Cittadinanza democratica e pluralismo confessionale

domenica, 15 Novembre, 2009
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Dinanzi alla crescita pressoché esponenziale di studi sulla conclamata emergenza laicità, mi pare ci si debba chiedere se, e in quale misura, gli sforzi degli intellettuali italiani stiano effettivamente individuando un terreno comune di dialogo tra le parti avverse, in ottemperanza ai principi essenziali che informano la nostra Carta costituzionale.

Vorrei innanzitutto segnalare ai miei interlocutori un importante convegno tenutosi a Milano nello scorso gennaio, organizzato dal Centro Studi Politeia e i cui atti sono stati recentemente pubblicati sotto il suggestivo titolo di La laicità vista dai laici, Università Bocconi Editore, Milano 2009.

Al di là delle diversificate e contrastanti prospettive che hanno animato i singoli relatori, emerge con chiarezza la crucialità della questione e l’inderogabalità dell’impegno a riflettere su un problema che investe le stesse condizioni di legittimità della vita politica del nostro Paese.

Almeno due contributi ritengo degni di nota in relazione al mio tema. Mi riferisco, in primo luogo, alla posizione di Gian Enrico Rusconi che intende la laicità come statuto della cittadinanza democratica e che, in quanto tale, non coincide necessariamente con un atteggiamento avverso alla religione o dichiaratamente ateo.

In secondo luogo, ritengo rilevante la tesi sostenuta da Antonella Besussi secondo cui la presa d’atto dei limiti del secolarismo politico rende ineludibile una riconfigurazione della sfera pubblica come arena del confronto dialettico tra visioni religiose diverse, non più relegate nelle sfera privata dell’individuo ma piuttosto abilitate a interagire nello spazio della deliberazione politica. Diversamente detto, le visioni rivali del bene non possono sottrarsi alla prova della discussione pubblica, il cui presupposto è esattamente la consapevolezza della provvisorietà di ciò che riteniamo vero e degno di essere perseguito.

In sostanza, ci domandiamo quale rapporto intercorra tra le religioni e la ragione pubblica o, se vogliamo, in quali termini sia lecito assegnare uno spazio d’azione politica alla religione.

A differenza di John Rawls che alle religioni negava una qualsivoglia forma di protagonismo politico, Ronald Dworkin ha invece riconosciuto il ruolo pubblico che la religione può rivestire in seno alla vita politica, pur avanzando pretese di verità di matrice metafisica. In breve, nella sua teoria il diritto di libertà religiosa scaturisce dal diritto all’autodeterminazione morale il cui riconoscimento contraddistingue ogni autentico società liberale.

ll punto è che reputo poco convincente l’impostazione del problema. Credo, in altri termini, che la religione debba interagire nell’area politica non in quanto religione, ma come modalità autointerpretativa dell’individuo o visione del mondo capace di rendere ragione di se medesima mediante un linguaggio che mostri l’accessibilità pubblica del suo messaggio e la sua condivisibilità in una società politica democratica che nel primato e nella libertà di coscienza dei suoi membri riconosce l’unico assoluto irrinunciabile. Che si tratti di una visione metafisica o puramente intramondana della vita è assolutamente irrilevante per la democrazia: importa la libera e leale concorrenza tra concezioni rivali del bene per l’ottenimento della supremazia sul senso comune. Se la religione resterà esclusa dall’ambito d’azione della ragione pubblica non lo sarà in quanto religione ma come pretesa di verità incapace di automediarsi in un campo di interazione che coinvolge soggetti umani autonomamente impegnati nell’assegnare una direzione alla propria vita.

Ripartire dall’uomo come centro di autodeterminazione etico-cognitiva che nella vita di relazione trova il suo compimento, mi pare sia l’unica via percorribile per giungere a una comprensione della laicità dello Stato che sappia attingere efficacemente allo straordinario patrimonio culturale della nostra civiltà.

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