Sul relativismo. Roberta De Monticelli, Giornate della Laicità (Reggio Emilia)

sabato, 9 Aprile, 2011
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Premessa dell’autrice. Queste giornate cui parteciperò – il “Festival della Laicità”, a Reggio Emilia, 15-17 Aprile, si intitolano anche a un “Elogio del relativismo”.

Come si vede dal pezzo qui sotto apprezzo l’iniziativa, ma ahimè dovrò battermi anche qui anche con gli amici (con l’ottimo Paolo Flores D’Arcais), contro i terribili equivoci che portano a credere che il “relativismo” (io credo che in sostanza si intenda con questa parola “pluralismo”, dunque è la parola che è sbagliata) sia una posizione filosofica ragionevole, sulla quale costruire giustizia. E invece è proprio uno degli equivoci che hanno ridotto la sinistra italiana nello stato in cui si trova! Da questo equivoco nascono purtroppo quelle figure della coscienza, riconoscibilissime, che ho chiamato “la coscienza sprezzante” e “la coscienza danzante”, che insieme costituiscono, appunto, “la sinistra senza ragione”. Certo, è terribile che difenda una posizione anti-relativistica proprio l’attuale Pontefice, che per anti-relativismo intende l’imposizione per legge dello Stato di una (supposta) verità, le prove per la quale, cioè le ragioni per sostenerla, non sono UNIVERSALMENTE ACCESSIBILI, cioè accessibili coi mezzi della sola esperienza e ragione umane, ma accessibili soltanto a coloro la cui ragione è “illuminata dalla fede” (in effetti da un particolare insieme di disposizioni in materia di fine vita che sono recentissime e sconosciute alla tradizione cattolica fino a Paolo VI, ma questo è meno rilevante). In sintesi: è terribile che oggi venga chiamato anti-relativismo un’integrismo di marca volontarista (perché non basta usare l’aggettivo “razionale” per far sì che le proprie posizioni lo siano). E tuttavia per quanto terribile sia non è una buona ragione per credere di essere nel vero, soltanto perché si nega la posizione del Pontefice, e quindi si è anti-antirelativisti. Fare l’elogio del relativismo è in ultima analisi associarsi all’enorme corrente danzante che inondò la seconda metà del Novecento con i tristi slogan del tipo che non ci sono fatti, ma solo interpretazioni – slogan particolarmente triste oggi da noi, in un’epocadi trionfo del motto goebbelsiano che “Se proclami una bugia colossale e continui a ripeterla, arriverà il momento in cui le persone crederanno a questa bugia.”. E siccome le conseguenze logiche, etiche e politiche dell’irresponsabilità della coscienza danzante (“Addio alla verità” si intitola il suo ultimo vangelo) sono praticamente autoevidenti, spezzo un’ultima lancia contro la forma volontaristico-teopolitica-tragico-schmittiana del relativismo, quella tipica della “coscienza sprezzante”. Vorrei che i giovani e gli insegnanti che frequentano questo nostro sito si fermassero a riflettere su queste parole con cui Norberto Bobbio già ci metteva in guardia negli anni ’80 contro le infatuazioni ricorrenti per quello che chiamava il “principe degli scrittori reazionari, Federico Nietzsche (col quale amoreggia da qualche tempo una nuova sinistra senza bussola)”. Bobbio giustificava questa sua preoccupazione citando questo passo caratteristico – è l’epoca in cui il concetto hegeliano di “anime belle” vira in quello di “anime mediocri”:

La nostra ostilità alla Révolution non si riferisce alla farsa cruenta, all’immoralità con cui si svolse; ma alla sua moralità di branco, alle “verità” con cui sempre e ancora continua a operare, alla sua immagine contagiosa di “giustizia e libertà”, con cui si accalappiano tutte le anime mediocri, al rovesciamento dell’autorità delle classi superiori.

Questo era un brano, appunto, del vangelo della “coscienza sprezzante”: dove il /disprezzo /è quello per le supposte “verità di branco” che hanno fondato l’ “età dei diritti” e le sue Dichiarazioni e Costituzioni. Non vi suona anche questo tristemente familiare, oggi?

