Espressività, empatia, intersoggettività. Riflessioni a partire dal Sympatiebuch di Max Scheler (di Guido Cusinato)

lunedì, 18 Ottobre, 2010
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In occasione dell’uscita, il 22 ottobre, del Sympatiebuch di Max Scheler (Essenza e forma della simpatia, a cura di Laura Boella, FrancoAngeli Milano 2010, Collana Etica e filosofia della persona, pp. 256), riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo di Guido Cusinato, Università degli Studi di Verona.

Espressività, empatia, intersoggettività

Alcune riflessioni a partire dal Sympatiebuch di Max Scheler

Nel 1913, con il saggio Zur Phänomenologie und Theorie der Sympathiegefühle von Liebe und Hass, Max Scheler determinò una svolta sul problema della percezione dell’altro all’interno del movimento fenomenologico. Nell’Appendice a tale saggio si sostiene che la percezione del vissuto altrui non è deducibile dalla percezione delle caratteristiche meramente fisiche del corpo altrui a cui successivamente verrebbero associati, per analogia, vissuti propri: nel sorriso dell’altro posso cogliere immediatamente la sua felicità, nell’arrossire il suo pudore e nel suo sguardo una certa intenzione benevola o malevola nei miei confronti, e questo molto prima di aver percepito la dimensione, il colore o la forma fisica dei suoi occhi. Nel 1917 tale tesi venne ripresa in modo sottaciuto da Edith Stein (e questo spiegherebbe la freddezza con cui Scheler accolse il lavoro di Stein) e posta al centro della sua tesi di dottorato sull’empatia (Zum Problem der Einfühlung). Stein non riprende invece la critica di Scheler all’idea che l’“Io sono” cartesiano possa costituire il punto di partenza per la comprensione dell’altro. Ambedue queste tesi vennero ulteriormente sviluppate da Scheler nel 1923 in Essenza e forme della simpatia, che rappresenta un ampliamento e una parziale rielaborazione del saggio del 1913. (…) (continua)

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36 commenti a Espressività, empatia, intersoggettività. Riflessioni a partire dal Sympatiebuch di Max Scheler (di Guido Cusinato)

  1. giovedì, 28 Ottobre, 2010 at 16:05

    Ho molto apprezzato il saggio di Guido Cusinato e, pur non essendo in alcun modo uno specialista di Scheler, ho trovato persuasiva la sua interpretazione dell’intuizione espressivista che starebbe alla base della concezione scheleriana della soggettività. Più in generale, mi sembra convincente l’idea che sia venuto il momento di andare oltre il paradigma dell’intersoggettività facendo un passo indietro, in direzione del riconoscimento della “priorità del Noi sull’Io” (p. 2) e del fatto che “l’individuo è un vortice che si forma all’interno del flusso noicentrico” (p. 9). Per altro, pur usando un idioma filosofico diverso, anche a me è capitato in più occasioni di difendere un’idea di selfhood come posizionamento nello spazio delle ragioni, come attestazione, appropriazione o, se vogliamo, “addensamento” a partire da una condizione originaria di non coincidenza con sé (cfr., ad es., Personal Identity and the Nature of the Self, in J. GIORDANO, B. GORDIJN (a cura di), Neuroethics: Scientific, Philosophical and Ethical Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge 2010, pp. 117-133).
    Mi domandavo, però, se per chiarire perché per molti dei nostri contemporanei sia così controintuiva (e anche così poco allettante) una simile mossa teorica, non sia utile coniugare l’impianto teorico scheleriano con la ricostruzione storica che Charles Taylor ha proposto nei primi capitoli de L’età secolare. Lì, per spiegare il disincanto moderno, Taylor distingue tra due modelli di soggettività: uno, premoderno, che egli definisce “sé poroso” e uno, moderno, che egli, significativamente, definisce “schermato” (buffered). Mentre chi si percepisce (o immagina) come un sé poroso non ha grandi problemi ha concepire la propria soggettività anche come un fenomeno distribuito (in fondo, in un mondo del genere la “mente” e le sue incarnazioni le si possono incontrare un po’ dappertutto), per chi si pensa come un sé schermato, il problema essenziale è anzitutto quello di costruire ponti (con la natura, con la società, con gli altri). Quest’ultimo è uno svantaggio filosofico evidente. Ma non dobbiamo mai dimenticare i numerosi vantaggi che una simile concezione del sé ha e ha avuto e che, prima ancora che nella teoria, trovano un’incarnazione indiretta in molte pratiche sociali di affermazione e potenziamento del sé al cui centro troneggia proprio un io protetto dall’impatto diretto del mondo e degli altri.
    Per chiudere su una nota più lieve (e più adeguata al tono richiesto da un post), mi permetto di suggerire a tutti la lettura dell’ultimo romanzo di Jonathan Coe che, in inglese, non a caso si intitola The Terrible Privacy of Maxwell Sim (in italiano I terribili segreti di Maxwell Sim, Feltrinelli). Nella sua terribile solitudine, lo sfigatissimo personaggio principale ha una carica empatica tale che alla fine finisce persino per innamorarsi del suo navigatore satellitare (che ribattezza Emma). Questa straordinaria (e distorta) potenza emotiva dei sé moderni, a cui non è facile per nessuno di noi rinunciare, è una curiosa e ironica conseguenza della loro schermatura. Per citare (o criptocitare) Marx, potremmo dire che è più facile smascherare le Robinsonate che sfuggire alla loro carica seduttiva. Parafrasando Gaber, non dovremmo forse preoccuparci tanto dell’io schermato in sé, quanto dell’io schermato in noi… 🙂

  2. lunedì, 1 Novembre, 2010 at 18:15

    Molto bello l’articolo di Guido Cusinato, suggestivo e ispirato il commento di Paolo Costa… Mi scuso di intervenire con tanto ritardo in questa discussione. Vorrei, rispetto alla questione posta da Guido e ripresa da Paolo, se cioè “sia venuto il momento di andare oltre il paradigma dell’intersoggettività facendo un passo indietro, in direzione del riconoscimento della “priorità del Noi sull’Io” (p. 2) e del fatto che “l’individuo è un vortice che si forma all’interno del flusso noicentrico” (p. 9), fare un’osservazione che sintetizza il cap. 8 de La novità di ognuno, “L’universo sociale e il divenir persona”. Io credo che rinunciare a quello che Norberto Bobbio ha chiamato l’individualismo non solo metodologico, ma anche etico e ontologico sia una mossa foriera di conseguenze etiche terribili, e in verità già tranquillamente esperite nelle società a mafiosità diffusa e familismo imperante come la nostra. Questo sentimento, così scarsamente diffuso da noi, è un portato dell'”età di ragione”, vale a dire della modernità illuministica e dell’assunzione di responsabilità personale dell’azione, ovvero della nozione di autonomia morale, e forse spiega la diffusa, istintiva ostilità alla dissoluzione della sostanza personale nel noi sociale, di cui l’individuo costituirebbe un’instabile concrezione, da parte di molti filosofi provenienti, beati loro, da paesi dove protestantesimo e kantismo (che certo NON sono l’ultima parola in materia etica!!) hanno messo radici.

    Ma questa è solo la premessa un po’ scherzosa. Come Guido sa bene, certo non è intenzione di Scheler, che dopo tutto ha messo la parola “personalismo” nel sottotitolo del suo capolavoro, dissolvere la persona nella comunità! Come Guido nota, il punto fondamentale è che Scheler studia il costituirsi (attenzione: in fenomenologia, “costituzione” non è affatto sinonimo di costruzione o creazione, ma soltanto di “venire a coscienza”) dell’individualità personale a partire dalla situazione in cui veniamo al mondo: la Lebensgemeinschaft, la comunità vitale d’origine. Ebbene: Scheler, a differenza di Stein (ma non di Husserl), sembra occuparsi anche del livello prepersonale delle relazioni sociali, come terreno e presupposto del costituirsi di persone e relazioni interpersonali. Quel livello, anteriore alla costituzione di un’individualità personale, che certamente dobbiamo presupporre se vogliamo render conto di come il bambino sviluppi il proprio processo di individuazione (seguendo da vicino le analisi scheleriane ho distinto un’individuazione primaria da un’individuazione secondaria).
    Acquista quindi particolare rilievo il concetto di comunità di vita, che Scheler esemplifica con le società animali, il modo di esistere dell’orda, o quello della massa, o quello dell’appartenenza-partecipazione a un milieu familiare oppure – con una caratteristica tutta particolare – quello della coppia originaria madre-bambino. Quand’anche relegata, nelle società moderne, al livello della famiglia, la comunità di vita resta il terreno di emersione degli individui personali, che entrano poi a far parte di altri collettivi, dando vita alle organizzazioni sempre più complesse delle società umane.
    Anticipando di molto la ricerca empirica e filosofica oggi in piena fioritura sui modi di costruzione della realtà sociale e sulla cognizione sociale, Scheler, seguendo un procedimento “a strati” che è abituale in ontologia fenomenologica, dispone i modi della partecipazione affettiva o della «simpatia» in una gerarchia che va dal minimo al massimo di individuazione dei soggetti coinvolti. Alla base della gerarchia troviamo un modo della «simpatia», della condivisione percettivo-emozionale, al quale Scheler (e Theodor Lipps prima di lui) dà il nome di «unipatia».
    Quello che è affascinante è quanto le intuizioni di un filosofo siano state in questo caso indipendentemente confermate dalla ricerca empirica successiva, e in particolare dalla ricerca neurobiologica.
    Ma io non sottolinerei tanto il contrasto, quanto la diversità di piani rispetto a Stein, che si occupa solo del “faccia a faccia”, del livello di interazione con l’altro caratteristico di individui formati e costituiti – il livello propriamente “personale” di interazione per quanto riguarda la specie umana. Certamente la TERMINOLOGIA dei due filosofi è differente, perché Scheler usa EINFUEHLUNG come sinonimo di una delle teorie sbagliate della percezione dell’altro, quella lippsiana, che anche Stein confuta (ma per Stein il termine Einfuehlung denota il fenomeno, non la sua interpretazione sbagliata: e naturalmente sulla critica delle teorie proiettive e delle teorie di analogia, antesignane delle contemporanee theory theory e simulation theory, certo Stein ha molto imparato da Scheler, ma dopotutto anche da Husserl (vedi tutto il secondo libro delle Idee). Ma in Scheler c’è ANCHE un livello corrispondente a quello dell’empatia steiniana, ed è quello del NACHERLEBEN, il quale non è ancora affatto necessariamente condivisione personale (MITFREUDE, MITLEID eccetera, cioè della risposta simpatetica all’emozione empatizzata), ma può naturalmente andare insieme con il sadismo, che naturalmente PRESUPPONE l’EMPATIA: ossia, secondo la definizione di Stein che Scheler non mi sembra mai revochi in dubbio, quel tipo di vissuti sui generis per mezzo dei quali percepiamo un altro io come tale, e che in questo senso è un modo della cognizione diretta (originalmente offerente in terminologia husserliana): ovviamente NACH-ERLEBEN una gioia altrui non è secondo Stein né secondo Scheler PROVARE quella gioia (questo sarebbe il livello del contagio, che in verità anche Stein considera, e che corrisponde all’unipatia o al livello di trasmissione sociale più elementare), ma avvertirla (e avere la risposta affettiva che si ha, ad esempio di rabbia o frustrazione se uno è sadico ecc). (Neanche io sopporto l’appiattimento della nozione di empatia su quella di compassione o avere il coeur in man, come si dice a Milano).

