Sulla lezione più importante (purtroppo trascurata) di John Maynard Keynes (un contributo di Giovanni La Torre)

mercoledì, 3 Marzo, 2021
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Pubblichiamo, autorizzati dall’Autore, un contributo a proposito di John Maynard Keynes nell’85° anniversario dalla pubblicazione della sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), riedita nel 2019 per la collana de I Meridiani Mondadori, tradotta e commentata da Giorgio La Malfa e Giovanni Farese.

Giovanni La Torre è stato Direttore Generale di istituzioni finanziarie appartenenti a importanti gruppi bancari e assicurativi. Attualmente svolge attività di consulente di direzione. Nel campo della ricerca economica e politica ha collaborato con la Fondazione Di Vittorio e con la Fondazione Critica Liberale e scritto sull’omonima rivista. Ha pubblicato i seguenti libri: L’economia in dieci conversazioni (Editori Riuniti, 2006), Conversazioni sull’economia contemporanea (Editori Riuniti, 2009), Il grande bluff. Il caso Tremonti (Melampo, 2009), La Comoda Menzogna. Il dibattito sulla crisi globale (Edizioni Dedalo, 2011), Chi e Cosa ci hanno ridotti così (Streetlib, 2018).

Giorgio La Malfa ha di recente approfittato dell’85° anniversario della pubblicazione della Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta< di J. M. Keynes per confermare l’attualità dell’economista inglese, visto che il varo da parte dell’Unione Europea del Recovery Fund a debito non sarebbe altro che l’attuazione della prescrizione keynesiana di attivare il deficit spending per incentivare gli investimenti e rilanciare l’economia. Tutto giusto, tranne che per un mancata precisazione, e cioè che per Keynes quella del deficit spending è l’ultima ratio, ma non la via principale, e questo purtroppo viene sempre (volutamente o per ignoranza?) dimenticato.

L’idea keynesiana che bisogna sempre mettere in evidenza “per prima” quando si espone quella teoria, e da cui derivano le altre, è questa: la congiuntura economica è determinata dal livello della “domanda effettiva aggregata”. “Effettiva” perché non deve essere solo “desiderio” di acquistare, bensì desiderio e “possibilità economica” per farlo, “aggregata” perché comprende sia quella per consumi che quella per investimenti. È questa semplice premessa che ha reso obsolete le teorie economiche del XVIII e XIX secolo, secondo le quali la crescita era determinata dalla “produzione” di per sé. Nel XX secolo, quando la capacità produttiva ha ormai raggiunto dimensioni impensabili prima, il problema, detto volgarmente, non era più produrre ma “vendere”.

Prima di Keynes il problema non veniva avvertito perché si pensava vigesse la “legge di Say” o “legge degli sbocchi”, secondo la quale è la stessa produzione che determina la domanda per assorbirla, grazie ai redditi che distribuisce. Questa legge faceva ritenere impossibili le crisi di sovrapproduzione. Ad essa, prima di Keynes, si opposero sul piano teorico solo Malthus e Marx, ma invano, anche per una certa insufficienza analitica delle loro argomentazioni (che qui non abbiamo lo spazio per approfondire). Fu Keynes che ne assestò il colpo definitivo e questa volta con maggior successo, anche perché la Storia, che è il vero laboratorio di ricerca delle scienze sociali, ne diede la dimostrazione concreta con la crisi del ’29.

I redditi distribuiti dalla produzione si dividono, grosso modo, in due categorie: salari e profitti, e mentre i primi si trasformano pressoché totalmente in domanda di beni di consumo, i secondi dovrebbero alimentare, oltre che i consumi delle classi agiate, ma solo in minima parte in rapporto al loro reddito, la domanda per beni di investimento. Al momento in cui vengono formati, e qui comincia la rivoluzione di K, i profitti sappiamo con certezza solo che alimentano i risparmi (a cui si aggiungono anche quelli dei salari alti); se alimenteranno anche la domanda dei beni di investimento non lo sappiamo ancora, questo dipenderà dalla convenienza a investire, cioè se la previsione di altri profitti è positiva. Ma, appare evidente che le prospettive di ulteriori profitti sono legate a quelle di poter vendere la produzione futura. Quindi punto fondamentale è che ci sia una domanda per beni di consumo tale da indurre a nuovi investimenti. In tal modo i risparmi totali (differenza tra redditi e consumi) vengono impiegati, tramite il mercato finanziario (perché non sempre chi risparmia è lo stesso che investe), nell’economia attraverso gli investimenti. Infatti la condizione di equilibrio keynesiana è l’uguaglianza tra risparmi e investimenti; le crisi si verificano quando i risparmi non riescono a tradursi tutti in investimenti. Ora, appare altrettanto evidente che affinché quella condizione di equilibrio si verifichi da sola è necessario che ci sia una giusta distribuzione dei redditi tra le classi sociali, perché solo questa può alimentare una domanda di consumo sufficiente.

Lo stato deve intervenire, e qui torniamo alla questione con cui abbiamo iniziato, quando la domanda spontanea del mercato è insufficiente, e allora l’intervento pubblico serve a raccogliere quel risparmio inutilizzato e immetterlo nell’economia reale attraverso la spesa pubblica. Spesso questa situazione si verifica, come quella che stiamo vivendo da circa trent’anni, proprio perché vi è una cattiva distribuzione dei redditi che determina una domanda inferiore alla capacità produttiva. Che per Keynes il deficit spending non sia la soluzione “canonica”, lo dimostra il fatto che nella Teoria Generale accenna a quello strumento solo in una nota. Poi ne parla spesso in articoli, ma solo perché la situazione congiunturale del momento lo richiedeva, ma non è la situazione ideale e naturale per un sistema economico sano. Ovviamente qui abbiamo esposto un modello economico semplificato, manca il commercio internazionale e il bilancio pubblico (la spesa pubblica per investimenti è comunque importante), ma serviva solo ad esporre certi concetti basilari.

Un’ultima considerazione. Nei momenti di forte crisi tutti si convertono al “keynesismo” (Friedman diceva, mentendo, “ormai siamo tutti keynesiani”) per ottenere l’intervento dello stato a sostegno della domanda e per lenire, con l’assistenza sociale, gli effetti negativi della disoccupazione e dei bassi salari. Però poi, passata la tempesta, accusano quello stesso stato di aver accumulato un eccessivo debito pubblico.

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