Chiesa e diritti di Daniele Menozzi (Il Mulino). Scontro, incontro (e ritorno)

venerdì, 11 Gennaio, 2013
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Chiesa e diritti umani, di Daniele Menozzi (il Mulino, 2012, 22 euro), tratta un tema di grande ampiezza, “il tormentato cammino che ha portato il cattolicesimo dalla radicale contrapposizione alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo nel 1789 alla cauta accettazione della Dichiarazione universale delle Nazioni Unite del 1948, fino al contrastato ritorno al primato della legge naturale con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI”, e da questa corretta auto-presentazione (viene dalla quarta di copertina) si può comprendere come la storia delle idee vi abbia un ruolo rilevante e forse dominante, anche se naturalmente  non esclusivo. Sullo stesso tema l’unico lavoro di lunga lena a me noto (e del resto richiamato dal Menozzi) è quello di Philippe de la Chapelle, La Déclaration universelle des droits de l’homme et le catholicisme, pubblicato nel 1967: un tomo di circa 600 pagine che tocca uno solo, il più recente, dei due episodi declarativi considerati dal  Menozzi. Basti pensare che la chiesa cattolica impiegò più d’un secolo, compreso l’intero secolo XIX, per riprendersi dallo shock della Dichiarazione del 1789. E forse il processo di ripresa non si è ancora concluso.

Come riesce nel suo intento il Menozzi in un volume di sole 270 pagine? Credo grazie alle sue notevolissime capacità di sintesi e all’agilità dell’esposizione, doti che dimostra di possedere in misura rara. Di ogni vicenda, di ogni questione, offre dei resoconti lucidissimi che ogni volta discendono al grado di dettaglio richiesto dall’equilibrio generale dell’opera, e non un millimetro più giù. A volte, naturalmente, l’avido lettore ne vorrebbe sapere di più. A questo concorrono delle note bibliografiche, non soffocanti, non ridondanti, date con la stessa misura, con lo stesso senso delle proporzioni e il rigore selettivo che reggono l’esposizione complessiva.

Perché partire dalla Dichiarazione dell’89 e non dalla Magna Carta, o, più plausibilmente, dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, o dalle dichiarazioni contenute nelle Costituzioni di alcuni degli Stati degli Stati Uniti? Perché è con la Dichiarazione dell’89 che i diritti dell’uomo e del cittadino diventano elementi costitutivi di un nuovo regime politico autonomo, ossia, non più soggetto alla guida ecclesiastica. e non più dipendente da essa per la sua legittimazione, in un  paese a larga maggioranza cattolica, la Francia (p. 10). Quanto alle dichiarazioni statunitensi, esse sono piene di riferimenti teistici e provengono da un paese nuovo, in cui mai la Chiesa Romana aveva avuto un radicamento fondamentale, e in cui i cattolici erano una tra le diverse confessioni cristiane. Era dunque una situazione affatto nuova per la Chiesa Romana, che preferì mantenervisi estranea. Infatti non vi fu mai alcuna presa di posizione papale in merito.

Data la natura accentrata dell’organizzazione ecclesiastica romana, seguirne le elaborazioni e deliberazioni significa seguirne in primo luogo le prese di posizione vaticane e papali; ma anche, nell’impostazione del Menozzi (p. 12), di “quegli ambienti della cultura cattolica, qualunque fosse la loro collocazione geografica, in cui in un determinato periodo si è pubblicamente manifestato interesse a trattare la questione dell’atteggiamento della chiesa verso i diritti umani.”