    Insomma il faccia a faccia steiniano corrisponde alla comunicazione non necessariamente verbale di due persone individuate, e certamente come ogni esperienza personale comporta anche una prosecuzione della costituzione di sé (sarebbe ingeneroso dire che Stein non abbia sostenuto questo, ci dedica metà del saggio sull’empatia)! – Come spesso succede, apparenti divergenze rientrano in un quadro armonico non appena si introduca l’analisi per strati.

    In modo un po’ diverso, anche Zhavi in un articolo Beyond Empathy (Journal of Consciousness Studies 2001, lo mando volentieri a chi me lo chiede) sostiene una conciliazione analoga a questa…

  3. martedì, 2 Novembre, 2010 at 17:57

    Per rispondere scherzosamente all’osservazione iniziale di Roberta, vale la pena di ricordare che il familismo e l’immoralismo italiano sono anche una forma, poco raccomandabile, di individualismo. Non dobbiamo mai dimenticarci che il motto nazionale è pur sempre “fatti gli affari tuoi” (o, più volgarmente, “fregatene”). Kin selection (o il dawkinsiano egoismo genetico) in salsa mediterranea…
    Ma sul punto di partenza penso che siamo tutti d’accordo (così come sul ricorso all’analisi per strati). Il problema filosofico interessante è in effetti quello dell’identità personale. Come e dove si costituisce il sé, la persona? Quali sono i suoi limiti e le sue risorse? Su quali leve può fare affidamento l’innegabile spirito d’iniziativa degli esseri umani? Certo, un ritratto adeguato di questi aspetti della nostra vita interiore reclama la distinzione tra individuazione primaria e secondaria, ma è anche vero che è sconsigliabile una sua applicazione troppo rigida. Per ridurre una questione delicatissima a una battuta, mi verrebbe da dire che non è certo su una dicotomia secca tra adultità e minorità che possiamo fare leva per capire l’enigma della nostra umanità. In proposito vale forse la pena di ricordare i celebri versi di Alexander Pope: «Know then thyself, presume not God to scan; / The proper study of Mankind is Man. / Placed on this isthmus of a middle state, / A Being darkly wise, and rudely great: / With too much knowledge for the Sceptic side, / With too much weakness for the Stoic’s pride, / He hangs between; in doubt to act, or rest, / In doubt to deem himself a God, or Beast; / In doubt his Mind or Body to prefer, / Born but to die, and reas’ning but to err; / Alike in ignorance, his reason such, / Whether he thinks too little, or too much: / Chaos of Thought and Passion, all confused; / Still by himself abused, or disabused; / Created half to rise, and half to fall; / Great lord of all things, yet a prey to all; / Sole judge of Truth, in endless Error hurled: / The Glory, jest, and riddle of the world!» (An Essay on Man, 1734, Epistle II, vv. 1-18).

  4. giovedì, 4 Novembre, 2010 at 10:50

    Magnifico davvero il tuo Alexander Pope!
    Lo proporrò ai miei studenti alla prima occasione, grazie del regalo!
    Sono molto sensibile alla tua riflessione. Spero che l’articolazione di familismo e particolarismo (nome del nostro vizio naturale, che io preferisco di molto a “individualismo”) che propongo nel libretto che sta per uscire, La questione morale, risulti più chiara e convincente delle poche note del mio precedente commento.

  5. Guido Cusinato
    giovedì, 4 Novembre, 2010 at 16:57

    Ringrazio Paolo e Roberta: osservazioni che mi sono rimaste dentro. Mi pare che ambedue, anche se da prospettive diverse, sottolineino i limiti di un sé schermato, per riprendere Paolo, che non è immerso fin dall’inizio nel contatto con gli altri, ma anche quelli di un sé che, come osserva Roberta, non riesce a crescere e a venir fuori da questa dimensione noicentrica. Certo ci sono diverse forme di aggregazione sociale e non sempre sono positive: i disastri provocati dai movimenti populistici ne sono una prova e costringono, a mio avviso, ad assumere un atteggiamento meno ingenuo verso un concetto facile di democrazia. La democrazia al contrario è difficile. Le forme e i processi di aggregazione sociale, in una situazione come quella dell’Italia contemporanea, si sviluppano spesso in negativo, compattati da sentimenti negativi come la paura, il risentimento, l’odio, su cui pesca a piene mani la demagogia politica. Il rischio è che nella liquidità postmoderna le pulsioni timotiche finiscano con il prendere il sopravvento grazie a un diffuso analfabetismo emozionale di massa. Cioè grazie a una mancanza di spazi di formazione della persona. Il sé incapace di crescere non assolutizza solo se stesso (egocentrismo), ma ha bisogno, nella propria fragilità, di assolutizzare anche il gruppo noicentrico di appartenenza, riversando violenza sul diverso o il forestiero.

    Detto questo vorrei ritornare brevemente sulla tesi principale del mio articolo, colta molto bene da Paolo. A mio avviso è giunto il momento di mettere in discussione la centralità del concetto di “intersoggettività” nelle fenomenologie dell’alterità, e questo per un motivo ben preciso: se è vero che l’individuo si forma come un vortice da un flusso noicenrico, non è corretto descrivere la fenomenologia dell’alterità nei termini di una relazione fra soggetti già conclusi che solo successivamente gettano ponti fra di loro per stabilire contatti. Il neonato entra in contato con lo sguardo della madre probabilmente nello stesso istante in cui entra in contatto con se stesso. Il vortice dell’individuo è “poroso”, cioè immerso fin dall’inizio in una dimensione noicentrica. Concordo pienamente con Roberta quando osserva che se l’individuo rimanesse in questa situazione noicenrica significherebbe “eliminare l’individualismo non solo metodologico, ma anche etico e ontologico, una mossa foriera di conseguenze etiche terribili, e in verità già tranquillamente esperite nelle società a mafiosità diffusa e familismo imperante come la nostra”. Questo però personalmente non mi impedisce di riconoscere che il punto di partenza rimane il neocentrismo, la priorità del Noi sull’Io. Il problema piuttosto diventerà: come faccio a sviluppare quel vortice fino a uscire dal noicentrismo e dar forma a una identità personale autonoma rispetto a quelle che Foucault chiamava tecnologie del potere? Anche a questo livello della questione l’“inter-soggettività” mi appare un concetto inadeguato: l’intersoggettività infatti funziona a meraviglia proprio a livello delle relazioni sociali noicenriche, in cui siamo soggetti adulti che recitano un ruolo sociale. Se invece mi pongo il problema della “costituzione” o “Bildung” dell’identità personale non mi serve rapportarmi all’altro come a un “soggetto”, bensì ho bisogno prima di tutto d’incontrare una “esemplarità”. Ma nell’esemplarità è racchiuso un percorso esistenziale, che nell’articolo chiamavo “espressività”, per cui il punto di partenza non è una situazione di “intersoggetti”, bensì una manifestatività originaria intenzionata ad esprimersi. In altri termini il processo di formazione della persona mi sembra descrivibile come il percorso compiuto da quel vortice per superare il momento noicenrico. È quando questo percorso risulta particolarmente riuscito che viene percepito come esemplare, ed è questa esemplarità la più grande forza a disposizione della Bildung della persona.

  6. venerdì, 5 Novembre, 2010 at 09:48

    Ringrazio Guido per le precisazioni e le ulteriori riflessioni. Il tema dell’esemplarità mi è sempre sembrato affascinante e, nel complesso, sottovalutato dalla nostra tradizione filosofica. È dai tempi della mia tesi di laurea che vorrei dedicarmici, ma non ho mai trovato il tempo, l’energia e la lucidità per sviscerarlo come si deve. Ogni tanto mi viene il sospetto che per affrontarlo adeguatamente ci vorrebbe un intero team di ricerca, composto da filosofi, storici, antropologi, psicologi, ecc. Comunque, nell’attesa leggerò con attenzione “La totalità incompiuta” e cercherò di capire meglio la posizione difesa da Guido. Così su due piedi, mi verrebbe però subito da fare una domanda. Che cosa esattamente significa “superare il momento noicentrico”? Non credo che l’unica alternativa che possiamo immaginare sia la chiusura, il rintanamento all’interno di un io schermato, irrigidito, ossessionato dall’autonomia, l’autosupervisione, l’autocontrollo. Un modello più interessante è quello offerto da un sé capace di far leva sulla non perfetta coincidenza col proprio ambiente intenzionale o, per usare un lessico plessneriano, su una relativa non centratura, per familiarizzarsi con ragioni non strettamente “peripersonali”, in taluni casi persino schiettamente impersonali, che possono diventare l’occasione per un affrancamento e una fenomenale espansione della soggettività personale. Mi sembra plausibile supporre che le prime e più decisive esperienze di questa dilatazione del sé avvengano grazie all’incontro, stupefacente e inquietante, con vicende o persone “esemplari” che, pur appartenendo al nostro orizzonte di significati, ne trascendono i confini, hanno un’eccedenza che ci proietta fuori dal nostro centro di gravità esistenziale, ci destabilizza e decentra. Non è così che si dischiude per noi l’accesso a nuovi ambiti dello spazio delle ragioni e, con essi, alla costruzione/costituzione dell’identità personale?

  7. Andrea Zhok
    domenica, 7 Novembre, 2010 at 12:07

    Ho seguito con molto interesse su questo blog lo scambio occasionato dall’uscita della nuova traduzione del Sympathiebuch e dal bel commento di Guido Cusinato. È un tema che mi ha appassionato e che continua ad appassionarmi, e cui, nel mio piccolo, ho cercato di dare qualche contributo. Ciò che però, seguendo lo scambio tra Cusinato, De Monticelli e Paolo Costa, continuava a frullarmi per la testa è un lievissimo disagio, cui stentavo a dare un’identità teorica. Alla fin fine però credo di esserci arrivato. Il fatto è che tutte le analisi sulla costituzione dell’intersoggettività e sul riconoscimento dell’Alter Ego sembrano lasciar fuori un punto che solo apparentemente può sembrare ‘empirico’, o ‘sovradeterminato’, ma che invece mi pare del tutto degno di considerazione teoretica. Di norma tali questioni hanno di mira un quadro di condizioni esperienziali o trascendentali tali per cui noi saremmo in grado di riconoscere qualcuno come un soggetto-come-noi, un Alter ego appunto. Tali questioni mettono in campo la possibilità di riconoscere l’altro come un soggetto riflettente o come un soggetto ‘normale’, ecc. C’è però un’ottica che mi pare trascurata e dal cui punto di vista mi piacerebbe porre la seguente domanda: esiste un ordine di ragioni che non è né cognitivo, né antropologico, ma morale, tale per cui noi siamo radicalmente impediti a riconoscere l’altro come un Alter Ego? E se esiste, la sua esistenza è a sua volta indice di un errore (morale o cognitivo) oppure si tratta di un misconoscimento legittimabile? (continua la lettura dell’articolo di Andrea Zhok Il problema del riconoscimento intersoggettivo: tra Scheler e Berlusconi con i commenti seguiti).

