La crisi della scuola pubblica: lo svilimento del lavoro dell’insegnante – Filippo Indovino

lunedì, 7 Agosto, 2017
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In un articolo uscito sul quotidiano “La Repubblica” del 27/7/2017 Ilaria Venturi cita questa dichiarazione del ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli , che esprime la sua preoccupazione per lo scarso numero di insegnanti di Matematica nella scuola secondaria (scuole medie e scuole superiori): “La mancanza di alcune professionalità nella scuola è anche il frutto dello svilimento, negli anni, del valore della docenza dovuto alla scarsa attenzione che c’è stata nei confronti del sistema di istruzione, sia in termini di investimenti, che di capacità di visione”.

Come commentare tali affermazioni?

Aristotele dice che “la filosofia nasce dalla meraviglia”, la sorpresa che suscita in noi l’esistenza del mondo e che ci spinge a ricercare le cause dei fenomeni. Anche le parole del ministro sono sorprendenti. Si pensa, infatti, ingenuamente, che chi ricopre un ruolo ed esercita una funzione pubblica centrale come la guida del sistema dell’istruzione dovrebbe conoscere i problemi che, da tempo, quali che siano stati i ministri e i governi in carica, affliggono la scuola italiana. Ma, forse, è troppo aspettarsi una simile consapevolezza da un ministro non laureato, né diplomato. Non si vuole certo sostenere che il diploma e la laurea garantiscano automaticamente il possesso di un pensiero critico e di una visione culturale. Tuttavia, non si può non rilevare che l’attuale ministro, come i suoi predecessori, dimentica la storia della scuola nel nostro paese.

Da anni, infatti, in palese violazione della lettera e dello spirito dell’articolo 33 della Costituzione, lo Stato ha ridotto i finanziamenti alla scuola pubblica, incrementando la spesa per le scuole private prevalentemente cattoliche. Le varie riforme (Moratti, Gelmini, Giannini) sono state ispirate dall’ideologia dell’azienda , delle 3 I : Impresa, Internet, Inglese. Il pensiero dominante sulla scuola si è fondato sull’idea , assunta come verità indiscutibile, che la cultura e l’istruzione fossero una merce da svendere. In questo quadro va esaminato il problema della svalutazione di un lavoro intellettualmente impegnativo e rischioso emotivamente, come quello dell’insegnante. Tale svalutazione si manifesta con evidenza solare negli stipendi dei docenti italiani,che sono i più bassi d’Europa. Ciò dà la misura del valore (si fa per dire) che i governi degli ultimi anni (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni),  per le più varie ragioni, hanno attribuito alla scuola pubblica e alla funzione docente. Di fronte a questa situazione si è pensato di intervenire, introducendo con la riforma, denominata “Buona scuola”, il cosiddetto bonus per premiare gli “insegnanti meritevoli”. La questione estremamente complessa e ampiamente dibattuta dei criteri di valutazione del lavoro dell’insegnante è stata apparentemente risolta, rimuovendone gli aspetti fondamentali. Il lavoro del docente dovrebbe, infatti, essere giudicato sulla base della sua capacità di appassionare e motivare gli allievi allo studio, insegnare loro a pensare, dialogare, confrontarsi democraticamente con gli altri , partecipare attivamente alla ricerca collettiva e dialettica della verità. Si è preferito, invece, nella maggior parte dei casi, attribuire un bonus quantitativamente esiguo a chi svolge attività organizzative, oppure volte all’innovazione didattica , attraverso l’introduzione e l’uso massiccio delle nuove tecnologie. Ciò ha rischiato di trasformare mezzi che possono e debbono essere utilizzati come uno , non l’unico, dei tanti strumenti didattici del lavoro dell’insegnante nel suo fine. Inoltre, a conferma dell’assenza della volontà politica di valorizzare realmente la funzione docente e, nonostante lo stesso ministro ne abbia sostenuto la necessità,dicendo che gli insegnanti guadagnano troppo poco , la proposta di rinnovo del contratto di lavoro prevede un incremento medio dello stipendio di 85 euro lorde.

Siamo, dunque, alla scissione totale fra parole e cose. Bisogna, perciò, tornare alle cose stesse, per dirla con Edmund Husserl.

Il lavoro dell’insegnante è fondamentale. Come ha detto Carlo Sini, il docente ha 3 compiti prioritari: educare, cioè trasmettere le regole fondanti del pensiero, della conoscenza e della convivenza civile; formare, cioè rendere gli allievi capaci di porsi la domanda sul senso dello studio e di trovarlo autonomamente, uscendo dallo stato di minorità intellettuale; istruire, cioè comunicare i contenuti essenziali delle discipline, mostrandone il processo di formazione. Come si vede, si tratta di un lavoro molto impegnativo, specie in una società fondata sul culto feticistico del denaro, del potere fine a sé stesso e del successo da ottenere a tutti i costi e con tutti i mezzi. Proprio per questo è necessario che lo Stato, come fa in altri paesi, investa massicciamente nella scuola pubblica, per trasformarne l’impianto, senza snaturarla, coniugando le conoscenze con le competenze richieste da una società in profonda e rapida trasformazione.