L’articolo di Roberta De Monticelli apparso sulla Gazzetta di Reggio Emilia dell’ 8 Aprile 201de_monticelli-300x2471

A leggere le polemiche di cui è stato fatto oggetto il Festival della Laicità, prossimamente in scena a Reggio Emilia, c’è da rimanere sconcertati. Vorrei dare un contributo rasserenante, nella misura del possibile, esponendo le ragioni per le quali, dove effettivamente di discussioni si tratta (e di cos’altro? Certo non di pugilato né di talk-show televisivi) le distinzioni fra discussioni cattive e discussioni buone, fra “laicismo” e “laicità positiva”, fra “provocazione” e “rispetto” sono destituite di fondamento. All’ingiustizia apparente, allora, degli attacchi rivolti agli organizzatori vorrei rispondere con un socratico “ma perché?”. O più esattamente: ma come possono suonare offensivi degli interrogativi? Come si fa ad affermare con fondamento una proposizione vera se prima non ci si è chiesto se è vera? E allora come può suonare provocatoria una domanda come “Il filosofo può credere in Dio?” Mi perdoni don Landini, ma è esattamente quella che si è posto, fra molti altri, un cristiano come Kant, che voleva contestare la metafisica “per far posto alla fede”. E Kant non si sarebbe posto la questione se la risposta fosse stata auto-evidente. Ma non lo è affatto: nel senso che quella banale – sì lo può, perché ci sono filosofi che sono anche credenti, e dal fatto al possibile vale la conseguenza – evidentemente elude la questione, che è: il filosofo in quanto filosofo può credere in Dio? Da Tertulliano a Lutero, a molti mistici anche fra i cattolici, non si contano le risposte negative: e allora? D’altra parte è solo argomentando contro queste risposte – magari per mostrare che presuppongono una concezione troppo angusta della filosofia – che si potrà trovare alla risposta positiva un contenuto non banale. Altrimenti certo non inquieterete nessuno, ma il vostro “sì” sarà un sì da encefalogramma piatto, a tutto svantaggio dello spirito. E non vale l’identico argomento per la domanda “Senza il crocefisso l’Italia sarebbe migliore?”. Io per esempio la domanda la apprezzo. Perché mette un punto interrogativo al mio severo senso del dovere civile, e al mio scrupolo di serietà spirituale, due gendarmi piuttosto esigenti della mia coscienza.

Questi due mi dicono: nelle aule e negli uffici pubblici ce l’ha messo soltanto Mussolini, se veramente lo prendete sul serio dovreste toglierlo da quei luoghi, dove è imposto a tutti e fatto strumento di regno, per metterlo nelle stanze segrete dove pregate, o nelle chiese, dove liberamente lo andate a cercare. Ma mi sono chiesta altre volte perché questa risposta, che è ovviamente e laica e ovviamente cristiana, ogni tanto mi pare noiosa. E quell’interrogativo mi ha spronato a cercare le ragioni di questa perplessità, che fa rilassare ogni tanto i due gendarmi della mia coscienza. Le ho trovate ad esempio in uno splendido articolo dell’angelico Marco Travaglio, il quale da un lato elenca tutte le bestialità che dovrebbero far stizzire don Landini quanto me, e davvero non saprei trovare parole migliori: “Fa tristezza Bersani che parla di simbolo inoffensivo, come dire: è una statuetta che non fa male a nessuno, lasciatela lì appesa, guardate altrove. Fa ribrezzo Berlusconi, il massone puttaniere che ieri pontificava di radici cattoliche. Fanno schifo i leghisti che a giorni alterni impugnano la spada delle Crociate e poi si dedicano ai riti pagani del Dio Po e ai matrimoni celtici con inni a Odino”. Appunto: ma poi, una volta sgombrato il campo da queste penose ragioni per non levarlo, anche a me verrebbe in certi momenti da rispondere che no, l’Italia non sarebbe forse migliore senza il crocefisso, e ancora una volta la ragione più cristiana e più laicista me la dà l’angelo dei fatti, e della loro incorruttibile resistenza. Il crocifisso “è da duemila anni, uno scandalo sia per chi crede alla resurrezione, sia per chi si ferma al dato storico della crocifissione. L’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia, ma soprattutto di laicità (date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio) e gratuità (Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno)… non genera nessuna discriminazione. Tace. l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli scolari ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato morto nel martirio come milioni di ebrei nei lager?”.