  8. Guido Cusinato
    lunedì, 8 Novembre, 2010 at 09:05

    Bella e impegnativa la domanda di Paolo: come fa il vortice a uscire dal piano noicentrico? È un problema che mi pare centrale per l’esistenza umana, forse quello che la caratterizza meglio. Uscire dal noicentrismo e riconoscere l’altro implica a mio avviso prima di tutto una messa fra parentesi del proprio egocentrismo (è il tema della “riduzione catartica” che avevo posto al centro del libro “Katharsis”). Ma non è facile, anche perché questo significa che non mi troverò di fronte solo una alterità positiva, ma anche un alter ego rappresentante di quella tribù sociale noicentrica, compattata dalla paura, dal risentimento e dall’odio, da cui cerco faticosamente di emanciparmi, ma che reagisce con violenza, attraverso quelle che Foucault chiamava le tecnologie del potere, per contrastare l’esemplarità del mio sforzo (come accadde al povero prigioniero della caverna quando ritornò per liberare i suoi compagni).

    Se invece guardo a come avviene il processo di fuoriuscita, mi sembra di poter dire che tale passaggio avviene grazie alla co-esecuzione dell’atto della persona: con ogni nuovo atto la persona aggiunge un nuovo tassello alla propria fisionomia, fa un ulteriore passo in avanti nel processo di costituzione della propria identità. Si fa contagiare dall’esperienza, laddove nel fare abitudinario non c’è esperienza – nel senso di incontro di una novità, e quindi non c’è trasformazione – ma solo irritazioni da neutralizzare. La co-esecuzione dell’atto avviene però di fronte a una alterità solidale a questo sforzo e pertanto cresce solo in una dimensione partecipativa. È a questo punto che si pone il problema dell’esemplarità: nella co-esecuzione dell’atto la persona non imita il desiderio mimetico di un altro, ma si lascia contagiare da ciò che dà intensità alla vita dell’altro. Non è un modello che serve a imparare un ruolo o una funzione uguale per tutti, ma appunto un’esemplarità che ci consente di diventare sempre più noi stessi. È la tesi che ho tentato di sviluppare in “La Totalità incompiuta”.

    A mio avviso però il problema dell’esemplarità merita di essere sviluppato ulteriormente. In questo senso ho proposto a Caminada di tradurre “Modelli e capi” di Scheler, un testo a mio avviso decisivo sulla questione dell’esemplarità (in uscita a Gennaio), e in cui ho esplicitato la mia posizione nel “Saggio introduttivo” al testo.

    Uscita dal piano noicentrico, co-esecuzione dell’atto, costituzione dell’identità personale ed esemplarità vengono dunque a convergere verso quella che si potrebbe chiamare “rinascita della persona”. Rimanere sul piano noicentrico significherebbe invece rinunciare a sviluppare un’identità autonoma dai modelli sociali dominanti. Per questo ritengo che la persona sia rimasta l’ultimo momento realmente eversivo nei confronti dell’allevamento mediatico di massa. Certo questo significa mettere a fuoco il concetto di persona uscendo da molti fraintendimenti.

    Ma l’uscita dal piano noicentrico potrebbe essere ripensata anche grazie alla cura sui riproposta da Hadot e Foucault. E senza abbandonare sbrigativamente Socrate-Platone a favore di Aristotele, come proposto ancora una volta da Nussbaum. Questo significherebbe riproporre l’immagine di comodo del Platone perso nella contemplazione del mondo delle idee e disinteressato ai problemi dell’esistenza umana. A me sembra al contrario che proprio i dialoghi di Socrate siano quelli migliori per confrontasi con il tema del risveglio e della maieutica dell’esemplarità, ma anche con la fenomenologia della sfera affettiva e l’intelligenza delle emozioni, che molto prima che da Nussbaum era stata scoperta da Hume e da Scheler.

  9. Giacomo Pezzano
    lunedì, 20 Dicembre, 2010 at 12:15

    Intervengo molto timidamente (da studente neolaureato appassionato e interessato dall’antropologia filosofica) per dire che trovo tremendamente interessanti e decisive le questioni sollevate negli interventi. Mi ha colpito molto come Cusinato ed Esposito giungano a sollevare questioni analoghe da punti di partenza e attraverso percorsi diversissimi se non opposti: mantenere sempre aperta l’apertura e non irrigidirla o cristallizzarla in qualsivoglia forma (soggetto, individuo, cosa, oggetto, ecc.). Ma mentre Cusinato crede che la persona sia l’unico momento davvero eversivo, Esposito crede invece che a impedire ogni eversione sia proprio la persona (il primo la coglie nella sua ambiguità fondamentale, sì maschera ma anche luogo di irripetibile unicità, mentre il secondo tende a vederla solamente come dispositivo artificiale di potere, per così dire) – giungendo a chiamare in causa un elemento ‘impersonale’ che, forse similmente a quanto sottolineato da Costa, de-centra ed espande la dimensione personale. Detto in breve e male, evidentemente. Ma volevo sottolinearlo perché mi sembra che la traccia generale di un possibile percorso di posizione del problema (risoluzione non penso sia una parola amica alla filosofia) lo si trova proprio nel punto di intersezione tra la visione di Cusinato e quella di Esposito (molto influenzata da Deleuze, tra gli altri).

    Essere aperti al mondo significa essere esposti al comune, essere co-aperti, il punto di ‘partenza’ è il flusso noicentrico, la porosità, la relazione, come avete scritto: il polo identitario (persona o soggetto che venga considerato) è ‘derivato’, e questo nel senso che per giungere a un minimo di orientamento l’ego si costituisce presto (da un certo punto di vista, già a due anni si concepisce il possesso e la dimensione del ‘mio’), eppure proprio in ragione del fatto che apertura è esposizione (qui ho in mente anche le tante suggestive pagine di Nancy) tale ego non sarà mai compiuto, nemmeno esso stesso si sentirà mai pieno e compatto, ‘scehermato’. Chiunque (o quasi) se messo di fronte alla domanda “chi sei davvero?” tituba a rispondere, come se la cosa più certa che sembra possedere-essere (l’ego compiuto) risulti inafferrabile e sfuggente. Voglio dire che tutti sappiamo di non essere persone anche se viviamo come se lo fossimo. L’uomo è l’animale non stabilizzato (Nietzsche), è difficile essere umani (Scheler), essere umani si diventa (Deleuze): l’essere umano è un da compiersi, è il da determinarsi. Voglio dire, molto banalmente me rendo conto, che ciò che siamo abituati a dare per scontato perché ne abbiamo bisogno per sentirci vivi ed esistenti (l’io, in tutte le sue forme) è in realtà ciò che è sempre da costituirsi, l’ultimo elemento a formarsi (quando si forma) perché va costruito ed edificato, educato se volete (fatto-venir-fuori). In questo senso penso si dovrebbe operare un vero e proprio ribaltamento: partire dall’io, certo, ma per dire che l’io non c’è perché però ci sarà (altrimenti si scivola nell’individualismo del capitale e nel soggettivismo proprietario), e partire dunque dal “comune”, certo, ma per dire che è quel costitutivo che non è istitutivo, nel senso che è ciò che ci abita senza per questo ridurci, ciò con cui dobbiamo sempre fare i conti senza contarci però troppo, se mi si passa l’espressione (altrimenti si scivola nelle secche dell’organicismo comunitario).
    Ed è proprio muovendo dall’originaria esposizione come co-esposizione (esposizione al co-) che si può concepire come la ‘costruzione’ (termine rischioso, ma che qui uso per semplificare, che si potrebbe però concepire proprio come co-struzione) della persona (nella visione di Cusinato, o del soggetto, o del sé, o di se stessi, ecc.) chiami sempre e comunque in causa la dimensione del “cum” (co-esecuzione e com-partecipatività, esemplarità, e così via per Cusinato). E di qui anche l’importanza della sfera emotiva e affettiva, perché esse rappresentano in quanto tali relazione, relazione al mondo prima di tutto, ma anche relazione con se stessi, ponte per la realizzazione e il divenire di se stessi: la Stimmung in tal senso è quella dimensione peculiare nel suo essere peculiarmente relazionata, l’essere persona è l’essere come si è rispetto-a (al mondo, agli altri), non tanto l’essere ciò che si è in uno spazio as-soluto e dunque separato da ogni con-tatto. Peraltro credo che non solo l’affettività la stessa razionalità vada concepita come relazionalità, dunque come r(el)azionalità, altrimenti si rischia di operare una scissione troppo netta tra ‘l’ordine del cuore’ e ‘l’ordine della mente’. Ma questa è ancora altra questione.
    Chiudo il mio modestissimo contributo.

  10. Guido Cusinato
    martedì, 11 Gennaio, 2011 at 12:27

    Gli interrogativi sollevati da Pezzano mi sembrano pienamente legittimi, per cui cercherò di dare una risposta, anche se necessariamente provvisoria e riguardante esclusivamente il mio punto di vista.

    Roberto Esposito con “antropologia filosofica” intende sicuramente uno degli ambiti in cui agisce il paradigma immunitario volto a neutralizzare il rischio derivante dall’esposizione dell’uomo all’apertura. Questa concezione è esattamente opposta a quella che negli ultimi anni ho proposto di designare come “antropologia filosofica della Bildung”. In quest’ultima infatti l’essere umano costituisce la propria identità proprio nel gesto con cui trascende se stesso grazie alla contaminazione positiva di una esemplarità altrui. È solo in questa autotrascendenza che l’uomo riesce nel compito della autoformazione. Ma “autotrascendenza e autoformazione” (due momenti già connessi con molta intelligenza da Hans Joas nel 1997 (Die Entstehung der Werte), e che danno anche il titolo a una bella monografia di Daniele Bruzzone su di un pensatore fortemente influenzato da Scheler: Viktor Frankl) sono possibili solo se la Bildung avviene sulla base di una Vorbildung, cioè di una contaminazione che strappa l’individuo dalla propria intrascendenza solipsistica. In questo senso Esposito, con la critica al paradigma immunitario, in realtà si trova in parziale sintonia con la migliore antropologia filosofica del novecento.

    A mio avviso l’interrogativo da cui parte Pezzano – perché io ed Esposito giungiamo a sollevare questioni analoghe partendo da punti di vista diversissimi – può essere in parte spiegata dal fatto che Esposito (ma anche Agamben e Nancy) riprendono, consapevolmente o meno, alcune tesi sviluppate fra il 1913 e il 1927 da Max Scheler, cioè dall’autore dell’antropologia filosofica che criticano. È a Scheler infatti che sono storicamente riconducibili i tentativi di ripensare l’esistenza dell’uomo al di fuori della chiusura ambientale di von Uexküll, quindi i concetti di Apertura o Weltoffenheit e la critica alle antropologie che presupponevano un’essenza dell’uomo già data. Da una indagine sui testi è facilmente dimostrabile che proprio l’antropologia filosofica della Bildung è stata, all’inizio del Novecento, uno dei tentativi più rilevanti di critica dell’antropocentrismo e delle principali idee che l’uomo si era fatto di se stesso. Qui a mio avviso è richiesto un salto di qualità relativo al dibattito sul termine “antropologia filosofica”, che tenga conto ad es. dei risultati delle ricerche svolte in Germania da Joachim Fischer.

