Quanta zizzania c’è nell’università italiana? Forse è ora di una bonifica

sabato, 31 Luglio, 2010
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Come ho già avuto modo di esprimere in risposta all’intervento di Roberta De Monticelli sulle regole del reclutamento universitario, trovo la discussione sullo stato dell’accademia italiana pubblicata su questo sito oltremodo opportuna a stimolante.

Dai commenti lasciati sulle pagine del Phenomenology Lab mi sembra che emerga quella che è la percezione della situazione dell’università italiana da parte di chi ci lavora: nel mondo accademico tutti sanno che la situazione è tragica, molti attribuiscono la crisi al comportamento di una piccola parte corrotta e di una grande parte silenziosa del mondo accademico, ma le responsabilità vengono scaricate soprattutto sul sistema, più che mai allo scarso sostegno dello Stato all’università e alla ricerca.

Ora, quello che vorrei sottoporre alla comune riflessione può essere riassunto dalla seguente domanda: quanta zizzania c’è nell’università italiana? In altre parole, in quale misura la situazione di disagio e inefficienza che gli studenti percepiscono quando varcano la soglia dei nostri atenei e spinge molti laureati di talento a lasciare con disgusto il mondo universitario non appena iniziano a capirne le dinamiche interne, è dovuta a carenze personali di chi nell’università comanda, insegna e fa ricerca, piuttosto che da carenze del sistema? Di certo, per restare nella metafora agreste, non si può fare di tutta l’erba un fascio, tuttavia penso sia lecito chiedersi se ci troviamo nella situazione descritta dalla parabola evangelica o meno. Nel noto racconto il padrone del campo vede che insieme al grano sta crescendo l’erba cattiva, ma non interviene per non rischiare di eliminare, insieme alla zizzania, anche il raccolto. Questo comportamento ha una sua logica se la zizzania resta in una percentuale minima rispetto al grano. Molti di coloro che lavorano in università sembrano riconoscersi in questa situazione: ci sono casi di docenti e ricercatori – ammettono – che non svolgono il proprio lavoro, o lo svolgono male, o addirittura si abbandonano a comportamenti illegali e immorali, ingoiati dalla propria sete di potere. Però nel complesso dei nostri atenei prevale il buono, l’onesto, il grano, insomma. Esistono molti esempi di eccellenza nella didattica e nella ricerca e casi di carriere basate sul merito. La zizzania è presente, ma non prevalente. Ma siamo così sicuri che la situazione sia questa, e che invece nelle nostre università non si sia lentamente scivolati verso un proliferare delle erbacce, fino ad arrivare al punto in cui il grano è così sparuto, schiacchiato e rassegnato da rendere i frutti del raccolto insignificanti per la cultura e l’educazione?

A sostegno della mia ipotesi, vorrei citare tre aspetti che mi sembrano non solo presenti, ma prevalenti nel mondo accademico italiano. Baso le mie osservazioni su un semplice confronto tra i comportamenti che ho potuto riscontrare in membri del corpo accademico italiano e quelli di docenti di altri Paesi, europei ed extraeuropei. Si tratta evidentemente di una visione parziale, ma non penso che sia molto lontana dalla realtà nel suo complesso.

Un primo aspetto riguarda il modo in cui nell’università il potere è concepito e vissuto. Spero di sbagliarmi, però non mi sembra affatto minoritario il numero di docenti che perseguono l’acquisto e la conservazione del potere personale come fine unico delle proprie azioni, senza alcun vero interesse per gli scopi di insegnamento e ricerca per cui l’università è nata. Che dire, ad esempio, di chi pubblica a proprio nome articoli scritti da altri, o impedisce ai propri allievi di pubblicare i propri lavori perché da sé non produce nulla, o sceglie i candidati da appoggiare ai concorsi per servizi resi che non hanno nulla a che vedere con il merito accademico?

Platone spiega nella Repubblica che il vero filosofo (potremmo estendere le sue affermazioni agli intellettuali in genere, quindi ai docenti universitari di oggi) non accetta cariche e onori perché vuole, ma per prestare un servizio ai suoi concittadini. Il prigioniero della caverna che viene liberato ha il privilegio di poter dedicare tutta la vita allo studio, si rende conto che la ricerca e la conoscenza sono premio a se stesse, però ha compassione dei compagni che sono rimasti al buoi e accetta di tornare ad aiutarli. Siamo sicuri che il numero di chi lavora per spirito di servizio verso gli studenti e la società, e per dedizione alla ricerca è maggioritario nelle nostre università?