Il ventaglio di posizioni in merito agli articoli della Dichiarazione del 1789 manifestate all’Assemblea Nazionale dai rappresentanti del clero va da una sorprendente apertura all’opposizione più netta. Le posizioni di apertura riemergono poi nell’800 secondo formulazioni che diremmo oggi di cattolicesimo liberale. Il gruppo de L’Avenir guidato dal Lamennais perseguiva uno spericolato progetto teocratico, e lo voleva fare sfruttando quell’abbozzo di stato laico costituito dal regime di Luigi Filippo. La libertà religiosa appariva a Lamennais e i suoi allievi come la condizione più desiderabile per lo svolgimento del loro piano di riaffermazione della regalità di Cristo. Sia pure per questo scopo ineccepibile, arrivarono, contro le loro intenzioni e ingenue aspettative, allo scontro con il Vaticano. Ne seguì (agosto 1832) la veemente, furibonda Mirari vos. Toccò poi al Dupanloup, nel 1845, di proporre per la Chiesa l’uso dei diritti di libertà, di religione, di opinione, di stampa, per ricostruire una società cristiana che non li avrebbe riconosciuti: un po’ come i partiti islamici odierni, che partecipano alle elezioni per vincerle e instaurare la sharia.

Il Maret (1845, 1849) vide la contraddizione, e imboccò la strada dell’adesione ai principi che garantivano la libertà anche alla Chiesa. In un audace approfondimento di questa linea di pensiero, giunse alla posizione cattolico-liberale classica (p. 53) : “I capisaldi del sistema politico usciti dalla rivoluzione –sovranità nazionale, suffragio universale, libertà e uguaglianza sia sul piano civile che su quello politico- avevano la loro radice nelle Scritture, sicché era in realtà il cristianesimo ad aver ispirato agli uomini nel corso della sua storia millenaria quel rispetto della dignità dell’uomo che aveva infine trovato la sua espressione nei principi dell’Ottantanove.” Fu condannato e obbligato a ritrattare.

Il Godard (1861) sostenne con abilità e perizia filologica che la Dichiarazione, al di  là delle interpretazioni abusive condannate dal Vaticano, era pienamente in linea con l’insegnamento politico dei grandi maestri della tradizione scolastica, Tommaso, Suarez, Bellarmino. Ma egli non ebbe miglior sorte dei suoi coraggiosi predecessori. Pubblicato nel 1861, il suo libro andò all’Indice nel 1862. Il Godard, uomo erudito, scrupoloso, devoto, passò un anno a Roma per attendere  alla revisione del suo libro a contatto con i censori vaticani. I cambiamenti furono considerevoli, anche se alcuni suoi sostenitori sostennero che in fondo erano solo di dettaglio. Fu in questo frangente che il Padre Curci, allora autorevole direttore della da poco fondata ma già temutissima  Civiltà Cattolica, si produsse in una fertile invenzione, la distinzione tra tesi: la vera non compromissoria dottrina assolutistica e teocratica, e ipotesi: l’adattamento dei principi della tesi alle circostanze di fatto (pp. 63-4). L’ipotesi poteva far ritenere tollerabili, in certe circostanze obbliganti, alcuni dei diritti della Dichiarazione. Questa proposta ebbe un grande successo nella politica vaticana di quel decennio e dei successivi, e servì di tanto in tanto come salvagente anche ai cattolici liberali.

Nel 1863 toccò a Montalembert mettersi in evidenza con  suoi due famosi discorsi al Congresso di Malines, in Belgio. Antico seguace di Lamennais, era un uomo politico influente, grande oratore. Sostenne la necessità di cristianizzare la democrazia accettandone gli istituti, che del resto erano perfettamente compatibili con lo svolgimento della  sua missione da parte della Chiesa. Così come gli articoli di Lamennais avevano provocato Gregorio XVI a scrivere la Mirari vos, i discorsi di Montalembert furono “una delle spinte decisive alla redazione del Sillabo”, nota il Menozzi (p. 65).