    Ma vorrei andare oltre i problemi terminologici per cercare di arrivare alla sostanza del problema: alla metà degli anni Venti l’antropologia filosofica della Bildung era arrivata alla conclusione che l’uomo è l’essere che non ha una essenza predefinita e che per dare una forma alla propria esistenza deve autotrascendersi. Se l’uomo non accetta il rischio implicito nell’esposizione all’apertura rimette in discussione il proprio principio costitutivo. Il problema è che per dare forma alla propria esistenza, oltre la chiusura ambientale, l’uomo ha bisogno di un aiuto che provenga dall’alterità (Vorbild), cioè ha bisogno di essere contaminato da una esemplarità.

    È per lo meno a partire da questo ultimo aspetto, il legame fra autotrascendenza e autoformazione, che la mia strada e quella di Esposito divergono. In particolare nelle posizioni di Esposito, finora (ma mi auguro che ciò avvenga nei suoi prossimi libri), non ho trovato risposte soddisfacenti alle seguenti questioni cruciali:
    1) Superare il meccanismo dell’immunitarismo significa cogliere il rischio del contagio come opportunità positiva. Ma come può l’uomo costituire la propria identità grazie all’influsso dell’esemplarità altrui quando ogni sistema autopoietico costituisce la propria in base a una chiusura sistemica? Tale apertura non comporterebbe automaticamente la dissipazione del sistema? La mia ipotesi è radicale: la persona è per l’appunto un sistema non “autopoietico”, nel senso di Luhmann, ma “eteropoietico”.
    2) Se questo è vero, allora la persona non dà forma alla propria esistenza in base a una qualche auto-progettualità del soggetto – del resto in sociologia l’auto-direzionalità è già entrata in crisi ai tempi di Riesman – ma in base a una qualche forma di meta-orientamento che non è arbitrariamente modificabile dalla propria volontà. Una volta smascherate con Nietzsche le forme di meta-orientamento che s’impongono dall’alto con il comando, quali sono le forme di meta-orientamento che guidano “sottovoce” l’uomo nell’apertura? La mia risposta è che l’Apertura non è una “Zona franca” sottratta a ogni senso, valore, orientamento che non siano autoreferenzialmente riconducibili al soggetto, ma un “Vuoto promettente”, cioè uno spazio che indica in modo non apodittico qualcosa che ancora non è dato. Ritengo che qui sia necessario andare oltre la critica del pensiero postmoderno a qualsiasi forma di meta-orientamento e prevedere invece una forma di meta-orientamento che parte dal “basso” perché radicata nella sfera affettiva. Ma questo cambierebbe tutto…
    3) Qual è allora il vero momento eversivo nei confronti dei processi di immunizzazione? La mia risposta è che sia proprio la persona (il greco prosopon significa principalmente volto, è solo nel latino che il significato principale diventa quello di maschera, ma con l’importante eccezione di Agostino), che definisco come quell’identità che l’uomo assume trascendendo se stesso grazie all’esemplarità altrui. In questa prospettiva la persona, nella misura in cui si fa contagiare dall’esemplarità altrui, dà forma alla propria identità trascendendo i processi di immunizzazione. Quello che invece Esposito critica con il termine “persona”, nei miei lavori fa parte del problema della messa fra parentesi dell’egocentrismo (ad es. “Katharsis”) o della cultura del narcisismo.

  11. Giacomo Pezzano
    domenica, 16 Gennaio, 2011 at 11:58

    Premetto subito che concordo con molte delle osservazioni di Cusinato e anzi lo ringrazio per gli ulteriori chiarimenti e le nuove riaperture. Direi che l’antropologia filosofica che ha in mente Esposito è, detto troppo in breve, quella delle derive conservatorie di Gehlen, e di alcuni passaggi scheleriani su cui insiste molto, senza però forse relazionarli adeguatamente al contesto e all’insieme delle riflessioni di Scheler (nella fattispecie, l’idea per la quale la «divisione eidetica» che «scinde l’“uomo” come unità naturale» è «indicativa di una divisione che si opera all’interno dell’umanità, che è infinitamente più importante di quella che separa, in senso naturalistico, l’uomo dall’animale»). Non c’è dubbio che la messa tra parentesi del dato storico da parte di Esposito lo espone ad alcuni importanti travisamenti, in parte probabilmente anche per quanto riguarda l’opere gehleniana, ma al di là dell’aspetto di ‘fedeltà storica’ a me interessa qui soprattutto evidenziare uno snodo concettuale.

    Mi muovo (in maniera libera) nei tre punti sollevati in chiusura da Cusinato:

    1) Weizsäcker (ma è giusto un esempio) sottolinea l’importanza del fattore individuazione nel vivente, vale a dire che vivere significa essere unici ed essere unici significa, tra le altre cose, raggruppare gli stimoli per modularne le variazioni e organizzare così tanto sé quanto il proprio mondo: in questo senso, concordo in pieno con Cusinato, una componente fondamentale già solo della vita organica è quella dell’immunizzazione intesa come limitazione che il soggetto biologico opera nel momento stesso in cui si costituisce come tale, per costituirsi come tale. Non c’è interno senza esterno e viceversa, d’accordo: ma l’interno che viene a costituirsi è tale in quanto comunque distinto dall’esterno al quale è aperto, e dunque è come immunizzato. Voglio dire, già solo i limiti corporei sono una forma di confinamento e di immunizzazione. La peculiarità dell’umano – per esempio –, e su questo Esposito insiste molto, è che nell’uomo il corpo è luogo di esposizione (expeausition, con Nancy), di protensione, di sconfinamento, di adesione all’extra-organico ecc., e lo è solo in quanto è prima di tutto, come Husserl e Merleau-Ponty hanno insegnato, corpo-proprio (centro di espropriazione e di eccentricità proprio in quanto centrico, seppur in maniera peculiare), ossia membrana e limite che separa per congiungere e viceversa. Ed è proprio in questa dimensione paradossale, dialettica e fatta di reciprocità che si può poi far emergere anche la dimensione dell’eteropoieticità, fare dell’uomo un sistema aperto nel senso appunto di essere in grado di lasciarsi contaminare e di contaminare. Direi che Esposito e Cusinato condividono lo sfondo concettuale sin qui (anche se al primo sembra interessare assai meno il “come”).

    2) Scompare ogni auto-progettualità del soggetto anche per Esposito, perché per lui scompare del tutto il soggetto. Qui Nietzsche viene portato agli estremi attraverso Deleuze. Ed è qui che Esposito inizia a fare un mezzo passo diverso rispetto a Cusinato: scompare il meta-orientamento, perché la dimensione del “meta” è la dimensione del trascendente, mentre occorre salvaguardare l’intrinseca immanenza della vita in quanto tale. Della vita e non dell’uomo. Di quale uomo? Dell’uomo pensato come centro di immunità, sostanzialmente. Dell’uomo dell’antropologia filosofica, per Esposito (e qui sta il suo grande fraintendimento, concordo in pieno con Cusinato). Non dell’uomo pensato come gesto di auto-etero-trascendimento. Ma, dicevo, il passo fatto è solo mezzo, nel senso che esiste una sorta di intra-orientamento, che è quello della propria potenza, del divenire se stessi mi spingerei a dire, di un se stessi che è però concepito in termini relazionali e “alterati” (Je est un autre): quel vuoto promettente di cui parla Cusinato potrebbe corrispondere all’invito che il se stessi fa a se stessi di diventare ciò che si è, un invito che appunto non è un obbligo in termini morali e nemmeno una determinazione specifica della modalità attraverso cui accettarlo e prenderlo in carico. E a voler essere benevoli con Esposito si potrebbe anche concepire questo “sé contaminato” in termini di affetti, essendo la sfera affettiva la sfera relazionale per eccellenza. Il punto però è che allora è proprio il “come” un po’ (per ora) sottovalutato da Esposito a risultare decisivo.

    3) Qui giungiamo all’opposizione totale tra la visione di Esposito e quella di Cusinato (tra i concetti che si esprimono attraverso le loro opere, per meglio dire): “uccidere” la persona o lasciare che finalmente possa esprimersi? Aprire le porte al flusso dell’impersonale che travolge la maschera incancrenita della persona ma che rischia anche di sfigurare il volto che le sta sotto o far sì che la persona, nel suo essere intrinsecamente relazionale (un viso esiste solo rispetto a un altro viso), si lasci contaminare per diventare se stessa? Il grosso problema è che la prima prospettiva resta ancora troppo sfumata e incategorizzabile (d’altronde, rifiuta esplicitamente ogni categoria vedendola come di per sé gerarchizzante), soprattutto se priva di un qualunque punto di appoggio. E, aggiungerei, sottovaluta proprio alcuni elementi centrali proprio nell’antropologia filosofica: che l’uomo venga al mondo privo di istinti guida significa che non possiede dalla nascita un’identità specifica, che deve attivamente costruirla, che deve (come proprio Cusinato sottolinea) nascere una seconda volta per essere davvero nato (mi viene in mente a tal proposito un’annotazione colta a una mostra sull’arte russa contemporanea davvero penetrante: “Uovo di caviale. Charms scrisse di esser nato da uova di caviale e racconta che suo zio, dopo averlo spalmato sul pane, era sul punto di mangiarselo. Nascere caviale significa, dal punto di vista biologico, nascere solo provvisoriamente. Cosa succederà in seguito dipende dalle circostanze. In fin dei conti è questo il modello della nascita e della vita dell’uomo. E così, per tutta la vita, ci si continua a chiedere: sono nato o non sono nato?”). Costruire a partire da questa non specificità, figlia della fuoriuscita dall’Umwelt, significa essere consegnati all’apertura nella forma dell’apertura all’alterità, e questo era centrale anche nell’opera di Gehlen (dico proprio Gehlen e non altri proprio perché è l’autore, mi scuso per la stringata banalità, ‘più immunitario’ tra i grandi nomi dell’antropologia filosofica), che sottolineava il carattere comunicativo dell’esperienza umana. Questo per Gehlen significava almeno due cose: prima di tutto, essere in commercio con il mondo, agire, è entrare in contatto con l’alterità del mondo stesso; in secondo luogo, dover fare delle proprie pulsioni vere e proprie azioni attraverso la ‘contaminazione’ sociale (l’apprendimento, l’educazione, la mimesi, ecc.) significa entrare in contatto con gli altri esseri umani, che informano sin nel profondo tutti i nostri più banali comportamenti. In questo senso, come tentavo di sottolineare anche nel precedente intervento, il dato primario è paradossalmente l’alterità, il noi, persino il si (il Man ‘odiato’ da Heidegger, che però evidenziava come proprio a partire dalla sua inautenticità fosse possibile aprirsi all’autenticità): per essere davvero noi stessi siamo costretti a rinascere, a mettere in discussione ciò che abbiamo appreso, ereditato, imparato, ecc. Si diventa davvero genitori non semplicemente quando si agisce come i propri genitori, ma quando si prende consapevolezza che il loro modo di agire era un modo e non per forza il “mio” modo, o che esso è anche il “mio” modo solamente ora che ne ho preso piena coscienza. È giusto un banale esempio, che però apre a un terzo aspetto che forse non è direttamente presente in Gehlen (di certo lo è di più in Scheler, i lavori di Cusinato insegnano) ma che è comunque presente nell’impianto antropologico da lui aperto. L’uomo può diventare se stesso solamente attraverso l’altro, l’esemplarità è proprio la traduzione pratica di questo aspetto ontico e ontologico fondamentale: la Bildung è Vorbildung, dice giustamente Cusinato, l’esempio e il modello per l’uomo sono qualcosa di “altro” rispetto a sé, eppure sono quell’altro al quale tentare di accostarsi e al quale riferirsi, per riprodurli certo, ma questo appunto nel senso di coglierli in quanto punti di appoggio in vista dello slancio e del superamento in direzione di se stessi, in vista della possibilità di diventare un giorno modelli a se stessi, completamente immanenti a se stessi (anche se è proprio in quel momento che l’apertura rischierebbe di tradursi in una chiusura, certo appagante e pacifica, ma pur sempre chiusura). Non so se vado troppo oltre rispetto a quanto dice Cusinato, ma a me è subito venuto in mente il modello dell’artigiano (o dell’artista in generale): l’allievo migliore è quello che supera il maestro, il maestro più importante è quello che cerca di farsi superare dall’allievo, ma qui superare non significa semplicemente diventare “migliore di”, significa imparare il mestiere secondo il proprio stile, in modo proprio, significa giungere a esprimere il proprio talento attraverso gli insegnamenti ricevuti. Con la sottolineatura che siamo qui di fronte, se ha senso come espressione, all’artigianato del sé, all’artigianato della vita – come anche Foucault voleva –, ambito in cui l’esposizione è totale e la contaminazione è incessante, nel quale non c’è maestro che non sia anche allievo e viceversa, nel quale non c’è maestro che non sia prima di tutto allievo nell’atto di “ammaestrare” perché apprende proprio il senso dell’essere maestro, dell’essere modello, riferimento, ecc., e viceversa. L’esempio non è forse troppo calzante (sembra esserci di mezzo quasi più l’allevamento che non l’educazione e mezzo troppa intenzionalità volontaria) ma spero renda l’idea. Il punto è che lo stile mi sembra essere la cosa meno impersonale che ci sia, può essere frutto di un’appropriazione creativa e di una contaminazione con l’impersonale, ma è l’eminente espressione della personalità. In tutto questo continua a sembrarmi centrale il concetto di mimesis, cardine per la comprensione dell’umano, perché l’imitazione umana è proprio quell’accostarsi all’altro lasciandosi da esso attraversare ma in vista di un’attiva creazione (Cusinato parla di ripetizione deviante e feconda, e il senso della stretta connessione tra differenza e ripetizione a cui Deleuze ha dedicato tanta attenzione mi sembra possa essere illuminato se si pensa proprio alla mimesi). Ma è il caso di chiudere.

