Il groviglio della libertà dei filosofi e l’aporia irrisolta dei neuroscienziati. Di Roberta De Monticelli

giovedì, 23 Settembre, 2021
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Ovvero la libertà, la scienza e il disincanto. Riprendiamo qui un commento al tema del Festivalfilosofia di Modena, “Libertà”, uscito su Domani Martedì 21 settembre. Anche se i tormentosi abissi della disputa sul libero arbitrio paiono un lusso d’altri mondi di fronte alle paurose confusioni che hanno dato voce alle polemiche sulla carta verde, e ancora avvolgono il concetto primario e popolare di libertà.   Quello “politico” che enuncia insieme la norma: nessun uomo è per natura soggetto al volere altrui,  e il suo vincolo : i diritti  degli altri. 

Libertà è una parola che canta, scriveva Paul Valéry, senza nascondere il sospetto per le parole che, cantando, rischiano di incantarci. Libertà è il tema – o piuttosto il problema, anzi l’inesauribile intrico di questioni – di cui si è parlato al Festivalfilosofia di Modena quest’anno (17-19 settembre). E non stupisce, dati i tempi che corrono, che la maggior parte degli interventi annunciati vertessero su aspetti della questione facilmente riferibili all’attualità, sia quella delle restrizioni sanitarie, sia quella dei diritti umani tanto calpestati nel mondo. L’angosciosa questione “che fare?” i filosofi la discutono troppo poco, soprattutto qui, dove troppi di noi sono ancora occupati a divinare cosa fa l’Essere (o l’Occidente o la Modernità), o a irridere le anime belle e i moralisti ancora all’oscuro della sua Macchinazione. Ma c’è davvero qualcosa nell’universo che dipenda dal nostro libero volere? Disponiamo veramente di libero arbitrio?

Dai tempi di Benjamin Libet (anni ’80), attraverso Daniel Wegner,  John-Dylan Heynes, Patrick Haggard e molti altri, esperimenti con tecniche di neuroimmagine sempre più raffinate hanno reso quasi un luogo comune la nozione che quando la “decisione” o l’intenzione di agire emerge alla nostra coscienza i giochi sono già fatti alle spalle dell’io e della sua coscienza: alcuni secondi prima il cervello si è già attivato in un senso o nell’altro, tanto da permettere allo sperimentatore di prevedere cosa farà il soggetto prima che lui stesso lo sappia. In un piccolo libro uscito nell’ottobre 2020 Giuseppe Trautteur, fisico e teorico informatico nonché responsabile della raffinata Biblioteca Scientifica Adelphi, espone i misteri e i paradossi dell’indagine neuroscientifica sul libero arbitrio. E’ un libro che si legge come un thriller e insieme come la confessione di un’avventura umana, riassunta nel titolo: Il prigioniero libero (Adelphi). Quel prigioniero vive in una sorta di lacerante dissonanza cognitiva fra “il completo affidamento alle leggi della fisica”, che lo convincono oltre ogni ragionevole dubbio che il libero arbitrio è un’illusione, e l’esperienza della scelta, insopprimibile: e se illusione, incorreggibile. Sta proprio qui la bellezza di questo libro: in questa non risolta aporia, sviscerata in ogni suo aspetto. In questa straordinaria umiltà dell’intelligenza, che fa apparire piatta come una sogliola e tronfia come un inno carducciano (a Satana) la sicumera del mainstream scientista. Per il quale – e sono davvero la maggioranza di color che sanno –  tutta l’angoscia o la fierezza delle nostre scelte non sono che un delirio di presunzione umanistica, alimentato dal magnifico “trucco” con cui la mente conferisce il lustro spettacolare del dramma, dell’epopea, della tragedia alla nostra povera vita di marionette neuro-psico-sociologiche. Cioè: i narcisi saremmo noi, che ci ostiniamo a vedere la soglia dell’umano nell’assunzione della responsabilità morale delle nostre azioni e perfino dei nostri giudizi, nella faticosa, quotidiana ricerca del discrimine fra bene e male, nello sconcerto per la perdurante barbarie e nella sconfinata gratitudine per le luci di civiltà che la nostra specie ha disseminato nei millenni fino ad oggi. E gli illuminati sarebbero loro, che con malcelato compatimento e sovrana nonchalance hanno archiviato tutte queste distinzioni attardate. E non è chiaro se il loro disincanto, in cui la differenza fra le torri gemelle e gli atomi che ne restano si riduce a nulla, sia moralmente cieco o veggente.