Nel 1884 il tenace Maret scrisse un nuovo libro, La vérité catholique et la paix religieuse, e lo dedicò intrepidamente al nuovo Papa, Leone XIII. Distingueva tra una serie di istituti voluti dalla Dichiarazione dell’Ottantanove – la sovranità nazionale, l’uguaglianza di fronte alla legge, la partecipazione alla vita politica, l’ammissione di tutti i cittadini alle cariche pubbliche – che erano ormai patrimonio comune di tutta la comunità nazionale, dalle più problematiche ‘libertà moderne’, di coscienza, di culto, di stampa, che, ammetteva, diversi documenti pontifici avevano condannato. Ma la condanna era al loro senso assoluto, al fatto che potevano implicare la sostituzione della sovranità dell’individuo all’ordinamento voluto da Dio per la società. Ma attraverso un concordato lo stato avrebbe potuto riconoscere il ruolo pubblico della fede cattolica, sicché tali libertà avrebbero trovato il loro limite. Leone XIII ignorò il libro.

L’ultimo contributo notevole del cattolicesimo liberale ottocentesco francese, una sua notevole coda, è quelle del Brugerette (1902, 1908), che propose una concezione dinamica della legge naturale (p. 99). Egli, “pur asserendo che non potevano essere le specifiche contingenze storiche a stabilire i contenuti della legge naturale, non ne affidava nemmeno alla gerarchia le concrete determinazioni: sembrava piuttosto attribuirle al lento formarsi di un consenso generale nello svolgersi della vicenda umana. Ricordava infatti che anche la carta dell’89, che pur forniva un auspicabile modello di organizzazione della vita collettiva, aveva trascurato diritti (ad esempio in ordine all’uguaglianza tra i sessi, alla protezione dell’infanzia, all’accesso all’istruzione) che ormai si imponevano alla coscienza collettiva come fondamenti di una convivenza civile basata sulla giustizia voluta dalla legge naturale.” Anche Brugerette fu presto affondato.

Il percorso filosofico di Jacques Maritain è singolare per diversi aspetti. Quello principale, almeno ai fini della trattazione del Menozzi, è che esso crea una specie di ponte tra le due Dichiarazioni. Difatti, partito negli anni ’20 da posizioni francamente reazionarie (si ricordi il suo velenoso Trois reformateurs del 1926) egli reagisce all’esperienza dei totalitarismi degli anni ’30 con una serie di testi in cui ripercorre, forse inconsapevolmente, l’evoluzione del cattolicesimo liberale del suo paese nel secolo precedente. Più che Umanesimo integrale il vero punto di svolta è forse Les droits de l’homme et la loi naturelle (1942), subito seguito dal famoso Cristianesimo e democrazia (1943), dove finalmente sono regolati i conti con la Dichiarazione dell’89 (p. 152): “Non è stato concesso ai credenti integralmente fedeli al dogma cattolico, bensì a dei razionalisti, di proclamare in Francia i diritti dell’uomo e del cittadino.” Avendo maturato questa posizione, non gli ci volle più d’un altro passo per diventare il difensore nella Chiesa della Dichiarazione del 1948. Anche se era dovuta a un concorso forse occasionale di posizioni ideologiche e dottrinali affatto diverse, essa “costituiva una premessa indispensabile perché l’umanità, provata dalle umiliazioni e dalle tragedie, potesse finalmente avviarsi alla ‘futura definizione di una carta universale della vita civile’ “.

John Courtney Murrray, il gesuita statunitense che viene spesso citato con Maritain, affrontò il problema del rapporto tra legge naturale e libertà religiosa dall’angolazione della storia costituzionale del suo paese, e con una robustezza argomentativa che lo distingue dal Maritain, la cui evoluzione è principalmente dovuta all’acuta sensibilità storica ed etica. Ecco l’ammirevole sintesi del Menozzi (pp. 153-4): “A suo avviso la legge naturale…portava a sostenere il diritto alla libertà religiosa così come era garantito dal primo emendamento della Costituzione americana – con tutti i diritti civili e politici che ne conseguivano – non sulla base di una mera considerazione di contingenti opportunità politiche, bensì in ragione del fondamentale principio etico del diritto di coscienza a cercare la verità senza coercizioni della pubblica autorità.”