 

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5 commenti a La crisi della scuola pubblica: lo svilimento del lavoro dell’insegnante – Filippo Indovino

  1. Fortunato Aprile
    lunedì, 7 Agosto, 2017 at 23:25

    Ricercare le cause dei fenomeni e riuscire ad avvicinarsi ad esse suscita, aristotelicamente, meraviglia.
    Vogliamo, per un solo istante, sia pure in questo infernale agosto che dovrebbe suggerirci altre attività, provare ad avvicinarci almeno ad una delle cause che hanno portato alla quasi totale svalutazione del lavoro intellettuale dei docenti?

    Le cervellotiche proposte della “Buona scuola” sono solo l’ultimo colpo mortale inferto al suo corpo sofferente.
    Si parla di premiare gli insegnanti meritevoli, quando ne sono stati rimossi gli aspetti fondamentali del lavoro valutativo, nell’attribuzione di un vile bonus, erogato dal dirigente-menager, che non a caso Fromm definisce la più disumana delle professioni.

    Merita d’essere pienamente sottoscritta la seguente perorazione: “Il lavoro del docente dovrebbe […] essere giudicato sulla base della sua capacità di appassionare e motivare gli allievi allo studio, insegnare loro a pensare, dialogare, confrontarsi democraticamente con gli altri, partecipare attivamente alla ricerca collettiva e dialettica della verità.”

    Mi limito a sottolineare che in questa splendida perorazione si nasconde la via che può condurci alla meraviglia. A condizione che non ci mettiamo le bende per non vedere il vedere.

    Come diavolo è, per esempio, possibile appassionare, se non vi è passione, come motivare, se si è privi di motivazione. E come si insegna a pensare e a preparare all’esercizio del dialogo come metodo del confronto democratico, se si sono spente nel cuore dei docenti le luci dell’agire educativo? Ciò è avvenuto, m entre si creavano gradualmente le condizioni per estirpare l’artigianale passione in nome delle tecnologie didattiche e di didattiche esclusivamente disciplinariste, prive di quell’humus che crea emozione; che è la via per cogliere nei saperi le sue dimensioni etiche, senza le quali il sapere di uno studente candidato alla cittadinanza democratica non si distingue dal colto e raffinato manipolatore di affari corruttivi.
    Si osserverà che è proprio per questo che ci mobilitiamo. D’accordo. Ma facciamolo dopo aver cercato qualche dimensione non vista. Ma che sta sotto i nostri occhi.

    Il testo della Redazione lo mostra chiaramente: ci troviamo nel pieno disastro per aver consentito di “trasformare mezzi che possono e debbono essere utilizzati come uno, non l’unico, dei tanti strumenti didattici del lavoro dell’insegnante nel suo fine.”
    A questo punto potremmo cavarcela ribadendo il senso e il significato dei tre compiti prioritari che il Prof. Sini definisce da par suo e che sono senza dubbio da sottoscrivere.

    Mi limito solo a sottolineare che queste luminose cesellature del Prof. Sini sono macro finalità, cioè fini di grandi dimensioni che devono, però, restare sullo sfondo; avendo cura di recuperare una cosa che non si è voluto mai fare e che per questo sembra che nessuno sappia fare. Un errore madornale, che è all’origine di quasi tutti i mali della scuola: recuperare l’indagine su come individuare fini intermedi come, per esempio: formare l’autonomia e indipendenza di giudizio, oppure la capacità di distinguere tra solidarietà col gruppo e cedimento alle pressioni.
    Lavorando con curricoli conseguenti, si scoprono ragioni per sentire la “meraviglia” del lavoro docente.
    Chi scrive dice questo per verifica sperimentale, di cui qualcosa è reperibile anche in questo sito nella lista dei lavori dei contributors.
    Mentre sento di dovermi congratulare per la Redazione per aver dato spazio a una questione così importante, rivolgo una proposta a Stefano Cardini: ci vogliamo decidere a fare più empiricamente qualcosa per la nostra Scuola?

