Non c’è rosa senza spine. A proposito della conversione di Rosa Luxemburg nel 150esimo anno della sua nascita

sabato, 6 Marzo, 2021
By

Il 5 marzo è stato il centocinquantesimo anniversario della nascita di Rosa Luxemburg (Zamość, 5 marzo 1871). Un’occasione perfetta per postare una piccola anticipazione del saggio di Hans Joas che apparirà, a cura di Paolo Costa, all’interno del numero della Società degli individui dedicato al tema delle “conversioni”. Il saggio s’intitola Un cristiano attraverso guerra e rivoluzione. La tetralogia di Alfred Döblin “Novembre 1918”. Il numero è dedicato al tema delle conversioni (al plurale) e conterrà tra l’altro anche saggi di Michael Ruse, Mauro Pesce e Kurt Appel. Nel brano selezionato Joas conclude il suo lungo ragionamento discutendo il nesso tra rivoluzione, violenza e cambiamento di sé, a partire dalla figura di Rosa Luxemburg, così come viene dipinta nel grande affresco narrativo di Döblin.

La conversione di Rosa Luxemburg

Anche il ritratto di Rosa Luxemburg diventa comprensibile, a mio avviso, solo se viene osservato sotto questa luce. Alla sua vicenda, che insieme a quella di Friedrich Becker costituisce la seconda principale storia di conversione, viene dedicato molto spazio nell’ultimo volume della tetralogia. Il modo in cui Döblin la rappresenta è estremamente controverso perché, sebbene nel romanzo Rosa venga sì descritta come la figura intellettualmente e retoricamente più significativa tra i rivoluzionari, lo è non solo per le doti mentali e oratorie, ma anche in quanto amante, donna in lutto e (quasi) mistica. Nessuno può negare che nelle lettere dal carcere, in cui era stata rinchiusa per la sua opposizione alla guerra, Rosa Luxemburg riveli dei lati della personalità che Döblin poté prendere come punto di partenza per il suo ritratto. Hans Diefenbach, il suo giovanissimo amante, era morto in guerra e Döblin descrive il lento precipitare di Rosa, nel suo stato di prigionia, in una condizione di lutto ossessivo sotto la spinta di fantasie sessuali di unione con l’amante defunto e di percezioni allucinatorie del suo ritorno e della sua presenza fisica.

Questo ritratto ha suscitato forti critiche nella sinistra radicale e tra le femministe perché è stato visto come un modo per sminuire la militante politica riducendola a una donna debole. Un simile giudizio mi sembra ingiusto perché Döblin non mette mai in dubbio le capacità di leadership politica di Rosa Luxemburg (sebbene nel romanzo la sua fiducia nelle reali possibilità della rivoluzione si riduca progressivamente). Anche il suo lutto non rappresenta affatto un fenomeno per così dire privato, ma è appunto il lutto per un morto della Prima guerra mondiale che, in quanto amato, simboleggia tutti gli altri morti amati e compianti da altre persone. Döblin si spinge fino a mettere queste parole in bocca a Rosa: «Come Antigone sono rinchiusa nella camera della sposa e murata viva» (IV, p. 16); così facendo getta un ponte sia verso la tutt’altro che apolitica tragedia di Sofocle sia verso uno dei punti cruciali della storia di conversione di Friedrich Becker. La Rosa di Döblin non si converte al cristianesimo come Becker, ma non si converte nemmeno alla violenza, come aveva fatto Johannes Maus e molti altri militanti, sia di destra sia di sinistra.

Da questo punto di vista, nel racconto di Döblin, lei è totalmente diversa da Karl Liebknecht che inizialmente, pur recalcitrando, si fa trascinare nel ruolo del Lenin della situazione e cerca poi di svolgerlo al meglio. Il lutto di Rosa, viceversa, allontana dalla violenza: spinge verso l’antileninismo, per così dire. Com’è noto, Luxemburg è stata una severa critica di Lenin, della violenza illimitata della sua prassi rivoluzionaria e dell’idea di dittatura del partito unico che ne deriva logicamente. Döblin, tuttavia, esaspera le effettive differenze e alla fine trasforma la figura romanzesca di Rosa in un simbolo del «socialismo dal volto umano» – se mi è consentito usare in maniera anacronistica l’espressione coniata da Alexander Dubček durante la Primavera di Praga nel 1968.