Negli anni seguenti alla Dichiarazione universale, l’acredine del Vaticano nei confronti di questi due uomini: dopotutto, i due più distinti tomisti del secolo, aumentò, sin che si giunse ad imporre al Courtney Murray il silenzio in tema di libertà religiosa (1954). Una simile iniziativa nei confronti del Maritain abortì, parrebbe, in quanto egli era stato per un breve periodo, dopo la seconda guerra mondiale, ambasciatore di Francia presso il Vaticano. Courtney Murray ebbe tuttavia un suo breve periodo di gloria quando, nella seconda sessione del Concilio Vaticano II, fu chiamato come perito. E sembra che la Dignitatis humanae, la dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa, sia in gran parte dovuta a lui. Anche se non fu del tutto soddisfatto della versione finale, con i margini di ambiguità che del resto erano pure rimasti, e lo avevano profondamente inquietato, nella Pacem in terris e nella Gaudium et spes.

Alla pubblicazione della Dichiarazione universale del 1948 la comunità delle chiese anglicane rispose, nella sua Conferenza di Lambeth, con una risoluzione in cui dava ad essa la sua piena adesione e impegnava tutte le sue chiese a promuoverla. Tale non fu l’atteggiamento del Vaticano, che continuò ad osteggiarla finché poté. Particolarmente interessante a questo riguardo, perché poco noto, ma ben analizzato dal Menozzi (pp.172-84) fu il tentativo di promuovere una dichiarazione internazionale cattolica dei diritti. Del resto anche dopo la Pacem in terris e il Concilio il Vaticano mantenne una riserva di principio, tanto che nel 1966 non firmò i due Patti.internazionali attuativi della Dichiarazione. Tuttavia, ci si sarebbe potuti aspettare che la chiesa romana fosse con il Concilio giunta a delle posizioni definite e stabili, se non definitive, sul tema dei diritti dell’uomo. Non è stato così. Il tema è rimasto un punctum dolens, sul quale i vari Papi sono ritornati più e più volte, con sempre nuove riserve, interpretazioni, restrizioni, ridimensionamenti, re-inquadramenti. Questa è forse per il lettore comune la parte più difficile e noiosa del libro, ma anche quella in cui più brilla l’abilità del Menozzi nel fornire instancabilmente resoconti minuziosi, ma disincantati, del febbrile lavorio della dirigenza della chiesa romana. La conclusione (p. 264) è  che “l’odierna posizione dell’autorità ecclesiastica, che lega la corretta definizione dei diritti umani alla legge naturale, di cui la chiesa è sempre stata e continua ad essere la suprema interprete, si muove in piena continuità con l’atteggiamento di quell’intrangentismo otto-novecentesco che aveva guardato ad essi con diffidenza e sospetto.”

Il ciclo da Leone XIII a Benedetto XVI si apre dunque e chiude con l’indicazione della legge naturale come dottrina etico-religiosa centrale per la Chiesa Cattolica. Di essa la dirigenza della Chiesa ha durante l’intero arco di tempo rivendicato una sorta di monopolio. Nelle parole di Paolo VI ad esempio (citate alle pp. 225-6: vengono dalla Humanae vitae del 1968)

Nessun fedele vorrà negare che al magistero della chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale… Gesù Cristo, comunicando a Pietro e agli apostoli la sua divina autorità e inviandoli a insegnare a tutte le genti i suoi comandamenti, li costituiva custodi e interpreti autentici di tutta la legge morale, non solo cioè della legge evangelica, ma anche di quella naturale. Infatti anche la legge morale è espressione della volontà di Dio, l’adempimento fedele di essa è parimenti necessario alla salvezza eterna degli uomini. Conformemente a questa sua missione, la Chiesa ha dato sempre, ma più ampiamente nel tempo recente,un adeguato insegnamento sia sulla natura del matrimonio sia sul retto uso dei diritti coniugali e sui doveri dei coniugi.

