Perché noi italiani non ubbidiamo alle leggi? Un commento alla nota di Tommaso Greco. Di Giacomo Costa

mercoledì, 12 Maggio, 2021
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Botta e risposta: ospitiamo volentieri questo esteso commento all’articolo di Tommaso Greco, sperando che il confronto continui!

Noi italiani ubbidiamo poco alle leggi? Domanda molto, troppo vaga. Una riformulazione con maggior presa empirica sarebbe: ubbidiamo alle leggi meno degli spagnoli, o dei francesi, o dei tedeschi? Ma anche così dovrebbe essere ulteriormente specificata per giungere a un possibile confronto con qualche classe di dati. Se questa supposta circostanza sia o no quella di cui Tommaso Greco vuole indagare le cause, non è del tutto chiaro dal suo scritto, anche se sembrerebbe presupposto in alcuni suoi punti oltre che nel titolo. Una sua tesi chiaramente enunciata, non solo sua ma sulla quale egli concorre, è la mancanza di una “cultura della legalità “ nel nostro paese, cioè lo scarso valore dato all’osservanza delle leggi.(Da questo potrebbe seguire una scarsa osservanza, ma su questo Greco non si esprime esplicitamente.)

L´aspetto inatteso dell´argomentazione di Greco, che lo rende interessante e stimolante, è che egli addossa una parte rilevante della responsabilità di questa situazione sui “giuristi e teorici del diritto”, in quanto essi sostengono una teoria del diritto erronea e fuorviante (p.127):

Aver reso comune l´dea che il diritto sia vincolante solo in quanto dotato di sanzione ha fatto credere ai cittadini che, là dove sanzione non ci sia, oppure dove la sanzione non giunga perché non riesce a essere efficace, non esista alcun obbligo da rispettare.

Si noti che Greco non dice che da una specifica teoria delle norme segue che quelle prive di sanzione non siano obbliganti: dice che questa è una conclusione che la gente ne ha, a torto o a ragione, tratto. Nel prosieguo della sua esposizione (p. 130) non è altrettanto chiaro che la distinzione sia mantenuta:

… è perché sono obbligato che, in mancanza di adempimento, posso (e devo) essere punito; e non viceversa.

Se questa sia una obiezione alla comprensione popolare della teoria dalla quale Greco dissente, o alla teoria in sé, non è evidente. Ciò che è chiaro, e sottolineato anche nella pagina conclusiva (p. 131) è che i cittadini dovrebbero sentire il dovere di osservare le norme:

un dovere che non è (necessariamente) derivante dalla morale…ma discende direttamente dalla semplice esistenza della norma giuridica,

e qui il lettore ha l´impressione di incontrarsi con l´ovvio. La natura di una norma, giuridica o morale, è di porre un dovere. E quello posto da una norma giuridica è di porre un dovere giuridico. Ma forse l´impressione è errata. Certo, secondo una particolare concezione delle norme, esse (o almeno la maggioranza di esse) sono ordini, o ingiunzioni, miranti a ottenere dai loro destinatari un certo comportamento. Dunque le norme sarebbero di per sé dotate di una specifica natura obbligante, sicché esse soddisferebbero per la loro natura propria i requisiti della seconda e terza frase citate. Ma questa non è l´unica concezione delle norme, e potrebbe non essere quella adottata da Greco, che purtroppo nel suo breve scritto egli non indica. Su questo tema resta dunque un interrogativo. Vi sono peraltro altri due passi del suo articolo meritevoli di commento.

Il primo riguarda il ruolo delle sanzioni nel sostenere un ordinamento giuridico, ossia, nel conferire efficacia alle sue norme:

Un sistema politico-giuridico che facesse poggiare la sua effettività innanzi tutto sulla coercizione avrebbe perso per strada una delle sue parti costitutive e occorrerebbe domandarsi seriamente se sia ancora un ordinamento giuridico.