Il rifiuto della violenza ha conseguenze di vasta portata per la visione dell’ordine da stabilire. Evidentemente, Rosa non è affatto pronta per tali conseguenze – né nel romanzo né nella realtà. Nel romanzo viene ampiamente descritta una lotta interiore che, da un punto di vista letterario, si rivela essere «il grande esperimento di un rinnovamento dell’epica religiosa che, fatta eccezione per Klopstock, non ha precedenti in Germania». Döblin descrive i conflitti interiori di Rosa sia come una lotta contro Satana sia come una lotta tra Satana e gli angeli per l’anima di Rosa. Secondo Döblin nell’ammirazione per Lenin era in gioco qualcosa di più dell’ammirazione per l’organizzatore di una rivoluzione vittoriosa. Dopo che a Lenin è stato detto «good-bye» qui a Berlino, e non solo, questo aspetto non è più universalmente comprensibile. Nel romanzo viene data la parola allo stesso Lenin, per esempio nel capitolo «Bisogna creare un nuovo tipo d’uomo», e questo è il risultato: «L’uomo così com’è non va bene. Gli uomini sono stupidi e deboli, sciocchi sentimentali attaccati alle comodità borghesi, mistici, devoti e fannulloni, e perciò delinquenti. Contro queste persone dev’essere condotta una guerra di sterminio. Tutte le vestigia della vecchia tirannia devono essere fatte a pezzi, non solo il suo esercito, la sua amministrazione, la sua giustizia, ma anche, e soprattutto, e in primo luogo, le sue roccaforti segrete, che si trovano nelle menti, nei vecchi modi di pensare, nelle idee, ideali, credenze, metafisiche, sentimenti» (IV, p. 63 e sgg.).

Questo Lenin è per Döblin l’incarnazione di una volontà, allo stesso tempo violenta e razionale, di cambiare il mondo; il suo «uomo nuovo» non incarna una visione di liberazione, ma di sottomissione. Le speranze che hanno dato origine al mito della rivoluzione si capovolgono così in un incubo. Nella figura di Rosa Luxemburg, però, Döblin mantiene viva l’idea di un socialismo democratico non ostile alla religione, che era molto popolare in una parte della sinistra.

La conversione cristiana secondo Döblin

Soltanto chi non privilegia uno solo dei numerosi filoni narrativi, soltanto chi non lo esamina separatamente e non pensa che contenga in sé il messaggio dell’intera opera renderà giustizia al monumentale romanzo di Döblin sulla Rivoluzione tedesca di novembre (1918-1919). Le diverse storie di conversione si rispecchiano l’una nell’altra nel modo più sorprendente. Così il cristiano Friedrich Becker si avvicina alla rivoluzione, mentre Rosa, la socialista rivoluzionaria, se ne allontana. La storia di Friedrich Becker, a sua volta, si rispecchia nell’adesione del suo amico Johannes Maus ai Freikorps, organizzazione di estrema destra e prefascista, mentre la conversione di Rosa Luxemburg trova un riflesso in quella di Karl Liebknecht, che ci porta nei paraggi del leninismo.

Allo stesso tempo, tutte le storie di conversione si riflettono in storie di mancata conversione. Tra queste la più rilevante – che qui non è stata ancora menzionata – è quella del drammaturgo Erwin Stauffer. Questa trama secondaria, che per ampiezza si avvicina alla storia di Becker, è destinata ad apparire pleonastica se si prescinde da questo effetto intenzionale di rispecchiamento. È perciò sorprendente, ma non inspiegabile, che il traduttore inglese della tetralogia abbia semplicemente scelto di rimuovere del tutto questa sottotrama. Nello stile della letteratura di consumo, Döblin mostra cosa accade quando non avviene una rottura con lo stile di vita estetico e una persona si vota interamente alla «poesia» senza preoccuparsi della politica e dedicandosi solo al proprio sé.

Ma tutto ciò significa forse che è impossibile ricavare un messaggio chiaro da questo romanzo di conversioni che, a dispetto della mirabile virtuosità della costruzione polifonica, è destinato a lasciare dietro di sé solo una sensazione di confusione? Se ripercorriamo quanto detto sopra, ci rendiamo conto però che dalla narrazione emerge, quantomeno ex negativo, un messaggio etico-politico. La storia di Friedrich Becker insegna cioè che il mero cambiamento personale rimane egocentrico se non sfocia in un impegno a favore di un miglioramento istituzionale. Anche il modo in cui viene raccontata la vicenda rivoluzionaria mostra che gli atti violenti di Lenin o dei Freikorps o la sanguinosa repressione di Noske ed Ebert non fanno altro che proseguire la storia antica della caduta e decadenza umana. A seconda dei loro gusti e simpatie, i vari interpreti tendono a separare il racconto della rivoluzione e la storia della conversione o a ordinarli in maniera gerarchica. A quel punto o le storie di conversione fanno l’effetto di corpi estranei all’interno di un romanzo storico oppure appaiono come l’alternativa alle rivoluzioni caldeggiata da Döblin.