C’è poco da dire su questa rivendicazione sacrale, del resto rivolta ai “fedeli”. Parrebbe che alla morale naturale abbiano un accesso privilegiato gli organi centrali di una specifica organizzazione religiosa, una contraddizione in termini. Forse si può osservare, sul piano dei meri fatti, che (i) a differenza dell’ebraismo e dell’islamismo, il cristianesimo non è una religione normativa. Non vi sono comandamenti nei Vangeli. (ii) Solo pochi anni prima, l’ “adeguato insegnamento sulla natura del matrimonio” era mutato grazie all’impulso di Giovanni XXIII, con l’abbandono del pesante paternalismo tipico delle encicliche dei Papi precedenti  (e senza dubbio propugnato anche dall’Aquinate; ma non certo da Gesù di Nazareth…) e il riconoscimento nella Gaudium et Spes (1965) della parità dei coniugi in diritti, doveri, autorità. Come  non rinviare su questo al famoso saggio “Magistero pontificio e Sacra Scrittura” del compianto biblista Angelo Tosato (1992). La dottrina tradizionale era basata anche su un argomento che faceva appello alla “natura”: poiché è nella natura delle cose che ogni società abbia un capo, anche la famiglia ne deve avere uno: il marito.

Più interessante è chiedersi che cosa sia, per i Papi, la legge naturale. Una citazione dalla Libertas di Leone XIII (proposta da Menozzi alle pp. 74-5) dà una risposta, almeno parziale:

Dunque la legge è guida all’uomo nell’azione, e con premi e castighi lo induce al ben fare  e lo allontana dal peccato. Sovrana su tutto, tale è la legge naturale, scritta e scolpita nell’anima di ogni uomo, poiché essa non è altro che l’umana ragione che ci ordina di agire rettamente e ci vieta di peccare. Invero questa norma della ragione umana non può avere forza di legge se non perché è voce e interprete di una ragione più alta, a cui devono essere soggette la nostra mente e la nostra libertà. La forza della legge infatti consiste nell’imporre doveri e nel sancire diritti; perciò si fonda tutta sull’autorità, ossia sul potere di stabilire i doveri e di fissare i diritti, nonché di sanzionare tali disposizioni con premi e castighi; è chiaro che tutto ciò non potrebbe esistere nell’uomo se, legislatore sommo di se stesso, prescrivesse a sé la norma delle sue azioni. Dunque ne consegue che la legge di natura sia la stessa legge eterna, insita in coloro che hanno uso di ragione, e che per essa inclinano all’azione e al fine dovuto: essa è la medesima eterna ragione di Dio creatore e reggitore dell’intero universo.

Ammettiamo di essere in grado con la nostra ragione di saper scoprire che cosa è bene e che cosa è male; non cercheremo allora spontaneamente il primo ed eviteremo il secondo? E se poi fossimo di fatto costituiti in modo da “inclinare” al bene, di compiere cioè il bene senza la necessità di alcuna specifica deliberazione, non sarebbe vieppiù ridondante la presenza di uno specifico ordinamento legale, dotato per di più di forza coattiva, che ci imponga di fare il bene e di evitare il male? La prospettiva razionalistica e quella volontaristica convivono a stento in questo passo.

Alcuni teorici contemporanei della legge naturale (ad esempio John Finnis) insistono sulla distinzione tra la natura della legge naturale e il suo contenuto. Nel passo appena citato dalla Libertas appare quasi incidentalmente il contenuto principale: che si faccia il bene ed eviti il male, un imperativo alquanto vuoto, se non accompagnato da una dottrina che indichi ciò che è bene e ciò che è male. Ma l’oggetto specifico del passo è la natura della legge naturale: un ordinamento imposto da un legislatore onnipotente all’uomo, che però  è in grado di scoprirne da sé la giustezza. Ma se è in grado di far questo, può anche replicarne da sé l’istituzione, contro ciò che nel passo viene asserito.