  12. giovedì, 23 Febbraio, 2012 at 07:16

    A me queste tesi e questa discussione sembrano alquanto fumose. Sulla ‘priorità’ del noi sull’io ha detto cose molto più chiare e sensate di Scheler un filosofo ai fenomeologi del tutto ignoto: Montesquieu.
    Andatevi a leggere quanto scrive sulla “repubblica fondata sulla virtù politica”, o le sue apologie di Cicerone, Marc’Aurelio e Giuliano imperatore, e vedrete che c’è infinitamente di più e di meglio… delle disquisizioni scheleriane. Evviva lo stoicismo!

  13. Guido Cusinato
    giovedì, 23 Febbraio, 2012 at 15:40

    Caro Domenico, personalmente non ho nulla contro Montesquieu, anzi dal momento che sei un esperto di questo filosofo, perché non scrivi qualche riga per illustrare la sua tesi sulla priorità del noi? Non dubito che possa essere molto interessante, ma ai rinvii generici preferisco sempre una discussione in cui ci sia la possibilità di confrontare oggettivamente e in modo pluralistico le diverse tesi. Ti ringrazio in anticipo. Guido

  14. giovedì, 23 Febbraio, 2012 at 19:34

    Mi limito a citare Montesquieu (Epitteto e Marc’Aurelio devono essere tassativamente noti a chi si occupa del tu-noi, in tutti i sensi):

    “Lo spirito delle leggi”, IV, 5: “Noi possiamo definire questa virtù come l’amore delle leggi e della patria. Questo amore, richiedendo una preferenza continua dell’interesse pubblico al proprio, conferisce tutte le virtù particolari; esse, anzi, non sono altro che questa preferenza .
    Questo amore è specificamente destinato alle democrazie. Solo in esse il governo viene affidato a ogni cittadino. Orbene, il governo è come tutte le altre cose di questo mondo: per conservarlo bisogna amarlo.
    Mai si è sentito dire che i re non amassero la monarchia e che i despoti odiassero il dispotismo.
    Tutto dunque dipende dal riuscire a stabilire questo amore nella repubblica e l’educazione deve provvedere appunto a ispirarlo : ma esiste un mezzo sicuro perché i fanciulli possano provarlo, e cioè che anche i padri lo provino.
    Noi di solito siamo padroni di trasmettere ai nostri figli le nostre conoscenze; lo siamo ancor più di infondere loro le nostre passioni.
    Se ciò non avviene, è perché le impressioni del mondo esterno hanno distrutto quanto si è fatto nella casa paterna.
    Non sono le nascenti generazioni che degenerano: esse si perdono solo quando gli adulti sono già corrotti”.

    “Lo spirito delle leggi”, V, 2: “In una repubblica la virtù è una cosa semplicissima: è l’amore per la repubblica; è un sentimento , non una sequela di cognizioni; tanto l’ultimo, quanto il primo cittadino lo possono provare. Il popolo, quando è stato dotato una volta per sempre di buone massime, le segue più a lungo dei cosiddetti gentiluomini. È raro che la corruzione cominci da esso; sovente, dalla mediocrità dei propri lumi il popolo ha tratto un attaccamento più forte per ciò che è stabilito.
    L’amore della patria conduce ai buoni costumi, e i buoni costumi all’amore della patria. Quanto meno possiamo soddisfare le nostre pas¬sioni particolari, tanto più ci abbandoniamo a quelle generali. Perché mai i monaci amano tanto il loro ordine? Proprio per l’aspetto che glielo rende insopportabile. La loro regola li priva di tutte le cose sulle quali poggiano le passioni ordinarie: resta dunque la passione per la regola stessa che li tormenta. Quanto più questa è austera, cioè quanto più riduce il numero delle loro inclinazioni, tanto più dà forza a quelle che lascia loro”.

    Ivi, V, 3: “In una democrazia, l’amore per la repubblica è quello della democrazia; l’amore della democrazia è quello dell’uguaglianza .
    L’amore della democrazia è anche l’amore della frugalità. Siccome vi devono esistere felicità e vantaggi uguali per tutti, ciascuno, nelle democrazie, deve gustare i medesimi piaceri e nutrire le medesime speranze; cosa che solo una generale frugalità può dare. L’amore per l’uguaglianza, in una democrazia, limita l’ambizione al solo desiderio, alla sola felicità di rendere alla patria servigi maggiori di quanto non facciano altri cittadini. Non tutti possono renderle uguali servigi; tutti però ugualmente gliene devono rendere. Nascendo, si contrae verso la patria un debito immenso, che non si può mai saldare”.

    Ivi, XXIV, 10: “Le diverse sette filosofiche degli antichi potevano essere considerate come delle specie di religioni. Mai ve ne fu mai una dai princìpi più degni dell’uomo, e più adatti a formare persone virtuose, di quella degli stoici; e, se potessi per un momento smettere di pensare che sono cristiano, non potrei fare a meno di annoverare la distruzione della setta di Zenone fra le sventure del genere umano.
    Essa eccedeva unicamente in cose in cui c’è qualcosa di grande: il disprezzo dei piaceri e del dolore.
    Essa sola sapeva formare i cittadini, essa sola formava i grandi uomini; essa sola formava i grandi imperatori.
    Fate astrazione per un momento dalle verità rivelate; cercate in tutta la natura, e non vi troverete niente di più grande degli Antonini. Giuliano stesso, Giuliano (una tale approvazione, strappata in questo modo, non mi renderà complice della sua apostasia), no, non vi fu, dopo di lui, principe più degno di governare gli uomini.
    Mentre consideravano cosa vana le ricchezze, gli onori umani, il dolore, le pene, i piaceri, gli stoici erano unicamente intenti a costruire la felicità, ad assolvere i doveri della società: sembravano considerare quel sacro spirito, che credevano albergasse in loro, come una specie di provvidenza benevola che vegliava sul genere umano.
    Nati per la società, credevano tutti che il loro destino fosse di prodigarsi per essa: e le erano tanto meno a carico, in quanto le loro ricompense erano tutte interiori e come la loro filosofia bastava a renderli felici, così pareva che la felicità degli altri bastasse ad accrescerla”.

  15. Guido Cusinato
    sabato, 25 Febbraio, 2012 at 08:17

    Senza togliere nulla a Montesquieu, le frasi qui riportate non mi sembrano delineare una articolata teoria della percezione dell’altro paragonabile a quella sviluppata nella discussione primonovecentesca all’interno della fenomenologia tedesca in particolare da Husserl, Scheler e Stein. Sono comunque pienamente d’accordo con Domenico quando sottolinea l’importanza di non rimanere confinati nell’ambito della fenomenologia. Per quanto mi riguarda ritengo molto importante la teoria del “moral self” di Hume e quella dell’autotrascendimento come presa di distanza critica dal proprio sé in Platone (a cui nel 1999 ho dedicato una monografia dal titolo “Katharsis”). Dunque evviva Platone!

  16. Guido Cusinato
    sabato, 25 Febbraio, 2012 at 15:31

    Più che relativamente a una specifica teoria dell’alterità, Montesquieu mi pare vada ripreso come filosofo morale. Molto belle le sue riflessioni sulla natura della felicità umana e la complessa antropologia dell’uomo che emerge copiosa dalla sue pagine.

  17. domenica, 26 Febbraio, 2012 at 07:04

    Il problema non è inventare/inventarsi una teoria dell’alterità, ma formare “buoni cittadini”. Ciò che manaca nel mondo moderno e contemporaneo è il cittadino: dunque bisogna studiarsi Platone (è l’autore preferito di Montesquieu), ma anche gli stoici, che sull’alterità (in tutti i sensi) sono insuperabili. Hume e i suoi seguaci conoscevano (e copiavano) benissimo Montesquieu. Montesquieu ha scritto un Trattato sui doveri, purtroppo andato perduto. Ma varie cose ci sono giunte e le ho pubblicate: Scritti filosofici giovanili (1716-1726), Bologna, 2011. Di Montesquieu ho citato solo qualche frase. Chi vuole la teoria, se lo deve studiare da cima a fondo. La teoria dell’alterità del cittadino (non degli individui in salotto o in famiglia o nei circoli ricreativi) c’è eccome, ed è quella la teoria che conta. Altrimenti, gli ultimi libri della De Monticelli sono campati in aria. Ripeto: formare buoni cittadini. E’ un’orribile filosofia quella che s’impiccia dei pensieri/affari privati degli individui: è un’orribile perversione di tutte le filosofie decadenti. Il problema invece è il totalitarismo politico, economico, morale ecc.: la filosofie decadenti, al totalitarismo hitleriano e staliniano (che è vivo e vegeto), non hanno opposto nulla di davvero valido. Altrimenti, perché siamo così ‘disarmati’ rispetto alla dilagante barbarie dei nostri insani stili di vita? Mancano: il cittadino italiano, il cittadino europeo, il cittadino del mondo. Mancano gli stoici e un cristianesimo ‘sano’. Le ‘narrazioni/autonarrazioni’ sentimentali, zeppe di io-tu, volti, sguardi ecc. riempono solo apparentemente/egotisticamente lo “spaventoso nulla” (Montesquieu) in cui siamo immersi. La filosofia è esercizio spirituale, non “narrazioni” dell’io decadente. In ogni caso, rimando a Montesquieu, Breviario del cittadino e dell’uomo di Stato (pubblicato anche su questo sito/rivista).

