nostra sora Morte corporale?

mercoledì, 4 Novembre, 2009
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Cari amici,

dopo una giornata di studio matto e disperatissimo in vista di imminenti consegne, ma non per questo avaro di soddisfazioni, trovo sul blog due riflessioni profonde e appassionate sulle cose ultime e al contempo, per chi crede o ancora spera, solo penultime.

Entrambe le riflessioni mi hanno portato alla mente un foglio bianco che avevo di fronte a me a pochi giorni dalla morte di mia mamma che recava solo una domanda al posto del titolo: “si può dare un senso alla propria morte?”

Alla domanda non volli dare risposta compiuta, come spesso mi accade, perché la risposta più veloce e spontanea, un grido rabbioso, un “sì, lo si deve!” scritto a caratteri cubitali mi pareva irrispettoso del mistero e del silenzio che richiedeva. O forse era ed è solo troppo grande il dolore per asciugare le lacrime nella scrittura.

Eppure mi piacerebbe ora rendervi partecipi solo di un paio di riflessioni personali.

In primo luogo, potrà sembrar banale, ma la morte biologica non può a mio parere assumere gli attributi di un impensabile. La morte biologica appartiene a tutti gli effetti al vivere: il morire è l’ultima funzione, l’ultimo gesto di congedo che l’organismo compie, prima della sua dissoluzione. In quanto funzione del vivere non può e non deve essere meno impensabile del nascere e del crescere, dell’ammalarsi e del guarire.

Così come quindi si può dare un senso alla propria vita, dandole forma personale, secondo le proprie preferenze e passioni, secondo i valori in cui si crede – per i quali si decide appunto di spendere la propria vita – così si può dare un senso alla propria morte attraverso un atto personale capace di interpretare anche quest’ultima funzione del nostro organismo.

Che lo si debba, non lo voglio qui affermare: si può esser colti dalla morte di soppiatto, senza che ci si sia potuti preparare, oppure si può esser preparati alla possibilità, ma fino all’ultimo lottare con essa perché ci si aggrappa disperatamente alla speranza di poter vivere ancora. Non si parla qui solo di istinto di sopravvivenza, come può esser nel caso di una sciagura, un terremoto o una slavina che non danno il tempo né di prepararsi né di rendersi conto di quel che accade perché si è intenti a lottare. Parlo anche di una lotta personale, tenace, battagliera nei confronti di una malattia terribile. Una lotta contro il disordine del proprio corpo che costringe nell’infermità e nell’isolamento a confrontarsi al contempo con tutti i disordini che ogni vita necessariamente porta con sé: le relazioni con gli altri, con sé, con il mondo e con la Trascendenza di ogni cosa.

Al culmine della vita terrena vi può esser quindi un atto personale nel prendere congedo da essa, nel lottare contro il suo precoce spegnersi, nel donarla per un motivo o per un ideale. Come può esser anche fare della propria morte una battaglia politica, come fecero Jan Palach e Piergiorgio Welby per libertà politica l’uno, civile l’altro.

Nel cosidetto dibattito sul fine vita quel che più mi colpisce è l’assolutizzazione della vita nel suo valore più brutale, in quanto mero mantenimento di un corpo e delle sue funzioni, a valore supremo. E poi la confusione tra il livello personale ed il mero vivere che si esprime nel gretto ricondurre la dignità della persona al suo valore di prestazione (battere il cuore, nutrirsi ed essere in grado di nutrire un feto).

Infine l’incapacità di pensare il vivere in quanto tale: un corpo mutilato della sua autonomia che continua a funzionare grazie ad artifici meccanici, ridotto a stato vegetativo e quindi in quasi totale assenza di vita pulsionale, nei suoi ritmi ascendenti e discendenti, negli appetiti, nel tendere e nelle passioni non può provare sensazioni di piacere e dolore nella medesima intensità con la quale si muore in un letto di morte travagliata, nelle compulsioni del dolore e nella tenace resistenza di ogni fibra del corpo e della persona. Perché l’intensità degli stati del piacere e del dolore sono determinati dall’intensità della vita pulsionale.