Anche nel giusnaturalismo moderno, in quanto distinto dalla tradizione tomistica e neo-tomistica, viene riconosciuta la presenza di una legge naturale accessibile alla ragione umana e conforme alla rivelazione divina. Questa legge ha però un contenuto lievemente più specifico del semplice imperativo del bene: una forma variabile da Grozio a Hobbes a Locke di principio del dovere della conservazione in vita: in primo luogo dell’auto-conservazione, in secondo luogo del contributo alla conservazione altrui. E’ da questi imperativi che vengono poi dedotti i diritti naturali individuali. Non vi è quindi in pensatori cristiani come Grozio o Locke alcuna opposizione tra legge naturale e diritti naturali individuali.

E qual è il contenuto della legge naturale secondo i Papi più recenti? Come Menozzi illustra (p. 259), sotto Benedetto XVI ogni problema morale è soggetto ad essa, nella specifica versione adottata dalla dirigenza della Chiesa. Ma che cosa dice? Come è possibile che per Maritain e Courtney Murray dica, o implichi una cosa, per i Papi il suo opposto? Nell’aprile del 2008 Benedetto XIV partecipò all’Assemblea generale delle Nazioni Unite convenuta per celebrare il 60° anniversario della Dichiarazione. Nel suo discorso dopo aver sostenuto che “i ripetuti tentativi di reinterpretazione della carta, compiuti con l’obiettivo di svincolare i diritti in essa sanciti dal carattere trascendente della persona, costituivano un cedimento alla concezione relativistica che finiva per dissolverne l’universalità,” il pontefice asseriva che “essi trovavano il loro fondamento reale su quel principio della legge naturale ‘non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te’, la cui eterna immutabilità era stata puntualmente ricordata da Agostino.”

È dubbio che la “regola aurea” si possa chiamare un principio della legge naturale. Gli ebrei non disponevano del concetto di natura. E’ vero che si trova nel Vangelo. Ma anche nell’Antico Testamento, ed anche in altre tradizioni culturali. Appare tuttavia come principio di diritto naturale nel Decreto di Graziano. Ad ogni modo, sia Agostino sia Tommaso sapevano che da sé non porta più lontano di “fare il bene, evitare il male”. Lascia indeterminato che cos’è che gli uomini dovrebbe desiderare fosse, o non fosse, fatto loro. Forse la chiesa di Roma potrebbe rinunciare all’impossibile sogno medievista di Leone XIII, e cominciare ad approfondire il Vangelo.

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Un commento a Chiesa e diritti di Daniele Menozzi (Il Mulino). Scontro, incontro (e ritorno)

  1. Stefano Cardini
    sabato, 12 Gennaio, 2013 at 16:30

    Ricostruzione molto interessante e a tratti sorprendente. In merito alla regola aurea, a parte il fatto che nella sua formulazione evangelica mi pare suoni in positivo (fai agli altri quel che vorresti fosse fatto a te), ponendo di conseguenza qualche problema in più di assimiliazione nel pensiero politico liberale standard, resta inaggirabile l’obiezione: sì, ma a patto che abbiamo gli stessi gusti… che ripropone il problema se e in quali termini si possa legittimamente parlare, e quindi si debba, di un diritto naturale dell’uomo. Dall’excursus di Menozzi, comunque, parrebbe proprio che il contributo del pensiero cattolico al riguardo, inclusi i suoi intellettuali “interni” più illuminati, sia stato invero modesto. Quello di libertà, nella storia della Chiesa, resta un pensiero fondamentalmente eretico, che ha trovato in eretici più o meno tollerati (da Eckhart a Weil) i suoi più robusti interpreti e mai o quasi mai nei limiti tutto sommato intellettualmente e spiritualmente angusti del pensiero liberale standard. La stessa regola aurea, che ritroviamo variamente formulata in tutte le grandi tradizioni religiose, suggerisce in fondo molto di più e anche di diverso della mera sanzione dei diritti dell’individuo. Su un tema affine e visto da un’angolatura storica ma molto debitrice a Weber, segnalo il recente Cristianesimo e potere di Paolo Prodi (pp. 232, € 22,00).

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