La storia del problema è molto più antica della parola – possiamo rintracciarla nelle pagine della Metafisica di Aristotele che discutono il cosiddetto problema dei futuri contingenti, e in quelle sulla natura degli atti volontari.  Se è vero che domani ci sarà una battaglia navale, e domani, poniamo, è il 15 settembre, allora lo si sappia o no, la battaglia ci sarà. Se il futuro è determinato, ci sembra che niente dipenda da noi. Questa impressione va subito corretta, perché nessuno ha detto che fra i fattori che determinano il futuro non ci siano anche le nostre decisioni. Sì, ma se una decisione è come ogni altro evento “già” determinata, è ancora una decisione? E la discussione comincia. E prosegue con gli Stoici, che hanno esaminato la nozione di “necessità” in tutti i suoi risvolti, compresa la sua applicazione agli eventi futuri; così ritroviamo tutta la questione nel De fato di Cicerone. La questione acquista spessore e drammaticità quando in luogo della Natura antica o del divino cosmo stoico compare sulla scena filosofica l’Iddio delle religioni monoteistiche, e in particolare la Trinità cristiana. In questo mondo dove l’uomo  affronta il diavolo e il buon Dio, e dove si scontrano modi alternativi di fondare  la metafisica e la morale, la questione del libero arbitrio compare nella sua terminologia ormai standard al centro del pensiero di Agostino (ma il termine libertas arbitrii si ritrova anche in un trattato di Tertulliano contro lo gnostico Marcione, agli inizi del III secolo). Di lì prosegue attraverso Boezio, la grande speculazione medievale monastica e scolastica, la scettica modernità umanistica, la Riforma e la Controriforma, il cui fronte di battaglia passa per il problema del libero arbitrio, illuminando due secoli di dispute e di roghi: e dove al trattato di Erasmo Diatriba de libero arbitrio (1524) risponde quello di Lutero, De servo arbitrio (1525), e la dottrina della doppia predestinazione nell’Institutio Christiane religionis di Calvino (1536), mentre a Lutero e Calvino risponde il gesuita Louis de Molina con la sua Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis, divina praescientia, praedestinatione et reprobatione (1588). La questione, che mobilita le risorse dei più grandi razionalisti e degli empiristi del secolo XVII, da Cartesio a Spinoza a Leibniz, da Hobbes a Locke a Berkeley, si avvia, nel secolo di Hume e di Voltaire, a diventare un capitolo di antropologia scientifica, oppure al contrario, con Kant, un postulato della ragion pratica, vale a dire un presupposto indimostrabile della morale. Ma tutta la questione si rinnova divampando nel pensiero romantico come questione dell’autodeterminazione dell’individuo, della sua vocazione e formazione, della realizzazione di sé, per poi sprofondare negli abissi dell’introspezione romanzesca o nei grandi studi dostoevskiani sul male, riemergere fra le inquietudini del Novecento in abiti esistenziali, avviarsi infine ai laboratori logico-analitici ed empirici della filosofia della mente e della sua “naturalizzazione”, ma anche in quelli tecnologici e fantascientifici dell’epoca cyborg, degli automi semi-vivi che popolano i nostri incubi, e della loro ipotizzabile rivolta.

A conclusione di questo excursus dobbiamo chiederci: che cosa avranno scoperto i neuroscienziati, allora? Di quale dei molti diversi concetti di libero arbitrio fanno uso gli speculativi scienziati che ne negano l’esistenza? I nostri cervelli sono stoici, luterani, molinisti, cartesiani, lockiani, leibniziani, humeani, sartriani, davidsoniani, dennettiani…o cosa ancora?

Che le questioni di limpidezza, univocità, definitezza del linguaggio non siano mere questioni di galateo, si vede da questo dubbio. Un cervello è il soggetto appropriato per prendere decisioni e fare scelte? Pensate che cosa imbarazzante sarebbe per un cervello, se, poniamo, si trattasse della decisione di offrire un mazzo di rose a una signora (ma con quali mani?). O di scegliere una professione, ad esempio decidersi fra la danza classica e la ricerca entomologica. Ecco: ma questa è solo una questione di linguaggio? A proposito della lacerante dissonanza del prigioniero libero, oltre alla maggioranza “che non ci pensa”, e ai pochi disposti a far dell’anima un’entità soprannaturale pur di salvarsela, vi sfuggono, ci dice l’autore guardandoci negli occhi,  tutti gli SBNR: “Spiritual But Not Religious”. In sostanza, tutte le persone che non solo continuano a credersi agenti ragionevoli e liberi, ma non concepiscono una ragione senza libertà: perché come si fa a essere razionali, se essere irrazionali non è un’opzione? Eppure, conclude Trautteur, è una fallace coerenza questa, che ci alleggerisce il giogo. Una bella sfida. Qualcuno, a Modena, l’avrà certo raccolta.

 

 

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