Non è piuttosto vero il contrario? Non è vero che – e siamo al secondo spunto di riflessione – il principio di motivazione dell’azione di molti non è lo spirito di servizio, e dunque di dedizione cooperativa al bene dell’università, bensì è la mera invidia personale? Non prevale la tacita convinzione che chi ha talento è un possibile concorrente nella corsa verso il potere, o anche solo verso lo stipendio fisso, e quindi va emarginato o eliminato? In un passo del Teeteto Platone disegna un bel ritratto dell’oratore pagato per difendere i malfattori nei tribunali, che diventa opportunista e ricattabile, astuto e calcolatore. Il filosofo (di nuovo, il docente universitario), al contrario, è descritto come un uomo libero, che discute di ciò che vuole, e quando vuole, del tutto incurante dei calcoli meschini. Sempre Platone sostiene l’idea della discussione comunitaria, perché “quattro occhi vedono meglio di due” ed è uno strenuo difensore della necessità di una comunità di ricerca nella quale regni la discussione benevola, perché più efficace. Di nuovo, è questa la situazione prevalente nel nostro mondo accademico? E di questo è davvero responsabile il sistema?

Infine, una caratteristica che emerge in modo stridente dal confronto tra le occasioni di dibattito in ambito universitario in Italia e all’estero è che da noi si è fatto del disprezzo un’arte. Il primo cambiamento che noto nei giovani che entrano in contatto con il mondo accademico è l’acquisto dell’abitudine di parlare dei colleghi cercando sempre di individuarne un aspetto criticabile, denigrabile, che ne mette in luce una qualche inferiorità. All’inizio sembra solo una mera inclinazione al pettegolezzo accademico. Ma col passare degli anni l’arte si perfeziona, fino a diventare in alcuni una vera e propria maestria nell’affrontare chi difende idee opposte alle proprie o abbraccia scuole di pensiero differenti dimostrando che l’avversario è inadeguato, incompetente, poco scientifico, possibilmente esponendolo al pubblico ludibrio. Nei convegni italiani questa operazione di trasposizione della discussione dagli argomenti all’attacco personale è quasi la regola. Una sola volta in un convegno internazionale mi è capitato di assistere a questo comportamento. Era il convegno della International Plato Society, tenutosi a Gaflei (Liechtenstein) nel settembre del 2000. Inutile dire che l’attaccante era italiano. Anche qui Platone ci insegna che il dialogo filosofico (potremmo ancora dire, tra intellettuali) richiede che ci si tratti da pari, quindi con rispetto. È dunque scorretto e segno di vanagloria passare dalla discussione sugli argomenti all’attacco personale. Non è vero che nel nostro mondo accademico l’umile riconoscimento del valore altrui, anche se l’altro è uno studente imberbe, è merce assai rara, e predominano invece la prevaricazione e l’arroganza?

Vorrei allora invitare quanti desiderano cambiare l’università italiana – oltre a confutare la mia lettura dimostrandomi che vedo la situazione più nera di quello che è – a rileggersi i libri centrali della Repubblica di Platone, dalla fine del quinto alla fine del settimo, dove sono descritte le doti intellettuali e morali che deve avere chi dedica la propria vita alla ricerca con il desiderio di giovare agli altri oltre che a se stesso. Penso che il rinnovamento dei nostri atenei abbia bisogno di questo. Perché la zizzania smetta di prevalere.

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2 commenti a Quanta zizzania c’è nell’università italiana? Forse è ora di una bonifica