  18. Guido Cusinato
    domenica, 26 Febbraio, 2012 at 22:51

    Caro Domenico, a mio avviso cadi in diversi fraintendimenti ideologici relativi al concetto di persona. Ed è un peccato perché ci sarebbero molte convergenze con le tue proposte. Limitandomi a parlare per me stesso noto che sono pienamente d’accordo sul fatto che il problema è formare buoni cittadini, ma la formazione del cittadino a mio avviso richiede la formazione e la cura sui della persona. Il marxismo nel secolo scorso è diventato totalitarismo proprio perché si è dimenticato della persona. E oggi rischiamo un nuovo totalitarismo, quello dell’allevamento mediatico di massa, proprio perché lo stesso pensiero postmoderno ha visto come fumo negli occhi ogni discorso sulla sacralità della persona. Persona e democrazia dunque, magari ripensati con gli occhi della Zambrano. Non vedo proprio come una filosofia della persona possa essere confusa con l’impicciarsi negli affari privati dei cittadini. Se la democrazia non assicura uno spazio alla sfera intima implode. Certo non può imporre un determinato stile di vita, ma però deve assicurare ad ogni cittadino lo spazio per esercitare liberamente la propria cura sui. Se dietro il cittadino non c’è il problema della formazione della persona, il cittadino diventa un bidone vuoto, e la liquidità postmoderna viene facilmente incanalata dal pifferaio magico di turno.
    E non c’è neppure nulla di “narrazione dell’io decadente”, credimi, in una filosofia della persona che dà forma alla propria identità non nel chiuso dell’autointerpretazione ermeneutica, ma nell’esecuzione dell’atto spinta dalla motivazione della forza dell’esemplarità altrui. La filosofia è esercizio spirituale, cura sui, esercizio verticale. Hadot e l’ultimo Foucault lo hanno dimostrato in modo convincente.

  19. lunedì, 27 Febbraio, 2012 at 05:50

    Non mi sono mai impicciato di ideologia e non ho nulla a che fare con il marxismo. Nè fraintendo alcunché. La sacralità della persona l’hanno insegnata gli stoici e sulla loro scia Montesquieu. Basta leggerli. La cura di sé l’hanno insegnata Epitteto e Marc’Aurelio e sulla loro scia Montesquieu. Basta leggerli.
    Ribadisco: le filosofie dell’io decadente hanno alimentato, non combattuto né minato il totalitarismo. E’ da trent’anni che studio e lavoro solo ed esclusivamente su dispotismo/totalitarismo. Non ricominciamo con le distinzioni ‘decadenti’ cittadino-persona e fresconerie del genere. Queste ‘distinzioni’, ‘motivazioni’, ‘esemplarità altrui’, ‘sfera intima’ sono parole ‘vuote’. Il pieno è l’agire concreto nella situazione concreta: è l’agire del ‘cittadino’. Montesquieu sostiene che compito della religione (e della morale: per lui sono strettamente connesse) è ‘formare buoni cittadini’. La relazione orizzontale io-tu è prioritaria rispetto alla relazione io-Dio, ovvero quanto più io pratico la prima tanto più io pratico la seconda e non viceversa. Ciò vale per la morale, per l’economia e per la politica. Mentre io so ciò di cui tu e i fenomenologi parlano, voi non sapete (e ve ne fregate di sapere) un fico secco di Platone ‘politico’, di Cicerone, degli stoici, di Sant’Agostino ‘politico’, san Tommaso ecc. ecc., Montesquieu e Arendt. Devi leggere anche i miei libri, come io mi leggo i tuoi e quelli della tua ‘setta’. Infine: io ho a che fare solo con Hadot. Foucault tienitelo/tenetevelo: è un cervello vuoto. Leggiti il mio Breviario riga per riga, parola per parola, così ti accorgi quanto infinitamente ‘insignificante’ è uno Scheler, ‘per stare e avere senso’ nel mondo. La dignità della persona umana è negli stoici e in Montesquieu (concretamente, non nei salotti), con il cristianesimo. Non esiste una formazione del cittadino separata, o dopo, o dentro, o prima,la formazione del sé/della persona: sono tutt’uno. Separare separare, distinguere distinguere è una maledetta malattia ‘decadente’ che sfocia sempre nell’autonarrazione. Cribbio! Ma gli stoici sono Seneca, Cicerone, Mar’Aurelio, Arriano, Frontone, Adriano, Montesquieu: vorresti provare a dimostrarmi che costoro formavano prima la persona e poi il cittadino? o che separassero le due cose? E’ ciò che fanno solo ed esclusivamente i ‘decadenti’. La De Monticelli parla di giustizia, ma non dice una parola che sul fatto che il trattato fondativo della Stato democratico – lo Spirito delle leggi – è basato sulla giustizia come valore assoluto (come pensavano Platone e Cicerone). Questo è sì che un ‘vuoto’ imperdonabile.

  20. lunedì, 27 Febbraio, 2012 at 09:11

    Molto bello questo dibattito e questo forum. Complimenti. Riguardo alla percezione degli stati d’animo degli altri in filosofia della psicologia hanno dominato due posizioni diverse: quella di David Lewis, che sosteneva che in un certo senso a partire da tutti gli stimoli fisici che abbiamo dell’altro ci costruiamo una sorta di teoria dei suoi stati mentali, chiamata anche theory-theory (ed è quella che Scheler critica e che non mi ha mai convinto, perchè troppo cerebrale, anche se si potrebbe supporre che queste inferenze sono inconsce) e quella di Alwin Goldman, secondo la quale sempre a partire dall’esperienza fisica dell’altro noi simuliamo dentro noi stessi i suoi stati d’animo, che viene chiamata appunto simulation theory. In un certo senso la scoperta dei neuroni specchio e della loro importanza per l’empatia ha dato un forte argomento a favore della simulation theory. Scheler probabilmente non avrebbe accettato neanche questa prospettiva, perchè comunque costruisce il tu a partire solo dall’io. Indubbiamente c’è qualcosa che manca. Manca il fatto che io percepisco l’altro come qualcosa di diverso da me benché con stati mentali simili. Il problema a me sembra sia quello di capire come mai quegli stati d’animo che viviamo comunque noi li attribuiamo all’altro. Sull’intersoggettività più che a Scheler mi sento vicino alla Quinta meditazione di Husserl. È intrinseco alla percezione dell’altro il fatto che lo percepisca come qualcosa di diverso da me e questo fa sì che io percepisco gli stati d’animo dell’altro come altrui. Per riassumere ha ragione Scheler che la percezione degli stati d’animo dell’altro non è inferenziale, ma intuitiva. Tuttavia questa simulazione si basa comunque non sulla percezione diretta di questi stati, ma sulla percezione fisica dell’altro. Tutto questo non funzionerebbe , però, se non percepissimo l’altro come altro.

  21. Stefano Cardini
    lunedì, 27 Febbraio, 2012 at 11:02

    C’è poco da aggiungere alle parole di Guido Cusinato. Se c’è qualcosa che mi ha spinto a studiare Husserl è stata proprio la sua istintiva repulsione per qualunque deriva decadente del pensiero. Leggere e rileggere i grandi classici del pensiero politico è, comunque, sempre necessario. Vorrei allora ricordare le prime problematiche pagine di un volume che è stato e continua a essere molto importante per cogliere il primo formarsi della questione sollevata da Cusinato. Parlo de L’Emilio di Rousseau: «Colui che nell’ordine civile vuol conservare il primo posto ai sentimenti naturali non sa quel che vuole. Sempre in contraddizione con se stesso, sempre oscillante tra inclinazioni e doveri, non sarà mai né un uomo né un cittadino, non sarà buono né per sé né per gli altri; sarà un uomo dei nostri tempi, un Francese, un Inglese, un borghese; non sarà niente (…) L’educazione pubblica non esiste più e non può più esistere, perché dove non è più patria non possono essere più cittadini. Queste due parole, patria e cittadini, devono essere cancellate dalle lingue moderne. (…) Non considero come esempi di educazione pubblica quei ridicoli istituti che chiamiamo collegi. Né faccio maggior conto dell’educazione derivante dalla società, perché, mirando a due fini contrari, li fallisce entrambi: essa è capace soltanto di formare uomini ipocriti, che fanno sempre mostra di altruismo, mentre si preoccupano esclusivamente di se stessi. Ma poiché queste ipocrisie sono comuni a tutti, non ingannano nessuno. È tutta fatica sprecata. Da queste contraddizioni nasce quella che sentiamo costantemente in noi stessi. Trascinati dalla natura e dagli uomini in direzioni contrarie, costretti a dividerci sempre tra impulsi diversi, finiamo per seguire una forza risultante, che non conduce né a una metà né all’altra. Resta infine l’educazione domestica, ma che cosa sarà mai per gli altri un uomo educato unicamente per sé?». Era decadente, Rousseau, perché sentiva l’esigenza di indagare e portare alla luce le strutture germinali della relazione sociale moderna, senza limitarsi a consolarsi scimmiottando, come altri del suo tempo, la pedagogia stereotipata degli antichi? Era decadente Rousseau, uno dei più influenti pensatori politici dei secoli che lo seguirono, secoli che più ideologici non si può? Schematizziamo meno e andiamo alle cose stesse. E allora è difficile negare la complessità e profondità dei processi educativi in cui siamo immersi ben prima che qualcosa come un senso proprio della cittadinanza si formi in noi. Sempre che questa parola abbia oggi un senso che anche Montesquieu potrebbe intendere.

  22. Guido Cusinato
    lunedì, 27 Febbraio, 2012 at 11:31

    Caro Domenico, fai delle accuse troppo generiche, che purtroppo impacciano un ragionamento che in realtà mi piace. Ti posso assicurare che la fenomenologia si è sempre interessata a Platone, e per quanto mi riguarda ti ricordo che proprio sul tentativo di rileggere la riduzione fenomenologica nel senso della Katharsis di Platone ho scritto il mio primo libro. Mi sembra inoltre che la tua ripulsa per Scheler e Foucault sia ideologica.

    Sfondi una porta aperta: qui a Verona organizzo a Novembre un convegno internazionale con Horn, Fellmann, Barbaric, e forse Steinfath proprio sulla cura sui di Platone e il problema dell’orientamento oltre le banalità del pensiero postmoderno. Ed è presente anche un combattivo gruppo di studiosi di Platone coordinato dalla mia collega nonché specialista di Platone Linda Napolitano.

    Sul rapporto cittadino-persona: ma non ti rendi conto che in questo modo sei proprio tu a contrapporli? Che cos’è un peccato mortale cercare una convergenza fra la cura sui di Hadot e il problema della Bildung della persona?

