia è di tipo professionale, quindi molto differente da quello vissuto in prima persona dal malato. Questo hiatus, questa distanza a livello umano, è sancita dalle “regole” che il medico deve darsi, di necessario distacco per poter ragionare il più lucidamente possibile e per preservare le proprie energie emotive (si deve evitare il burn-out), al fine che egli possa poter prestare il proprio aiuto, il suo sapere medico, a tutti i suoi pazienti (il medico è una persona normale, come tutti noi). La figura idealizzata del medico deve fare i conti con la realtà: il medico, o meglio chi vuole esserlo nel lungo periodo, non deve lasciarsi prendere da impetuosi slanci emotivi o dalla smania umanitaria di soccorso, ma, al contrario, deve sapersi controllare, evitare un coinvolgimento troppo emotivo, e riuscire a separare, in modo agghiacciante (perché nel caso del medico è da applicarsi ad un “materiale umano” sofferente e vuol dire riuscire a mantenere un distacco emotivo rispetto al malato), ragione e sentimento/emozione/empatia, la componente emotiva da quella idealistica umanitaria (che, nella sua algidità, comunque ancora dovrebbe costituire la spinta che lo muove [l’autore quasi si vanta che questa non sia (stata) la sua motivazione]). Quello del medico è dunque un mestiere, ma un mestiere poco umano o disumanizzante (questa assurda situazione è acutizzata/esacerbata nel caso dei medici dell’anima (psicologi)). Da fuori, nella privilegiata posizione dei non-medici, è difficile arrendersi a ciò, che la ragione debba imprigionare gli slanci dell’animo (ci si ostina a pensare che valga anche il contrario, che spesso i sentimenti fanno aguzzare l’ingegno (a me è successo): perfidamente, ci si potrebbe chiedere se un medico che cura una persona amata lo faccia peggio o se invece riesca a dare ancora quel qualcosa in più).

    La strada principale delineata dall’autore affinché il medico non sia un “medico a metà” è che egli prenda coscienza dell’antinomia e metta in atto una conseguente “appropriata comunicazione”. Se ciò senza dubbio può evitare al paziente ulteriori angosce e aiutarlo ad assumere un atteggiamento positivo, sempre a lui si devolve il compito di affrontare, da solo, il momento della sofferenza (la comunicazione medica è sempre distaccata, non è un surrogato della vicinanza), quando la malattia non sia anche una spia di un bisogno di aiuto più profondo. Mi pare chiaro che questo non risolve l’antinomia. Il dramma del medico è l’essere coscienti che si è un medico a metà.

    Le “soluzioni” sono due:

    Bisognerebbe fare il medico (intero), così come il politico o altre professioni che implicano una completa dedizione verso il prossimo, per un periodo limitato.

    Come splendidamente espresso nel film: Il medico di campagna di Thomas Lilti (2016), quando il medico si dedica a colmare questa distanza umana, la sua figura di medico sfuma in quella degli amici, dei parenti: egli passa dall’altra parte. A noi tutti spetta quindi di essere quell’altra metà del medico.

    Nel libro vengono trattati molti grandi temi della medicina, per forza di cose in modo superficiale (a volte denotando una certa debolezza, per esempio a riguardo delle questioni strettamente epistemologiche), testimoniando un poliedrico interesse dell’autore, e fornendo citazioni a vari testi che danno spunti per un approfondimento.

    Una parte sempre preziosa dei libri è la testimonianza della vita vissuta, attraverso i ricordi personali; in questo libro in particolare nella parte sull’evoluzione della clinica ricostruita attraverso i ricordi.

    Sebbene mitigata da una sincera ammirazione, traspare nel libro una venerazione per i propri maestri, anche quando questi hanno preconcetti che non si accordano con la corretta visione epistemologica dell’autore.

    L’edizione è abbastanza curata (qualche refuso, e una ripetizione). Poca attenzione verso l’aspetto ecologico (carta e inchiostri).

    Colgo questa lettura per estrarne dei brani che mi sono piaciuti, e per trascrivere alcune delle mie note a margine.