Nell’argomentazione quindi di chi nega cure per lenire gli stati del dolore e poi si indigna di fronte alla sospensione dell’idratazione si mischiano quindi oltre all’insensibilità dell’ideologia anche profonde incomprensioni nei confronti della natura del vivente: un intreccio di feroce fariseismo, edonismo e meccanicismo. La vita così non viene rispettata nella sua sacralità, ma idolatrata nelle sue forme più meschine e volgari. E non intendo essere offensivo: meschine e volgari! Perché è proprio in primo luogo il malato che percepisce il deteriorarsi del suo corpo, il suo svilimento, la bruttezza del suo disfacimento, a riconoscere l’assenza dei nobili tratti di un corpo sano, il valore di una vita ascendente. Solo la dignità della sua persona, nella sua libertà eleva a dignità superiore i ritmi di questa vita che cala, raccogliendo con tenacia le forze in una smorfia di dolore continuando a esprimere la propria profondità personale che trascende il mero funzionamento vitale e svela un grado di libertà ulteriore. Forsanche di una destinazione che non dipende solo da questa terra, perché anche “sora nostra Morte corporale” è dominio di questa terra e non obbedisce ad altra regola che non a quelle di questo mondo, e come tale, nella sua come nella nostra creaturalità, con essa lottiamo con tutte le nostre forze, oppure ad essa ci consegniamo per attraversarla.

Chi dice di credere se ne è forse dimenticato?

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Un commento a nostra sora Morte corporale?

  1. Roberta De Monticelli
    sabato, 7 Novembre, 2009 at 02:00

    Vorrei lasciare un commento tanto a questa riflessione di Emanuele Caminada che alla meditatio mortis di Stefano Cardini. Ma più che un commento vorrei portare una fionda, e di ciascuna di queste due pagine di vita pensata – di morte pensata – fare una freccia di carta, da lanciare fra i pensieri (se ne hanno) degli estensori e sostenitori del disegno di legge che avremo forse presto la vergogna di veder trasformato in legge dello Stato italiano. Con le parole di Stefano Cardini: “Ma che un pubblico ufficiale o un magistrato della fede possa per legge varcare la soglia di questa stanza di dolore per dire a noi, babbo, quel che dovremmo fare, è così surreale che sono certo, non potrebbe sul serio accadere. Le gote gli si farebbero rosse di vergogna.”

    Questa è la parte ovvia del commento. L’altra parte è più difficile. Vorrei mandarla a entrambi gli autori di quelle pagine. Se a volte – e quante volte! – ho dubitato del valore di conoscenza di questo nostra umile, fedele attenzione ai fenomeni. Di questo ardente desiderio di “salvarli” fino al minimo dettaglio, fino all’ultimo loro palpito di vita. Di questa intermittente certezza di salvare per loro mezzo e in loro l’essenziale. Se ho dubitato di quest’arte, del senso stesso di insegnarla – della fenomenologia, infine: vorrei che sapessero che queste loro pagine tacitano il dubbio e accendono speranza, al presente. Qui ed ora, nell’attualità del vivere. Riaccendono la persuasione: sul potere che questa “passione per le differenze”, questa discrezione nella fedeltà al dato, alla sua fragile e mortale ricchezza, hanno sempre di far luce su un poco almeno dell’infinita – con parole di Emanuele Caminada – “trascendenza di ogni cosa”.

    Due pagine che, nella loro diversa, personale ecceità, raccolgono tanta verità, in ogni registro: il visibile, il soffribile, l’invisibile. E che convergono nella messa in luce di un dato. La morte biologica è l’ultima funzione della vita, scrive Emanuele, è l’organismo che si congeda prima di dissolversi. Ma l’atto del morente, che lotti o che si consegni, attesta la persona nella sua ulteriorità rispetto alla vita biologica che la sostiene, o la tradisce. Fin nell’ultima espressione, è se stesso – e chi ha assistito un morente amato lo sa, è se stesso con un’intensità incomparabile, come se tutta l’altra vita si raccogliesse nel presente di quel fil di fiato. Fuori da quella stanza c’è un mondo assurdo, di pazzi presi negli ingranaggi delle loro rumorose vanità. Là in quella stanza, ricordo, c’era un’aquila altissima e invisibile, che era in qualche modo tutt’uno col silenzio e con l’intensità di una vita che del bios ormai non aveva che un minimo resto. E chi può si congeda prima che lo faccia il suo corpo, nota con dolcezza Stefano. Vero anche questo, e se sarà sempre più vero noi lo dovremo all’altra dolce luce, quella dei Lumi umani, e della scienza quando conosce pietà.

    Resta solo, stupefatta, un’altra minore verità che da queste meditazioni è fatta del tutto evidente: l’estremo nichilismo degli idolatri, che anche quest’ultima nobiltà del nostro congedo sono disposti a toglierci in nome di quel loro idolo, il solo falso iddio loro rimasto – che forse non è neppure la vita biologica, ma il loro potere su di essa. Grazie per averci ricordato che la morte corporale invece ci è sorella, quando pone fine al morire. Grazie per averci ricordato che questo è anche il Paese di Francesco.

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