  23. lunedì, 27 Febbraio, 2012 at 12:15

    Non rispondete alle questioni che sollevo. Voi dovete confrontarvi con chi non la pensa esattamente come voi, invece di parlarvi sempre addosso e con chi vi somiglia come una goccia d’acqua (è la filosofia degli ipocriti). Vedi il rousseauiano, il quale ovviamente non sa che Rousseau sapeva a memoria Montesquieu e che rifrigge, ma con l’orribile linguaggio ‘oracolare’, molte sue idee fondamentali, a partire dalla dottrina, senza la quale Rousseau non esisterebbe, della repubblica fondata sulla virtù (inventata da Montesquieu e non da Rousseau). Alcune tesi di Rousseau (quelle inventate propriamente da lui) sono, come è risaputo, ‘insultanti’ per l’uomo e per il cittadino: leggettevi Berlin.
    Cusinato la mette sul sentimentale e parla di ‘impacci’. Ne fa una questione di stile, ovvero ‘compiaciamoci a vicenda’ (tu dici a me quanto sono bravo e acuto, e io lo dico a te, e poi, sazi e soddisfatti, andiamo al bar a berci una birra). Io invece dialogo ‘conflittualmente’, perché i problemi (e la vita e la cultura) sono maledettamente veri e seri. Vi lascio pertanto alle vostre ‘certezze’. Io, nel frattempo, io inseguo chiunque, consapevolmente o inconsapevolmente, o magari credendosi un angelo, contribuisce ad accrescere la barbarie e l’oppressione.

  24. Stefano Cardini
    lunedì, 27 Febbraio, 2012 at 12:50

    Voglio rassicurare Domenico, che qui c’è spazio per tutti e che nulla è più lontano dallo spirito che ha fatto sorgere il Phenomenology Lab dal settarismo. Tra l’altro, in un altro commento lamentavi fosse stato “oscurato” il Breviario da te pubblicato e di cui ti ringraziamo. Invece è sempre rimasto qui: Montesquieu, Breviario del cittadino e dell’uomo di Stato. Forse sdrammatizzare un po’ i toni della contesa aiuterebbe il confronto. Nessuno è onniscente. Non vorrei che un dialogo tra studiosi finisse rimproverandosi a vicenda di non avere letto, riletto o capito questo o quel libro. Andare alle cose stesse aiuta, di solito, a non imboccare la strada di una inutile disputa attorno alle rispettive biblioteche. Per fortuna ognuno ha la propria. Per questo il confronto può rivelarsi, se condotto con autentica curiosità intellettuale, utile e divertente. Aggiungo che non sono affatto “rousseauiano” e che dal mio post non risulta se non che il dissidio moderno tra la sfera più intima e personale dell’individuo e quella più propriamente sociale e politica era in Rousseau ben presente, pur essendo filosofo di fortissima impronta civile enormemente affascinato dalla civitas degli Antichi. Quanto al fatto che a Berlin non piacesse Rousseau o che Rousseau conoscesse benissimo come tutti dovremmo Montesquieu, non ho affermato nulla nel mio post che lo neghi. È un esempio di come talvolta, pur di muovere un’obiezione, la muoviamo a tesi non espresse ma che reputiamo sottintese. Sono vecchi trucchi della sofistica, però. Se s’intende questo per discussione conflittuale, non credo interessi nessuno. Io, semmai, sarei più curioso di vedere più estesamente trattati alcuni passaggi di Domenico promettenti, ma che finiscono oscurati da una certa suscettibilità. Per esempio, quello sulla giustizia come virtù suprema. Ma se il tutto dovesse risolversi soltanto con l’invito rivolto agli altri a leggere i propri libri, anche qui non ci troverei nulla di male. Ognuno è sempre libero di farlo, in tutti i sensi in cui il certo notevole Berlin abbia chiarito (anche lui, ahimé, tramite distinzioni) la nozione di libertà.

  25. mercoledì, 29 Febbraio, 2012 at 08:10

    L’intento di far parlare, non di me (sono solo un modesto accademico in fuga), ma di Montesquieu, da qualche altra parte pare avere successo (e non è la prima volta che accade): http://www.ilriformista.it/stories/Prima%20pagina/422891.

  26. Stefano Cardini
    mercoledì, 29 Febbraio, 2012 at 11:02

    Mi pare una segnalazione e una pubblicazione molto interessante. Grazie Domenico. Sarò presto certamente uno dei tuoi lettori. La questione del limite è una questione molto importante anche nella tradizione di pensiero fenomenologica, proprio in forza della passione che mette nell’operare le sue distinzioni. Passione calma, appunto.

    Spero che altri mi seguano e che se ne parli anche qui sul Lab. Io, purtroppo, non sono granché ferrato in filosofia politica. Ma tra gli amici del Lab ce ne sono parecchi, di ferrati, fenomenologi e non.

  27. venerdì, 9 Marzo, 2012 at 18:22

    Mi dispiace di non aver avuto tempo di intervenire prima in questa discussione…a proposito di impegni civili! (Segnalo che sul Corriere on line è stato pubblicato il post che conteneva il mio commento all’inchiesta “I segreti di don Verzé” e le mie domande,rivolte anche per mail circolare ai colleghi della facoltà di filosofia del San Raffaele e al suo Preside, che richiamavano alla non più rinviabile esigenza di instaurare – COSA POSSIBILISSIMA GIA’ ORA, SE SOLO CE NE FOSSE LA VOLONTA’ – un regime di trasparenza nella gestione dellla fase di transizione. Domande e richieste che continuano a restare avvolte nel più perfetto e compatto silenzio). Questo riferimento non vorrebbe essere solo un’ excusatio non petita. Infatti esemplifica uno dei punti cardine della differenza fra la concezione della giustizia (in quanto proprietà del buon ordinamento di una società) di Platone e quella dei moderni. Detto in breve, noi non crediamo che alcuna giustizia possa realizzarsi alle spalle o sopra le teste dei soggetti e delle loro volontà – cioè senza passare per la pericolosa e irrinunciabile libertà delle persone. Libertà, purtroppo, capace (quando si esercita come indifferenza, delega, “cieca e dissennata assenza”) di soffocare in culla una nascente “costituzione” di una collettività secondo i principi di cui ci fu primo maestro Montesquieu (invece che secondo i modi di una società di briganti o di una mafia). O capace di far degenerare dall’interno una democrazia in un sistema di universale malversazione, come la società italiana di oggi. Ciò detto, quindi, chiederei a Domenico Felice di meglio chiarirmi la critica che mi rivolge: “La De Monticelli parla di giustizia, ma non dice una parola che sul fatto che il trattato fondativo della Stato democratico – lo Spirito delle leggi – è basato sulla giustizia come valore assoluto (come pensavano Platone e Cicerone). Questo è sì che un ‘vuoto’ imperdonabile.” Quale è esattamente l’accusa? Lo chiedo con sincero interesse, per capire e – se posso – rispondere.

  28. domenica, 11 Marzo, 2012 at 09:31

    La mia risposta è semplice: alla base della nostra Costituzione, come di qualunque altra Costituzione democratica (in primis, quella americana) non ci sono i Kant, gli Hume o, si parva licet, gli Scheler con annessi e connessi, ma Montesquieu (è lui, e solo lui, che ha ‘inventato’ la tripartizione dei poteri e l’autonomia del giudiziario).
    Ora: (a) senza la Costituzione democratica (cioè, princìpi e reogle scritte ovvero leggi fondamentali), noi non esisteremmo (ovvero saremmo nel forno nazista o in attesa di essere messi in codesto forno). (b) La costituzione democratica non sta senza Montesquieu (basta leggersi i dibattiti alla Costituente). (c) Montesquieu, come Platone e Cicerone, ha costruito il suo modello di Stato di diritto su tre idee: libertà, giustizia, moderazione. Chiedo: Hume, Kant e giù giù fino ai fenomenologi ‘coniugano’ queste tre idee e indicano, per caso, anche le ‘vie concrete’ per praticarle o renderle ‘praticabili’? A me non risulta. Dunque, a che a pro parlare sempre e solo di loro?

    Dico ‘Costituzione’, cioè ‘regole’: l’uomo non si governa ‘predicandogli’ (con pretese ’scientifiche’, come fa Kant) la bontà (o le emozioni, l’empatia, la simpatia, l’amore ecc.), ma costruendo/insegnadoli le ‘regole’, ovvero i suoi ‘limiti’ (ossia, non ciò che deve fare e volere, ma ciò che ‘non’ deve fare e volere, e non solo con ‘trattati di metafisica’ o di ‘etica’, ma anche e soprattutto con ‘regole’, ’strumenti concreti’ ecc.

    Dice Montesquieu: “le malattie dello spirito non guariscono”. Tradotto: la filosofia non è la medicina, perché non c’è nessuno e niente da guarire. Non esiste un solo esempio nella storia umana (includendo santi e i sapienti ecc.) che mostri un uomo ‘guarito’ dai suoi pregiudizi ovvero dalle sue ‘malattie’. Umanamente parlando: (1) gli uomini sono maledettamente, cioè intrinsecamente, fragili; (2) in prevalenza, tendono a ‘gravitare verso il basso’; (3) però possono, in quanto liberi, tendere anche al bene, ‘all’alto’ [in sintesi: l’uomo è ‘duplice’]; (4) si può insegnare loro solo la ‘moderazione’, ossia solo a contenere, a ridurre ecc. i danni/mali, non a sopprimerli. E tutto questo aiutandoli concretamente: con le ‘regole’, con le ‘leggi’, con un San Raffaele ‘trasparente’ ecc. Solo questo è ‘umano’, ‘meravigliosamente umano’. Diversamente, ci sono il superuomo, l’oltre-uomo, cioè Stalin e Hitler. Diversamente: ci sono le ‘auto-narrazioni’, l’invenzione più oscena del decandentismo. Bisogna scegliere: o Proust o Musil. O ‘grattarsi’ (in tutti i sensi) o ‘pensare’.
    L’etica non è una teoria (come credono Hume e Kant), ma è un modo di essere, uno stile di vita (Confucio, Socrate, Cristo, Epitteto, Marco Aurelio ecc.). A mio giudizio, noi non siamo ‘al di là‘ degli antichi stoici, ma ‘al di qua’ e pure parecchio. Per dirla con Eliot: noi siamo nel vicolo dei sorci, dove abita squallore.

  29. Guido Cusinato
    domenica, 11 Marzo, 2012 at 10:47

    ‘Costituzione’, ‘regole’: l’Italia ha un’ottima costituzione, ma le regole non bastano se poi prevale l’opinione che chi le segue è stupido, mentre è furbo chi le aggira. Dietro le regole c’è l’antropologia dell’uomo, una sfera molto ampia che riguarda l’esemplarità, il desiderio mimetico, i percorsi formativi della persona, l’analfabetismo emozionale, l’allevamento mediatico di massa. Bene Montesquieu, ma non facciamone un nuovo feticcio. E poi non capisco questo tono di chi pensa di avere la verità in tasca. Perchè sputare su Hume? Non ti sarai mica fermato allo scetticismo del Primo Libro del Trattato! Come diceva Montesquieu: un po’ di moderazione!