    Primo Capitolo, Riflessioni e ricordi:

    – Pag. 12: “Ma la clinica non è una scienza, è un’attività decisionale razionale, come l’economia, la politica, […]”

    – Pag. 15: “[…] la medicina è una cosa troppo seria per essere affidata ai soli medici. Penso infatti che anche chi non abbia fatto i nostri studi, ma abbia attitudine a riflettere, possa dare un contributo importante a definire lo statuto epistemologico della clinica. Faccio appello al suo interesse.”

    Aggiungo che il contributo dei non medici alla medicina si estende anche ad altri campi oltre quello epistemologico, basti pensare, per esempio, a due settori che hanno rivoluzionato la medicina: la ricerca biomedica e l’evoluzione dei mezzi diagnostici, tutti sviluppati da “non-medici”.

    Secondo Capitolo, Il clinico e le idee:

    – Pag. 21: condivisibile è la sua esortazione affinché i medici studino la Storia della medicina.

    – Pag. 48: “[…] si è diffusa l’opinione che, quanto più tecnologica è un’indagine medica, tanto più è informativa e preferibile. Questo non è sempre vero: per esempio, per valutare un restringimento del calibro bronchiale un fonendoscopio serve più di una tomografia assiale computerizzata. Una conseguenza di questo modo di pensare è la tendenza ad abbandonare la semeiotica fisica che invece, nelle sue forme più semplici, resta utilissima. Una testimonianza di questo pregiudizio è rappresentata dalla deplorevole abitudine di molti medici attuali di non visitare i loro pazienti, ma di limitarsi a compilare una lista di indagini cliniche.”

    – A pagina 50 si fa un bell’esempio di quale sia la funzione del medico generico, ossia quella di essere un sistemista, di saper coordinare e far intervenire il giusto specialista. L’esempio termina con il mancato intervento di un endocrinologo, specialista, ma tra le specializzazioni quella a carattere più sistemistico (il medico generico dovrebbe essere bravo in endocrinologia, cosa che, secondo la mia ristretta esperienza personale, di solito non avviene).

    Pagg. 55 e 56: A proposito degli studi clinici controllati: “[…] supponendo che si voglia verificare se un farmaco X è efficace nella terapia di una malattia Y, occorre prima reclutare a caso un certo numero di pazienti affetti da Y, ma stratificati (come si dice in gergo per significare che tra di loro siano egualmente distribuite certe variabili) per età, sesso, peso e altri elementi che si ritengono in grado di influenzare i risultati. Naturalmente sono esclusi i casi molto atipici […]”.

    Il punto chiave è la evidente e inevitabile limitazione all’analisi di pochi parametri. Nonostante un accenno nelle ultime pagine del capitolo, nel libro non si mette in evidenza la duplice limitazione epistemologica che porta inevitabilmente a ciò che l’autore chiama metodo “euristico”: da una parte il carattere intrinsecamente aleatorio della singola misura fisica, dall’altro il problema della complessità dell’essere umano (del singolo organismo e della differenza tra organismo e organismo). Limitandosi alla seconda, il paradosso del metodo statistico, e quindi della EBM (Evidence Based Medicine), è un problema di teoria dell’informazione e coinvolge anche la clinica: si pretende di dare gli elementi per curare una persona (ossia gli elementi per scegliere la cura), persona che ha una altissima complessità, a partire dalla ridotta informazione collezionata con i risultati di un campione: il problema si traduce nella difficoltà di collocamento del paziente all’interno del campione. Infatti l’informazione sul campione in termini di parametri che influenzano l’efficacia del farmaco (e i suoi inevitabili effetti negativi) è limitata, così come quella, raccolta dal clinico sul paziente, quindi dove si colloca il paziente? (Cui si aggiunge il problema della determinazione della classe nosologica e dello stadio di avanzamento della malattia sia di ogni componente del campione, sia del singolo paziente in esame). Purtuttavia, anche nell’ipotesi ideale di una caratterizzazione perfetta in termini di un numero elevatissimo di parametri sia dei componenti del campione che del singolo paziente, resterebbe il limite epistemologico che il campione non rappresenta tutta la variabilità della popolazione, nella fattispecie non rappresenta il singolo paziente che potrebbe essere unico (e anzi molto probabilmente lo è) (gli va bene se è simile alla media, ma nessuno potrà mai dire se è così, se non a posteriori dopo che la cura sarà sperimentata su di lui medesimo): l’esterno da noi non è noi. Particolarmente stridente è il caso della stima della sopravvivenza, perché si forza la statistica a prevedere un evento estremo; da cui la più che giustificata, anzi doverosa, speranza che si può e si deve sempre nutrire quando questi studi vengono propinati da cattivi medici, studi che a mio parere sono inutili oltre che epistemologicamente errati (si veda il bel discorso sull’incitamento alla speranza dell’autore a pagina 80).

