A proposito del commento di Battiston. Rischi e opportunità della riforma universitaria in corso (di Andrea Zhok)

lunedì, 23 Agosto, 2010
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Un paio di osservazioni a complemento del (peraltro ben informato) contributo di Roberto Battiston.

1) Non sono affatto certo che una distinzione tra università dedite alla ricerca ed università dedite all’insegnamento sia una soluzione opportuna sciaguratamente ostacolata da pregiudizi ‘egalitari’: in verità questa distinzione, peculiare del sistema americano, è contestata all’interno di quel sistema stesso; al contrario in Europa, dove non mancano certo università di eccellenza, tale divaricazione è sostanzialmente assente (con poche eccezioni in UK).

2) Il caso dell’Università di Trento non può essere generalizzato sul territorio italiano, per vari motivi, ma innanzitutto perché presuppone le peculiari condizioni di autonomia e finanziamento delle province del Trentino Alto Adige. Si richiede una previa modifica costituzionale.

3) Il ddl 1905, noto come ‘riforma Gelmini’, fortunatamente non è stato concepito né seguito dalla ministra medesima, e ciò ha consentito in commissione ed in parte in Senato di modificare ampiamente l’impianto originario, con il contributo delle opposizioni. Pur permanendo vincoli burocratici e goffaggini di vario genere, è stata presa la strada del modello britannico, vincolando scatti stipendiali, partecipazioni a commissioni e fondi dei dipartimenti (in percentuale sul FFO) a valutazioni della produttività scientifica.

Pur non essendo il sottoscritto sospettabile di simpatie per il governo in carica, bisogna ammettere che siamo di fronte per la prima volta alla possibilità (ancorché fioca e condizionata) di una riforma positiva del sistema universitario. Ora, invece che continuare a lamentarci dell’irredimibile passato (in cui nessuno contesta l’esistenza di ottime ragioni per lamentarsi), sarebbe forse meglio spendere un poco di energie ed ingegno a seguire ciò che sta accadendo proprio sotto il nostro naso e che condizionerà l’esistenza futura dell’intero sistema di educazione terziaria.

Il passaggio del ddl alla Camera non è stato ancora calendarizzato, ma dovrebbe avvenire tra settembre ed ottobre. Allo stato ci sono svariati punti pendenti, ma mi permetto di segnalare alcune questioni capitali, concernenti il sistema delle valutazioni ed i finanziamenti. Dal sistema delle valutazioni dovrebbe dipendere a cascata sia la questione del reclutamento e degli avanzamenti di carriera, che la più generale questione della qualità della docenza. Nel modello britannico/scandinavo di riferimento non esistono concorsi in senso proprio e dunque il problema stesso della composizione delle commissioni non sussiste. In tale modello l’università è incentivata ad assumere docenti validi dal fatto che le valutazioni post hoc dei docenti determinano l’entità dei finanziamenti (retroazione premiale). E l’entità dei finanziamenti, ovviamente, consente (o meno) ulteriori assunzioni o avanzamenti di carriera, oltre che la gestione infrastrutturale. Questo modello non può essere direttamente trapiantato in Italia innanzitutto per motivi costituzionali, in quanto in Italia ogni dipendente pubblico deve essere assunto tramite concorso. Nel modello che si profila, il concorso in questione sarà un concorso di abilitazione nazionale, da cui poi le università dovrebbero scegliere i ‘migliori’, motivate dalla prospettiva che migliori candidati produrranno in prospettiva migliori valutazioni e maggiori fondi. Questo meccanismo è potenzialmente molto positivo, tuttavia esso può anche fallire malamente e ciò per i seguenti motivi.

In primo luogo, allo stato attuale l’attività didattica non conta in alcun modo per le valutazioni in questione, che focalizzano integralmente sui risultati della ricerca. Questo punto è di per sé potenzialmente molto distorsivo, in quanto incentiva ovviamente a pubblicare, ma non ad insegnare (soprattutto non ad insegnare bene). Noto di passaggio come una delle ragioni per cui è probabile che in questa fase il minacciato sciopero della docenza dei ricercatori venga attuato massicciamente è determinato dal fatto che, a questo punto, per un ricercatore che sa che d’ora in poi il suo insegnamento pregresso (magari decennale) non conterà nulla ai fini di una progressione di carriera, e che non è legalmente obbligato all’insegnamento, viene meno ogni motivo per perder tempo ad insegnare, magari mentre colleghi privi di incarichi di docenza hanno maggior tempo per pubblicare.

In secondo luogo l’intera questione dei criteri di valutazione della ricerca è demandato all’attività futura dell’ANVUR, agenzia nazionale in fase di costituzione, e dunque tutta questa sfera è avvolta nelle tenebre. Ma tutti sanno che nei sistemi in cui vige la retroazione premiale la questione cruciale è proprio quella dei criteri di valutazione, che sono il cuore (qui assente) della riforma. Criteri inefficaci produrranno sistemi disfunzionali. Su ciò la nostra vigilanza è attivamente richiesta.

In terzo luogo, i sistemi a retroazione premiale sono anche implicitamente punitivi nei confronti di quelle Università (più precisamente, nei confronti dei Dipartimenti) che non ricevono una valutazione adeguata. Ma nel contesto italiano attuale punire con una riduzione del FFO le università sotto la media significa condannare all’immediato default gran parte del sistema, che viaggia già al limite della bancarotta. (Questo, per inciso, non è un modo di dire: stanti i finanziamenti previsti secondo la legge 133/2008, entro l’anno prossimo circa metà delle Università italiane non riusciranno a pagare gli stipendi, ed entro tre anni questa situazione sarà generalizzata all’intera Accademia). Questo significa che non ci sono margini, dato il sistema di finanziamento attuale, per applicare il modello premiale prima di un consistente rifinanziamento.

In quarto luogo, sul piano dei salari individuali il sistema in questione fa leva sul rendere condizionali gli scatti di stipendio all’ottenimento di certi risultati in termini di pubblicazioni; ma è inutile dire che a fronte di un blocco generalizzato degli scatti stipendiali per il prossimo triennio, come quello approvato nell’ultima finanziaria, le premesse per una partenza del sistema col piede giusto non sembrano proprio esserci.

In quinto luogo, e forse il più importante, nell’attuale ddl tutti riferimenti alla questione del finanziamento sono state espunte, o meglio, si ritrova costantemente ripetuta, pressoché in conclusione di ogni articolo, la formula: “senza ulteriori aggravi di bilancio”. La riforma insomma è stata scritta assumendo di implementarla a costo zero. Da ciò derivano svariati dettagli buffi e meno buffi, come l’evasività sui fondi al diritto allo studio o la partecipazione obbligatoria alle commissioni di abilitazione di colleghi esteri, cui non verrebbe assicurato neppure un rimborso spese. Il punto fondamentale però è che in fase di discussione al Senato il Governo ha accettato secondo la formula della ‘raccomandazione’ di provvedere a tutti i punti di natura finanziaria, promettendo un adeguato rifinanziamento del sistema universitario entro sei mesi dall’approvazione della legge. Ora però, sei mesi sono tanti e, non so voi, ma fidarmi della parola dell’attuale governo viene nella mia personale classifica della fiducia un po’ dopo la consegna dei miei risparmi al Gatto e alla Volpe. Questo è ovviamente un altro punto su cui tutti coloro che hanno a cuore l’università dovrebbero essere vigili, mettendo, nei limiti delle proprie capacità e dei propri contatti, parlamento e governo di fronte ai propri impegni.

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