  1. Stefano Cardini
    domenica, 1 Agosto, 2010 at 08:28

    Non so come si possa quantificare la quantità di zizzania nel corpo accademico universitario. D’altronde la zizzania è tanta anche nel settore dove lavoro, quello giornalistico. E anche lì prevale la rassegnazione. Capisco l’appello ai valori di Paola Premoli De Marchi. Ma se non deve rimanere un’esortazione retorica agli alti offici dell’intellettuale, si deve mettere a fuoco che cosa accade concretamente in quello che lei chiama “il sistema”, non solo in quanto insieme delle regole scritte e non scritte, ma in quanto apparati e ruoli, attualmente ricoperti da persone in carne e ossa. Si sono sottolineati, giustamente, gli attuali smarrimento, inerzia, rassegnazione, viltà, cinismo del corpo accademico o di una sua parte. Io ne sono al di fuori, ma per l’esperienza che molti anni fa ho avuto da studente nelle file del Senato Accademico Intergrato che scrisse lo Statuto autonomo dell’Università degli Studi di Milano, posso dire che è ben difficile che in questo momento, tra le file dei “professori”, non ci sia (eccome!) anche chi decide, negozia, media, progetta, suggerisce e consiglia, per nulla estraneo quindi (anzi!) alle forme, ai tempi e ai modi con cui si sta procedendo a questa “riforma”. La scommessa, vecchia e non difficile da immaginare soprattutto in una città come Milano, è che con il passaggio delle università a Fondazioni affluiscano a sostituire i fondi pubblici in esaurimento, risorse private, anzitutto dalle tasche degli studenti (con rette più alte), quindi da banche e imprese. Purtroppo, essendo l’Università italiana tutt’altro che un modello di efficienza, mi chiedo chi e perché dovrebbe investirci soldi. Non abbiamo molte Nokia in Italia, ahimé: la propensione all’investimento in ricerca e sviluppo delle imprese italiane è tra i più bassi d’Europa (il 90%, d’altronde, è sotto i 15 addetti). E la reputazione dell’istituzione è tale per cui mi pare difficile che qualche consiglio d’amministrazione trovi allettante impiegarvi risorse. Quindi? Su che genere di scambio si sta scommettendo esattamente? Non si possono, se si vuole davvero capire, eludere queste domande. Il “sistema” è costituito da nomi e cognomi, persone fisiche e giuridiche, interessi legittimi (e meno) da tutelare. E in ordine sparso, come sempre nell’università italiana, ogni suo apparato si sta muovendo per rimanere in sella al nuovo cavallo, nella convinzione o anche solo nella speranza che saranno altri – semmai – a cadere. Quanto al resto, in questo momento, credo che qualunque tentativo di dissenso all’interno al corpo accademico (dove il potere l’hanno solamente gli ordinari, e certo non tutti allo stesso modo), che vada oltre il solitario mugugno nel foro interiore, sarebbe pagato a caro prezzo in termini di carriera. Perché sotto questo profilo, a leggere che cosa prevede la riforma per esempio proprio in termini di reclutamento, l’impressione è che il cavallo continuerà a mangiare una biada non molto dissimile da quella che tutti conosciamo. Ma forse mi sbaglio. Speriamo.

    P.S. Per essere più esplicito: lo scambio, temo, sia soprattutto sui posti e sui ruoli politico-istituzionali interni alle università, come luoghi a partire dai quali si può ancora esercitare una forma d’influenza nella cultura e nella società; inoltre, sui servizi, a pagamento, e sulle intraprese pubblico-private che, con procedure certo trasparenti, potrebbero nascervi attorno. S’intravede qui qualcosa di analogo a quello che abbiamo visto accadere per i giornali. Quanto più diseconomica diventa l’impresa editoriale, e dunque fragile e incapace di esercitare un ruolo autonomo, quanto più s’accende l’interesse “politico” a investire denaro per assumerne il controllo da parte dei più svariati soggetti. È impressionante la corsa di questi anni a “salvare” giornali in crisi. Ma forse li spingerà l’amore per l’informazione, e per il suo ruolo di contrappeso ai rischi di deriva autoritaria delle democrazie così ben descritto da Alexis de Tocqueville…

  2. martedì, 3 Agosto, 2010 at 08:48

    Devo dire che non mi tiro mai indietro quando si tratta di pontificare malinconicamente sui difetti della congregazione a cui più o meno obliquamente appartengo. I vizi descritti da Paola Premoli esistono e se ne potrebbero aggiungere molti altri (primo tra tutti uno a cui non sfugge quasi nessuno: la vanagloria). Il fatto che fossero già noti a Platone e, con tutta probabilità, anche all’uomo scimmia del Pleistocene, dovrebbe suggerirci qualcosa sulla natura umana – e non esattamente qualcosa di gradevole. Quando poi guardiamo agli altri paesi con invidia, non dobbiamo mai dimenticare che da lontano i dettagli sbiadiscono inesorabilmente (e con nostro sommo sollievo). Dobbiamo fare attenzione, perciò, a non cadere nella tentazione di idealizzarli troppo. Tanto per dire, mi ricordo che qualche tempo fa Charles Taylor – che nella sua carriera ha conosciuto tutti i palcoscenici più importanti dell’universo accademico internazionale – mi ha confessato con franchezza che la meschinità umana che ha conosciuto in quei luoghi tanto ambiti non l’ha sperimentata da nessun altra parte, nemmeno in politica, un altro ambiente che lui ha frequentato con non minore assiduità.
    Temo che contro vizi di questa diffusione e portata una rilettura della Repubblica potrà sortire ben miseri effetti. Personalmente, mi accontenterei di una comunità scientifica che funzionasse con un po’ più di passione e severità e che costringesse le persone magari anche solo a simulare le virtù che dovrebbero rappresentare gli ideali normativi della nostra professione. So che tutto ciò fa pensare più a La Rochefoucauld che a Platone, ma converrete con me che l’accademia italiana assomiglia più alla corte del Re Sole che non all’Atene del IV secolo.

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