    Nella parte finale del capitolo (pagina 58) egli nega il cambio di paradigma apportato dalla EBM, confondendo le dimostrazioni oggettive con il nuovo approccio statistico: la EBM non ha fatto altro che statuire scientificamente proprio la fine dell’approccio deterministico, dando uno statuto scientifico all’approccio euristico, da basarsi però quanto più possibile sui dati statistici.

    A mio parere il giusto atteggiamento del medico rispetto ad una corretta interpretazione epistemologica della medicina si potrebbe riassumere nella seguente frase:

    Il malato non si meraviglia della guarigione (e ne da merito al medico), il medico (autentico) se ne deve meravigliare (se non ne dà a vedere al malato, pecca di presunzione).

    Pagg. 71-81: questo paragrafo dedicato alla comunicazione è quello che contiene la dissociazione tra medico e ammalato di cui si è parlato più sopra.

    Pag. 78: Molto bella e coerente con la natura statistica della previsione medica la seguente parte: “Ma se vi si arriva [a diagnosi di malattie gravi come tumori maligni] allora è tassativo non chiudere la porta alla speranza, considerando che questo obiettivo sarà tanto più credibile quanto più sarà apparente che non si sta mentendo” e a pagina 80: “In conclusione, non si deve mentire, ma presentare la verità da un punto di vista tale che lasci sempre adito alla speranza”. Il medico stesso è quindi costretto ad essere speranzoso.

    Pag. 79 (la frase più bella del libro, eco di un’analisi di Gadamer sul Prometeo di Eschilo e del libro del giornalista Alsop): “Questa sindrome [del condannato a morte] è propria non solo dei condannati a morte per cause giudiziali nei paesi dove questa pratica incivile [direi io: disumana] è ancora esercitata, ma anche dei pazienti per i quali i medici si azzardano a definire i termini temporali di una prognosi infausta.”

    Quarto capitolo, Il metodo clinico:

    Pagg. 91 e 92: si parla di indicatori “patognonomici”, ammettendo che ve ne sono pochi e sono costosi (l’autore li considera applicabili anche a pagina 102 dove c’è anche un ragionamento confuso su induzione e deduzione). In realtà essi non esistono, sono solo una idealizzazione perché si tratterebbe di indicatori con specificità del 100% e sensibilità del 100%, la qual cosa negherebbe sia, in generale, la natura statistica della medicina, sia, in particolare, la complessità in essa insita: altro che teorema di Bayes applicato alla diagnosi medica, l’approccio euristico non sarebbe più necessario (almeno nel caso della classificazione nosologica, ma di riflesso in tutta la clinica) e la complessità della malattia sarebbe ridotta a quella di un indicatore addirittura deterministico. L’identificazione di un indicatore “patognonomico”, se in teoria possibile, ha una probabilità molto vicina allo zero.

    Nessuna nota o sottolineatura per i due rimanenti capitoli, forse perché ne avrei dovute fare troppe.

    L’appendice (Amarcord) è la lettura stilisticamente più godibile.

    Andrea Paolini
    and.paolini@libero.it

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