Questo pone il problema delle ragioni che la gente ha di osservare le norme. Possono essere svariate, e può darsi che in molti casi il timore delle sanzioni non sia predominante. Di molte norme il singolo vede l´utilità sia sociale, sia individuale. La regola della precedenza alle rotatorie, o la presenza dei semafori, o la posizione delle stanghe ai passaggi a livello, sono chiari esempi di giochi di coordinamento, in cui le leggi aiutano la gente a trovare i comportamenti che massimizzano l´utilità sia sociale sia individuale. Tutta la normativa emessa con gli ormai famosi dpcm per far fronte alla diffusione del Covid è di questo tipo, e così si spiega la sua sorprendentemente ampia osservanza nonostante lo scarso rilievo delle previsioni sanzionatorie: su questo punto Tommaso Greco ha perfettamente ragione nella sua critica alla dottrina che vede nella disposizione sanzionatoria la vera natura delle norme. Rispetto a molte altre norme la gente è indifferente: e può osservarle per il solo fatto che sono statuite, il caso preferito da Greco. Ma ve ne sono altri in cui l´interesse del singolo è opposto a quello di tutti gli altri, come nella gestione di un impianto industriale ad alto potenziale inquinante, o nel pagamento delle imposte: e qui solo una superiore moralità porterebbe i cittadini a un comportamento conforme alle leggi: o il desiderio di evitare le sanzioni. Nelle molte situazioni sociali rappresentabili come giochi del “dilemma del prigioniero” le sanzioni sono essenziali nel modificare gli incentivi degli individui e portarli recalcitranti a posizioni di massima utilità sociale. (Nel “rinnovamento della cultura giuridica” auspicato da Greco dovrebbe a mio avviso trovar posto anche un po´ di teoria dei giochi: come nella teoria delle prove, parte del diritto processuale, ha recentemente trovato posto la teoria dell’inferenza bayesiana.)

La seconda osservazione di Greco (p. 131) riguarda il possibile uso del diritto nell´arginare fenomeni di anomia morale:

E´ del tutto ovvio che la sfida di una rinnovata etica pubblica non si gioca soltanto sul piano giuridico, e meno che mai su quello del diritto penale, venendo a coinvolgere quell´intreccio tra costume, morale e politica che si realizza sul piano della società civile; ma non bisogna dimenticare che in questo rinnovamento gioca un ruolo ineludibile la nostra cultura giuridica.

E´ un fatto che il diritto penale costituisce in molte sfere della nostra “società civile” ahimé non troppo civile l´ultima (e unica) barriera a comportamenti che dovrebbero essere regolati dal diritto ad esempio commerciale o societario, o da autorità regolatorie, ma non lo sono. Dubito che agli scafati soggetti protagonisti di scorrerie nei mercati azionari l´esortazione di osservare le leggi in quanto statuite farebbe un grande effetto.

In conclusione: Tommaso Greco dissente da una dottrina che vede nelle previsioni sanzionatorie l’essenza delle norme. Adottando una diversa dottrina, secondo la quale le norme sono ingiunzioni o prescrizioni del legislatore, alcune delle affermazioni di Greco diventano ovvie. Non è chiaro a quale dottrina aderisca lui.  E osserva che un qualsiasi ordinamento giuridico non può reggersi principalmente sul desiderio di evitare le sanzioni. Concordo con questo giudizio. Ma vi sono dei casi in cui solo il potere sanzionatorio delle leggi può conferire loro efficacia. Per rendersene conto occorre disporre di un´idea della varietà di funzioni svolte dalle leggi nel governo della società, come o migliore di quella da me abbozzata sopra.

 

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Un commento a Perché noi italiani non ubbidiamo alle leggi? Un commento alla nota di Tommaso Greco. Di Giacomo Costa