  2. Roberta De Monticelli
    sabato, 12 Agosto, 2017 at 12:28

    Mentre riprendo con entusiasmo la proposta di Fortunato Aprile – “ci vogliamo decidere a fare qualcosa….per la nostra scuola?” (più empiricamente non so, certo ci fosse spazio e opportunità voi docenti non dovreste lasciare intentata una sola mossa) vorrei aggiungere in primo luogo che la riflessione cui quella di Fortunato Aprile risponde non è farina della “redazione” – ma del suo autore, FILIPPO INDOVINO (che ha pubblicato il suo testo tramite la redazione): e lo ringrazio per l’eccellente contributo. E in secondo luogo, che anche riflettere e far discutere e far emergere nuovi aspetti di ciò che è sbagliato nella riforma “la buona scuola” e ciò che potrebbe invece volerci veramente è un FARE QUALCOSA, e che questo spazio è affidato a tutti voi, cari colleghi delle Secondarie che avete un compito più gravoso, una responsabilità enormemente più grande – e per conseguenza, in questo paese dei contrari, un riconoscimento sociale ed economico di molto inferiore a quella dei docenti universitari. Dateci voi una mano a farne un veri strumento di pensiero e di azione. I contributi che siano post autonomi (invece che commenti, facilissimi da postare da soli) vanno inviati, vi ricordo, a b.bellini1@studenti.unisr.it – oltre che a me se vi garba m non è necessario, li leggerò comunque.

  3. Roberta De Monticelli
    sabato, 12 Agosto, 2017 at 12:49

    Un’aggiunta al commento precedente: ecco qui una riflessione sulla verità dell’insegnare, che avevo pubblicato qui l’estate scorsa:

    https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2016/08/la-brace-ardente/

    Aveva come pretesto la lettura del bellissimo romanzo di J.E. Williams, Stoner. Ma era soprattutto una quasi perorazione, un augurio e un incoraggiamento a tutti noi – e forse soprattutto a voi – per questo prezioso, difficilissimo mestiere che fate. Che proviamo a fare.

  4. Fortunato Aprile
    mercoledì, 13 Settembre, 2017 at 11:23

    Ringrazio Roberta De Monticelli per l’espressione di entusiasmo con cui riprende il mio intervento sulla presente questione della crisi della scuola pubblica, ponendo la domanda implicita in cosa possa consistere empiricamente FARE QUALCOSA.

    Ricordo che qualche anno fa, a proposito di una discussione intorno a lezioni della Prof De Monticelli all’Università sull’enazione, scrissi su Phenomenology Lab “Dalla struttura preventiva alla struttura enattiva” –reperibile negli scritti dei Contributors- in cui ponevo la questione della transizione verso una didattica incentrata sulla struttura enattiva. Che, in breve, perorava il superamento di una didattica casuale, qund’anche fosse culturalmente interessante, ma che commetteva, commette, il grave errore di essere svincolata dalle finalità istituzionali. Cioè dai valori per cui il servizio scolastico viene istituito.

    La didattica della struttura enattiva, in quanto azione percettivamente guidata dall’etica, obbliga a scoprire l’etica del fine e a operare per una selezione dei saperi coerente col fine stesso. Perché, com’è noto, tutto non può essere.
    La riduzione quantitativa che ne deriverebbe, verrebbe a costituire una condizione essenziale per ricercare la qualità.

    Se, dunque si volesse fare qualcosa di empiricamente utile basterebbe aprire una campagna chiedendo, ai tanti esponenti della intellettualità italiana , che ciascuno dica secondo lui quali sono i fini, le finalità, le mete formative della scuola e dove sono reperibili.
    Molti partirebbero, a ragione, dai principi della nostra Costituzione, altri dalle diverse dichiarazioni dei diritti, altri dai principi che hanno fatto sorgere l’Europa. Pochissimi, invece, citerebbero le Indicazioni nazionali per il curricolo, per la scuola di base, o le Premesse agli indirizzi per le scuole superiori.

    Ma è proprio in questi ultimi due documenti che è possibile reperire fini formativi espressi in termini moderatamente sovraordinati rispetto a quelli presenti negli altri documenti. I quali, fornendo mete molto sovraordinate, fanno divenire astratto o arbitrario il lavoro scolatico. Anche se quelle grandi mete devono, insisto su questo, restare sullo sfondo.

    Una delle possibili modalità di FARE QUALCOSA è indicato nel mio libro, intitolato <>, titolo derivato dalla nota metafora di Maturana e Varela, ne <>. Ma questa modalità non è obbligatoria assumerla.

    E’ che chiedendosi come tentare di realizzare quelle mete, una volta individuate, questo stesso fatto obbliga alla ricerca di una via. Non è forse vero che, proprio nei termini di Francisco Varela, <>?
    Fortunato Aprile

  5. Fortunato Aprile
    mercoledì, 13 Settembre, 2017 at 17:06

    Integrazione per effetto di errato uso delle virgolette:
    -quint’ultima riga: il titolo del libro è “L’alunno furgoncino e l’alunno carrarmato”;
    -quint’ultima riga, parte finale: il titolo del libro di Maturana e Varela è “L’albero della
    conoscenza”;
    -ultima riga, la citazione di Varela è: “La conoscenza obbliga”.
    Tanto dovevo per completezza di argomento.

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