Un pensiero nuovo della libertà (I) di Roberta De Monticelli

venerdì, 29 Aprile, 2022
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Riprendiamo questo articolo sulla chance immensa di una civiltà nuova che il mondo ha perduta,  comparso su “Domani”, 28 aprile 2022. Scarica qui il pdf.

 

Ci siamo. Lavrov, il ministro degli esteri russo,  l’ha detto chiaro, c’è una minaccia atomica sul mondo perché – dice – c’è una guerra per procura degli Stati Uniti contro la Federazione Russa. E da Kiev il segretario di stato americano Anthony Blinken e il capo del Pentagono Lloyd Austin non lo smentiscono affatto: Austin in particolare chiarisce che l’obiettivo del sempre maggior coinvolgimento occidentale in questa guerra è la messa fuori gioco della potenza militare russa – un obiettivo che nessuno in buona fede avrebbe mai potuto attribuire alla nazione ucraina prima che – e da molti anni a questa parte – essa venisse adeguatamente armata per riuscirci.

Il 25 aprile non ha affatto sopito le polemiche fra chi questa escalation sostiene e chi la ritiene folle. Il fatto è che questo dibattito ha dei contorni oscuri, e in questa oscurità la ragione si perde.  Il dato della disputa è la libertà che l’autocrate russo mette in pericolo in Ucraina, o a partire dall’Ucraina; la questione è che cosa dovremmo fare noi per aiutare l’Ucraina. L’oscurità riguarda la questione: noi chi? Abbiamo bisogno di un pensiero nuovo della libertà per fare chiarezza su questa questione e ragioni sensibili – in luogo di cieca passione – alla disputa. Il pensiero nuovo viene da due grandi edificatori di civiltà che la coscienza cosiddetta occidentale ha radicalmente rimosso – e solo in questo senso è nuovo. Altiero Spinelli e Michail Sergheevič Gorbačëv, oggi apparentemente entrambi sconfitti, sono simbolicamente uniti in una sorta di passaggio di testimone simbolico, che Spinelli appena prima di morire lanciò, come vedremo, al Presidente dell’Unione Sovietica, entrato in carica solo l’anno prima.

Bella ciao, che ieri (il 25 aprile) è risuonata su tutte le piazze italiane, esprime il nucleo da salvare dell’idea di libertà di cui tutti facciamo uso. Comincia con “l’invasor”. E finisce con la libertà per cui il partigiano è morto – o meglio col fiore di civiltà fiorito sulla sua tomba. A suo modo la canzone ribadisce il nesso essenziale che Platone stabilì fra l’anima e la Città, fra la persona e la civiltà ideale, il “noi” con cui il cittadino si identifica. Lo ribadisce nel modo più semplice: non c’è libertà per le persone (cioè diritti civili, politici, sociali e culturali) se non c’è libertà dall’invasore, cioè indipendenza politica dello Stato. Ma qual è il nesso fra libertà delle persone e indipendenza di uno stato nazionale? Evidentemente uno solo, che la canzone tace e custodisce nella sua melodia, non per caso ormai cantata in tutto il mondo: la democrazia. Perché uno Stato che ha respinto l’invasore e riguadagnato l’indipendenza politica certo non è una condizione sufficiente par la libertà dei suoi cittadini se gli manca la democrazia, il solo regime che consente di affermare (in linea di principio) “lo Stato siamo noi”.

Altiero Spinelli non è solo, con Ernesto Rossi, e idealmente Colorni e Ursula Hirschmann, l’autore del Manifesto di Ventotene.  E’ il teorico solitario e l’edificatore instancabile, a partire dalla svolta eurocomunista italiana che gli consentì di operare nella Commissione e poi nel Parlamento – ancora fantasmatici fino agli anni ’70 – di quel design istituzionale dell’UE, oggi ancora appeso alle sovranità nazionali degli stati membri, che se compiutamente realizzato ne farebbe la federazione degli Stati Uniti d’Europa, con la sua sovranità politica oltre che la sua unità fiscale e, ovviamente la sua difesa comune. L’idea semplice e grandiosa che sostiene questo design è che in un mondo globalizzato, definito dalle interdipendenze economiche e dalla dimensione multinazionale delle imprese, anche l’idea di la sovranità democratica (Costituzione italiana art. 1) vada dissociata da quella di nazione. Pensiero che effettivamente la Costituzione recepisce nell’art. 2, dove, riconoscendo e garantendo “i diritti inviolabili dell’uomo” (non, semplicemente, del cittadino di questo Stato), la Repubblica costituzionalizza i diritti umani, che di lì a poco la Dichiarazione Universale avrebbe articolato, e che la Carta dei Diritti dell’Unione Europea approfondisce in una misura sorprendente. Questo pensiero consente per la prima volta di distinguere con precisione nazionalismo e amor di patria. Il nazionalismo oggi è un disvalore per la democrazia. Si chiama sovranismo.