Ma non è questo l’obiettivo che ha in mente Döblin. La sua visione del cambiamento sociale oltrepassa l’orizzonte degli attori negli eventi raccontati. Nel libro, sia Friedrich Becker che Rosa Luxemburg rompono con la hybris, con il sogno arrogante di un dominio mondiale totale. Questo era il tema dell’opera che precede Novembre 1918, la trilogia Amazonas dove, invece che esoticizzarlo come un’ideologia americana o sovietica estranea all’Europa, tale sogno viene rappresentato come il nocciolo dell’espansione globale europea. Nel romanzo c’è anche un personaggio storico, Woodrow Wilson, il presidente americano del tempo di guerra, il «grande saggio» [großen Vernünfitgen], che viene ritratto senza riserve come una figura positiva per via del suo sostegno alla creazione di una Società delle Nazioni, cioè in favore di forme pacifiche di regolazione dei conflitti internazionali e per una fuoriuscita dalle perenni dinamiche conflittuali degli Stati europei.

Non intendo discutere qui quanto ci sia di reale in questo ritratto di Wilson. Mi preme solo fugare l’impressione che il cristianesimo di Döblin sia apolitico per il solo fatto che è difficile collocarlo in uno degli schieramenti politici esistenti e perché la sua rappresentazione della rivoluzione fatica a rientrare nelle narrazioni politiche più convenzionali. È evidente che fraintendiamo un romanzo, o andiamo oltre le sue intenzioni, se ci aspettiamo di ricavare retrospettivamente da esso un programma politico inappuntabile per l’età delle rivoluzioni.

Di certo Döblin non era un autore che cominciava il processo di stesura di un libro con un chiaro messaggio in testa e una conclusione prefissata. Il suo romanzo, tuttavia, offre delle risposte alle domande da cui prende le mosse il processo di scrittura. Chiunque interpreti la cultura europea prima della Grande guerra come una cultura cristiana di fatto non può che vedere nella guerra un fallimento totale del cristianesimo. Da tale presa di coscienza può scaturire una rottura definitiva con il cristianesimo. Esiste però un’alternativa, ed è quella di mettere in discussione il cristianesimo prebellico e vedere una via d’uscita dalla catastrofe della guerra mondiale in una radicalizzazione dell’orientamento al vangelo. Di fronte allo scontro sanguinario tra i Freikorps appoggiati dalle truppe governative e i soldati e gli operai ribelli e davanti all’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, coloro che si orientano verso una simile comprensione radicalizzata del cristianesimo si rammaricheranno soprattutto della violenza, della futilità e disperazione che derivano dalla dinamica della vendetta e pretenderanno di fuoriuscire da essa.

«Più a fondo dentro di sé e saldo», scrive Döblin riflettendo sul proprio libro ad anni di distanza: «ogni cristiano sa che non si deve cambiare lo stato del mondo con la forza delle armi». Anche durante la Guerra fredda egli non mancò mai di ricordare che il socialismo è nato «da un sentimento puro, umano e cristiano» e che le rivoluzioni sono sempre esplosioni di un bollitore di fronte alle quali è giusto chiedersi che cosa abbia reso incandescente il bollitore. Döblin il cristiano non era esattamente in sintonia con la repubblica federale a trazione democratico-cristiana dell’epoca di Adenauer.

Nelle opere di Döblin l’elemento cristiano non è presente nella forma di un’interpretazione della storia prêt-à-porter e con inequivocabili implicazioni politiche. Ha piuttosto la forma di un gigantesco richiamo alla responsabilità personale nella vita storica. Questa sfida non riguarda solo i cristiani, ma si estende a tutti gli universalisti morali. L’opera tarda di Döblin è così speciale proprio perché non solo si tiene lontano dalle idee convenzionali di liberali, socialisti e cristiani, ma rifiuta anche l’interpretazione della storia che Max Weber ha concettualizzato come progressivo “disincanto”. Le conversioni che si incontrano nei suoi racconti non sono riducibili alla formula stantia di una fuga dal mondo disincantato. Döblin ha trovato una forma letteraria che consente al lettore di aprirsi a nuovi valori e nuove strade anche alla luce della tragedia della Prima guerra mondiale, della Rivoluzione di novembre e del fallimento della repubblica di Weimar

Tags: , , , , ,

Un commento a Non c’è rosa senza spine. A proposito della conversione di Rosa Luxemburg nel 150esimo anno della sua nascita

  1. Roberta De Monticelli
    domenica, 7 Marzo, 2021 at 08:59

    Davvero bello, e mi costringerò a leggere Doeblin, il parallelo tedesco di Roger Martin du Gard. La sola cosa che non capisco è la congiunzione “violenta e razionale” riferita all’azione di Lenin, specie da parte di Joas che conosce bene il suo Scheler. È certo profondo a quanto pare in Doeblin il parallelismo con Pentimento e rinascita – e anche il saggio precedente – di Scheler ne l’Eterno nell’uomo, la più profonda e lucida requisitoria sul fallimento non del cristianesimo, ma della cristianità istituzionale e sociale nella catastrofe della Grande Guerra. Poteva Doeblin conoscere questi saggi?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *


*