  1. TOMMASO GRECO
    lunedì, 17 Maggio, 2021 at 23:25

    Sono infinitamente grato a Giacomo Costa per il tempo e l’attenzione che ha dedicato al mio intervento “Perché noi italiani (non) ubbidiamo alle leggi?”, pubblicato nel n. 1 2021 di ‘Paradoxa’ e poi generosamente ripreso da Roberta De Monticelli su Phenomenology Lab.
    Prima di rispondere puntualmente – o almeno provare a rispondere – alle osservazioni avanzate, vorrei spendere una parola sui sentimenti con cui ho accolto il commento di Costa. Quando ero studente nella facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Pisa, parlo degli anni tra la fine degli ottanta e l’inzio dei novanta, Giacomo Costa era, nella stessa facoltà, giovane docente di economia. Non l’ho avuto come professore, ma lo incrociavo spesso, ed ero ammiratissimo sia del modo in cui interveniva nelle discussioni (ad esempio, nei consigli di facoltà, dove io ero rappresentante degli studenti), sia del modo ‘leggero’, quasi sospeso, col quale lo si vedeva attraversare gli spazi. Era peraltro sempre in compagnia di libri, che attiravano la mia (e di altri) curiosità. Che abbia speso del tempo per commentare un mio testo genera quindi in me, innanzi tutto, un grande senso di gratitudine.
    Passo dunque alla risposta.
    § 1. A dire la verità non sostengo esplicitamente che gli italiani ubbidiscano poco alle leggi. Il modo in cui è formulato il titolo del mio articolo — Perché gli italiani (non) ubbidiscono alle leggi? — voleva lasciare indeterminato proprio questo punto. La mia non è infatti una accusa che muove da indagini sociologiche, ma è una messa in questione di una cultura giuridica che fonda la normatività prevalentemente (se non esclusivamente) sulla minaccia della sanzione.
    § 2. La mia tesi è che determinate teorie della norma — in particolare quella kelseniana, ma anche quella realistica della scuola scandinava, entrambe largamente diffuse tra i giuristi e i teorici del diritto italiani — nel far dipendere l’obbligatorietà giuridica dalla presenza della sanzione, o comunque dal fondamento che la forza fornisce al diritto, finiscono involontariamente o meno per ricavarne la conclusione che una norma priva di sanzione non sia realmente obbligante, ma sia da ricondurre piuttosto alla categoria del ‘consiglio’ (la distinzione tra norma giuridica e consiglio è infatti centrale in tutta la teoria positivistica, da Hobbes a Bobbio). Dunque, attribuisco a questa cultura giuridica una influenza negativa sulla cultura diffusa (popolare).
    § 3. Quel che qui viene definito ovvio, non è affatto ovvio. Che una norma sia obbligante solo perché è una norma, può essere vero a patto che prima definiamo cosa è una norma (giuridica), e dunque si torna alla questione precedente. Per una certa tradizione, una norma è tale solo se è sanzionata, e perciò sostenere che un obbligo giuridico esiste solo in quanto c’è una norma (anche non sanzionata) che lo stabilisce non è affatto una ovvietà. E se pure fosse una ovvietà, sappiamo purtroppo che a volte sono proprio le ovvietà a dover essere ripetute (ad esempio, la tesi della correlazione tra diritti e doveri, che però nella teoria dei diritti non è affatto scontata).
    § 4. Sulle ragioni per le quali i cittadini ubbidiscono al diritto il mio articolo è del tutto lacunoso: devo rimandare al volume (di prossima pubblicazione) da cui esso è tratto. Nel quale riconosco la pluralità delle ragioni dell’ubbidienza, ma mi soffermo su una in particolare, e cioè sul fatto che si adempia alla norma riconoscendo le ragioni dell’altro. A differenza di quanto pensa la cultura diffusa, questa ragione non conduce affatto nella sfera morale, ma appartiene al piano giuridico: è il diritto, infatti, che stabilendo una serie di diritti e di doveri reciproci ci chiede di considerare l’uno le ragioni dell’altro. Questo è il punto di vista che ho assunto per sostenere che una dose di fiducia è implicita nel diritto, a prescindere dal fatto che poi questa fiducia venga o meno delusa. Prima di vedere ciò che effettivamente ciascuno di noi fa quando ubbidisce o non ubbidisce alle norme, non si può negare che il diritto ci chieda di farci carico delle aspettative reciproche. Che il diritto offra un rimedio alla delusione della fiducia mediante la sanzione (norma secondaria) non toglie che esso, in prima istanza (mediante la norma primaria), chieda di tenere dei comportamenti che sono sempre azioni dovute ad altri soggetti. Non nego che la sanzione sia un elemento ineludibile del diritto; ma questo riconoscimento non può togliere l’esistenza di qualcosa che c’è prima e che la giustifica. Sanzioniamo (o minacciamo di sanzionare) coloro che compiono scorrerie nei mercati azionari perché vengono meno a dei doveri che essi hanno e che sono stabiliti dalle norme che regolano le loro azioni.
    Infine, credo anche io che una indagine che riguardi in generale le funzioni svolte dal diritto sia ineludibile. Quel che ho voluto segnalare (ma questo emergerà molto più dal libro, mentre nell’articolo è sottotraccia) è che tra queste funzioni non può mancare quella cooperativa. L’eccessivo riferirsi al diritto come strumento per la risoluzione (preventiva o successiva) dei conflitti ha occultato la dimensione relazionale che esso assolve quotidianamente e regolarmente, anche se fa meno rumore rispetto a quella che siamo abituati a vedere raffigurata nei poliziotti e nei tribunali.

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