Visto a trent’anni dalla sua sconfitta, il pensiero di  Gorbačëv sorprende per lucidità e ampiezza di visuale. La lucidità: con cui vede che, nel secolo delle armi nucleari, “l’umanità ha smesso di essere immortale”. L’ampiezza di visuale: in cui rientra, non semplicemente la fine della guerra fredda e la sconfitta di uno dei suoi due poli, ma la costruzione di un nuovo ordine mondiale che deve veramente sostituire l’imperio della legge all’imperialismo delle potenze, e dare forza, ma in questo senso, all’Organizzazione delle Nazioni Unite. Nella sua visione, il punto d’origine e disseminazione di questo nuovo vero ordine di una pace duratura è l’Europa, di cui la Russia non solo è parte geografica, non solo è un’anima grande e profonda, ma può e deve anche divenire parte costitutiva, attraverso il ponte di tutte le repubbliche (Ucraina, Bielorussia, repubbliche Baltiche in primo luogo!) della rinnovata Federazione di Stati Indipendenti in cui l’Unione Sovietica avrebbe dovuto e potuto pacificamente trasformarsi. Tanto articolata e concreta fu questa immensa chance negli anni drammatici precedenti alla sconfitta, nel 1991, e poi alla semplice dissoluzione caotica dell’enorme corpo sulla spinta violenta dei nazionalismi, e in primo luogo quello della Russia di El’cin – che occorrerà tornare con calma su questo pensiero, limpidamente esposto nell’autobiografia recentemente ristampata di Gorbačëv (Ogni cosa a suo tempo, Feltrinelli 2021). Ma per ora è urgente soffermarsi sul suo aspetto più cruciale, che è il pensiero nuovo della libertà.

Tutti forse ricordano Reykjavik, 1986. Appena installato al vertice, Gorby averva persuaso Reagan a riprendere il negoziato lanciato l’anno prima, a Ginevra, per il disarmo nucleare bilaterale. Dopo un anno, in effetti, viene siglato l’accordo Usa-Urss sull’eliminazione dei missili a corto e medio raggio. Pochi però capirono, allora, che questo era per il nuovo leader russo l’aspetto “esterno” o globale della perelstrojka. Cioè di quella “rivoluzione democratica delle menti” – e delle istituzioni che produsse, insieme a una fioritura di vita culturale e civile mai più veduta in Russia dopo gli anni ’20, la prima elezione veramente democratica: quella che nel ’90 portò El’cin alla presidenza della Repubblica Russa. La prima e l’ultima elezione democratica: perché El’cin si guardò bene dal concederne mai un’altra, soprattutto dopo aver fatto prendere a cannonate il suo Parlamento, nel 1993, provocando una strage di cui non si seppe mai la vera consistenza numerica, a proposito di Glasnost o trasparenza. Quello che seguì fu il colpo di mano con cui El’cin portò a compimento la pura e semplice dissoluzione dell’Unione Sovietica, iniziando quella che Gorbačëv definì “una parata delle sovranità” e che indusse El’cin di lì a poco a intraprendere la sciagurata guerra cecena. Ma il cosiddetto Occidente non capì. Sostenne El’cin, ma soprattutto non capì perché era sbagliato. Lo era per il nesso essenziale fra democratizzazione interna e vera realizzazione dell’ordine internazionale democratico nuovo, a partire dalla “Casa comune europea”. “Era stato raggiunto un accordo su un possibile ingresso dell’Urss nell’Unione europea con lo status di membro associato, e di lì a poco, nel Fondo monetario internazionale come membro a tutti gli effetti”. Il pensiero nuovo della libertà è stato lì lì per diventare l’anima d’acciao delle istituzioni del cosiddetto Occidente. Un ordine democratico compiutamente sovranazionale nella regolazione della convivenza delle nazioni. Eppure già prima dell’impero sovietico si era dissolto il sistema jugoslavo: nel sangue che i nazionalismi sempre portano con sé, dalla Prima Guerra Mondiale in poi.

Che immensa chance fu perduta – e quanto brutalmente è calpestata oggi nelle dichiarazioni di Lavrov e nelle risposte di Blinken e Austin. E per chiudere il cerchio sull’altro grande edificatore oggi sconfitto, ecco cosa scrisse Spinelli nel 1986 nel suo diario, poco prima di morire, in una pagina beffarda nei confronti di un comunista italiano di allora, che chi fosse il nuovo Segretario del PCUS non lo aveva ancora capito. Scrisse: “Invano suggerisco che se si vuole commemorare l’8 maggio non è come vittoria dell’antifascismo, ma come fine di 30 anni di disastrosa guerra civile europea e inizio di un capitolo nuovo nella storia europea”. Disse  Gorby nel ’91, in occasione del conferimento del Premio Nobel per la pace: “se la perelstrojka fallisce, svanirà la prospettiva di entrare in un nuovo periodo di pace nella storia”. Abbiamo visto come sta andando a finire. “Noi”: sta ridiventando l’orrenda parola che si oppone a “loro” come Blinken e Austin a Lavrov. Orgoglio russo contro orgoglio americano. No, non eravamo questo, “noi”. Forse possiamo ancora non essere costretti a divenirlo?

 

 

 

 

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