  30. domenica, 11 Marzo, 2012 at 19:42

    Bisogna leggermi bene e soprattutto senza fretta. Non c’è nulla in quel dico che lasci minimamente trasparire che io possegga una qualsiasi verità. Suggerisco percorsi diversi, ma arcinoti, a chi studia un po’ di filosofia affacciandosi fuori dalla propria finestra o dal proprio cortile. Il fatto che ci siano i furbi che aggirano le regole, per cui è inutile parlarne, è una vecchissima solfa, del tipo: dato che la Chiesa annovera anche l’Inquisizione, è inutile parlarne e va buttata al macero. Questo è quel che si dice “cavarsi gli occhi con le proprie mani”. Cusinato è chiaramente allergico alle ‘regole’, che invece sono essenziali per e in qualunque convivenza. Ma lui fa spallucce, Io invece dichiaro di non sapere cosa siano e di provare un sano ribrezzo davanti ad espressioni quali “l’esemplarità, il desiderio mimetico, i percorsi formativi della persona, l’allevamento mediatico di massa ecc.”. Chi usa e pratica questo linguaggio ha sicuramente “la pancia piena e trasuda noia di vivere”. Montesquieu un feticcio? Magari! Sarebbe l’unico feticcio buono. Irridere anche vagamente il ‘moderato’ Montesquieu, che tutti nominano ma nessuno legge, è lo stesso che dire la “Costituzione è ottima, ma il problema è un altro”, ossia è “l’allevamento mediatico di massa” (che cavolo di castroneria è?). Dato che tutti (in primis, i gli atei da salotto o i credenti incarogniti) si trastullano con Hume e poi con i cerebralismi di Kant, mi permetto di suggerire a ‘tutti’ qualche distrazione, ovvero di andarsi a leggere, e praticare, l’etica stoica. Insisto: meno decadentismo, meno Hume, meno Kant, e più Montesquieu, più Locke, più sant’Agostino, più Marc’Aurelio, più Epitetto ecc. “Dietro le regole” c’è solo il baratro, come l’esperienza di tutti i giorni dimostra. Lo spirito, o l’anima, è l’eccellenza della natura umana e questa eccellenza non va “frullata” con paroloni, paroline, parolette, salse e salsine varie. Va rispettata e praticata con le ‘regole’.

  31. Guido Cusinato
    domenica, 11 Marzo, 2012 at 20:19

    Il problema è proprio che ti ho letto bene e senza fretta. Che tristezza Felice! Diciamo che sono allergico alle tue di regole e stufo di queste prediche pedanti che girano sempre attorno allo stesso tema. Se vuoi criticarmi fallo con argomenti razionali, non con vuote chiacchiere da bar che lasciano il tempo che trovano. Altrimenti ho altro da fare.

  32. Guido Cusinato
    lunedì, 12 Marzo, 2012 at 08:50

    Sul concetto di “allevamento mediatico di massa”: proprio perchè l’uomo è duplice e maledettamente fragile, nella liquidità postmoderna gli esercizi antropologici che mirano a dare forma all’uomo possono essere svolti in diverse direzioni, non solo nel senso della cura sui di Hadot, ma anche della Züchtung (allevamento) di Sloterdijk. E’ l’equivoco in cui è caduto il pensiero postmoderno: si è pensato che bastasse far crollare la vecchia morale criticata da Nietzsche per rendere l’uomo libero. Invece proprio in nome della libertà si è sviluppata una tecnologia del potere mediatico volta a manipolarne il consenso. Di fronte a questo tentativo in Italia la Costituzione è stata un importante baluardo. Ma alla lunga non basta.

    Sull’importanza delle regole; l’uomo non impara da solo le regole: ha bisogno di esempi che gli dimostrino cosa significa rispettare o meno una regola. E’ un processo che inizia da quando nasce: un bambino di qualche mese impara a posizionarsi nel mondo guardando l’espressione del viso e il linguaggio del corpo di sua madre. E’ riduttivo affermare che l’uomo va educato attraverso le regole: contemporaneamente c’è tutto un lavoro di alfabetizzazione affettiva in cui l’uomo impara a rispettare le regole, e a capire quali sono quelle giuste. E’ attraverso l’esemplarità o la contro-esemplarità dell’altro che impariamo a servirci o meno delle regole. Dietro le regole e il cittadino c’è la formazione della persona.

    Inferire che chi pone il problema che le regole possono essere aggirate sta sostenendo che le regole vanno buttate via (e che questo è quel che si dice “cavarsi gli occhi con le proprie mani”) compie un’inferenza ad alto tasso alcolico. Porre il problema che le regole possono essere aggirate significa invece porsi il problema di far crescere una cultura del rispetto delle regole. Radicare tale rispetto nella formazione della persona. Finchè invece si afferma che dietro le regole formali c’è il nulla si mette la testa sotto la sabbia. Poi se arriva Carl Schmitt e mette Montesquieu in soffitta, non lamentiamoci. A parte il fatto che anche Montesquieu alla fine non può essere fideisticamente considerato la panacea a tutti i problemi. Oppure si scriva una monografia che lo dimostri al mondo.

  33. Domenico Felice
    lunedì, 12 Marzo, 2012 at 11:39

    Invece di parlare di “allevamento mediatico di massa” (è l’arte del grattarsi) è sensato parlare e (denunciare ‘a qualsiasi prezzo’) di Murdoch, Bill Gates o Berlusconi, che concentrano un potere mediatico incompatibile con qualunque democrazia e all’umanità in quanto tale. O, venendo a cose più piccole e ancora più incompatibili: perché invece di scrivere l’ennesimo libro su Scheler & C. non ci si dedica – con tutte le forze e scrivendo solo in lingua italiana – alla denuncia/demolizione dei giornali più pornografici d’Italia, vale a dire la Repubblica e Il Corriere? Che cos’è una fesserie ‘fenomenologica’in più rispetto alla devastante degradazione morale che producono questi giornali, che quotidianamente spiattellano online e sul cartaceo ammassi di carne umana e chiacchiere da quadrivio? Queste cose si possono ‘fare’ (imponendo/promulgando ‘regole’) e contribuirebbero infinitamente di più di qualunque libro su Scheler a rendere meno ‘degradante’ il vivere civile.
    La ‘morale’ capitalistica è stata sempre viva e vegeta: sono solo alcuni ‘cervelli salottieri’ che hanno fatto (e fanno) ‘crollare’ e ‘risorgere’ le morali come i funghi (ma è solo un loro problema, una loro vita annoiata).
    Nietzsche non ha criticato nulla: ha solo rappresentato e rappresenta (nel suo piccolo) l’essenza dell’ideologia capitalistica (volontà di potenza, super-uomo ecc. ossia ‘assenza di limite’, e cioè ‘assenza di regole’: vedi Marchionne, il quale è sicuramente un nicciano).
    Dietro le regole e il cittadino “c’è sempre qualcosa”. Nel frattempo, però, Hitler e Goebbels (che codesti psicologismi conosceva a memoria e soprattutto praticava) andavano – e vanno – al potere e spedivano/spediscono all’altro mondo milioni di esseri umani.
    Schmitt ha mandato ‘in soffitta’ non Montesquieu, ma il cervello miserabile di quelli che se ne occupano.
    Ancora con la terminologia tedesca: ebbene, se uno dice allevamento in tedesco io sento solo “quanto – ancora – puzza di questo barbaro dominio” (Machiavelli).
    Il sistema “governo moderato” (lo Stato di diritto, le ‘regole’) non è una bazzecola e basterebbe e come a farci stare almeno un po’ meno peggio. Il “governo moderato” di Montesquieu, ovvero il ‘governo misto’, è uno dei concetti filosofico-politici più complessi mai escogitati. I fenomenologi non lo sanno, ma sono pressoché i soli. “Regole” è solo una parola d’ordine, un’idea-chiave, una ‘guida’. Che io però preferisco infinitamente ad “alfabetizzazione affettiva”, che in sostanza equivale alla pretesa di “ficcare il naso” nell’animo altrui, snocciolandogli il proprio.
    Come Montesquieu, apprezzo molto il vino e anche un certo tasso alcoolico.
    Chiedere a me di scrivere una monografia… Ho speso tutta la vita a sostenere che Montesquieu è più ‘sano’ e più utile di Hobbes, Rousseau e Heidegger. Modestamente, ritengo che questo sia stato e rimanga un contributo fondamentale alla “dignità umana” a alla alfebetizzazione ecc.
    Il nichilista decadente alla fine comunque viene fuori: Montesquieu non è la panacea di nessuno e di nulla, né io sono credente, tranne in Dio: in cinquant’anni sono usciti sì e no cinque o sei monografie su Montesquieu. Su Scheler, invece, una caterva. Eppure, il letamaio culturale è avanzato e avanza, specialmente nell’Accademia e dintorni. O no? E se sì, perché non cambiare autore e temi? Solo i fideisti e i fanatici battono sempre lo stesso ‘chiodo’.

  34. Andrea Zhok
    lunedì, 12 Marzo, 2012 at 17:47

    Ragazzi, non cascateci così facilmente. È chiaro che Domenico Felice è un troll e che utilizza un Bignami di filosofia messo nel frullatore non per parlare di Montesquieu, ma per parlare (e far parlare) di sé.

  35. martedì, 13 Marzo, 2012 at 08:32

    Scappo via volentieri!!
    È apparso Zhok l’Inglese: il britanno! Brrr.
    Caro Guido, stai fresco ad ‘alfabetizzare’ Zhok, questo è ‘anglo-sassone’, viene dalle ‘paludi’ teutoniche. Buona fortuna!

  36. Stefano Cardini
    martedì, 13 Marzo, 2012 at 11:19

    Discutere, si fa per dire, con te, caro Domenico, è un po’ come fare gli Esercizi Spirituali di Ignazio da Loyola. Per fortuna, avendo due turbolenti figli adolescenti, generalmente mi trovi piuttosto allenato. La cosa che mi colpisce di più, al di là del livello di confusione che ti porta a mettere nel pentolone del tuo fantomatico pensiero “decadente” Hobbes, Rousseau, Nietszche, Husserl, Scheler, Heidegger, Foucault e forse, dopo Marchionne, Vasco Rossi… è la singolare ambivalenza che ti porta ripetutamente a entrare e uscire capricciosamente dalla discussione come un innamorato insicuro e risentito… ora, lungi da me confermare i tuoi pregiudizi contro la fenomenologia “impicciona”, ma avendo trascorso anch’io, come un po’ tutti, alcuni anni di giovanile apprendistato stoicheggiante tra i Pensieri di Marco Aurelio e le Lettere a Lucilio di Seneca (va da sé: senza intenderli…), tutto evoca il tuo stile espositivo tranne che una capacità di autodisciplina di un qualsiasi genere … Non mi azzardo, come Cusinato, a mettere nuovamente l’accento sull’esemplarità, e tuttavia, se il tuo obiettivo – anche rispetto agli studenti che ci leggono – è invitarci a una riscoperta dello stentoreo liberalismo politico di Montesquieu e delle fulgide virtù intellettuali e morali degli antichi, ti suggerirei di compiere qualcuno almeno degli esercizi spirituali cui costringi i tuoi interlocutori, così da mantenere su un piano di costruttività qualsiasi il dialogo. Oppure, se non ne hai, a provare ad avere e a crescere dei figli. Ti assicuro che sono sempre un ottimo laboratorio per capire che cosa significhi e quali presupposti interiori implichi la pretesa che “si segua una regola”.

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