Sul relativismo, che Paolo Flores d’Arcais assume a filo conduttore del festival, il punto interrogativo ce lo metterò io, del resto. E Flores d’Arcais lo sa benissimo che, pur aborrendo quanto lui il fondamentalismo della “verità” rivelata a una religione sola ma imposta a tutti, altrettanto vivamente rifuggo l’idea che non vi siano, in materia di giudizio di valore, anche verità in linea di principio universalmente accessibili. Altrimenti come faremmo a difendere razionalmente le nostre tesi, a fondare l’universalità dei diritti dell’essere umano, e a sostenere razionalmente che uno Stato laico ha un valore superiore a quello di uno stato confessionale, perché consente di rispettare la libertà di coscienza e di fede dei suoi cittadini, e non esige che riconoscano per vere cose che solo a chi ha una determinata fede diventano accessibili, ma non agli altri? Come faremmo a rispondere a chi ci spernacchia in faccia che lui dell’argomentazione razionale non sa che farsene, perché riconosce solo le ragioni della forza? Come faremmo a dire che uno Stato dovrebbe perciò assolutamente essere laico? Ma naturalmente, se potrò sostenere pubblicamente le mie tesi, lo dovrò all’invito che ho ricevuto, come l’hanno ricevuto d’altra parte (e declinato) numerosi vescovi e alti prelati. Dovremo il privilegio di discutere al fatto che Paolo Flores d’Arcais è un uomo giusto, limpido e coerente, lui che da una vita si batte precisamente perché ciascuno, fosse pure un Papa, abbia il diritto di esprimere le sue opinioni, e magari di discuterle con un ateo. E viceversa, naturalmente, salva violazione del principio dell’eguale dignità. Dobbiamo essere grati, mi pare, agli amministratori di Reggio Emilia che hanno reso possibile questo vasto dispiego di ragioni e di fedi. Non guidato da un principio diverso da quello che anima la parallela iniziativa del Cortile dei Gentili, se non nelle dimensioni e nei mezzi, infinitamente più ridotti a Reggio Emilia che a Parigi e a Roma. Ma non inferiore, anzi, nel grado di parresia, cioè di franchezza e onestà intellettuale richiesta. Anzi, a proposito di Parigi. Nel giardino della sede storica dell’Unesco, che al Cortile dei gentili collabora, c’è un piccolo edificio di meditazione, cilindrico e vuoto. A rendere il senso di quello che prova chi vi sosti qualche istante non ci sono forse parole più adatte di queste: “tutte le civiltà veramente creatrici hanno saputo… creare un posto vuoto riservato al soprannaturale puro… tutto il resto era orientato verso questo vuoto”. Le scrisse Simone Weil nelle sue “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione” (1937). Roma, al contrario, è un trionfo di plenitudine barocca, e il cielo del pittore gesuita Andrea Pozzo, sul quale illusionisticamente si spalanca la volta della chiesa di Sant’Ignazio – quella dove dorme il Cardinal Bellarmino, persecutore di due grandi geni e oggi santo – è un tripudio di folla, come una democratica domenica di festa celestiale. Bellissimo. Ma io, perché ne ammiro la bellezza, dovrei rifiutare di ascoltare la pericolosa laicista Simone Weil, quando dice: “Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non aver niente in comune con la religione che vi è esposta”? Il pensiero che qui si esprime è identico a quello di prima, e al gesto di spoliazione con cui il vero cristiano rinuncia a chiudere l’infinito iddio entro nomi, insegne, simboli, bandiere e costituzioni umane, e leva le mani di dosso all’assoluto: “noli me tangere”. Concludo su una nota personale, e due fatti. Il fatto doloroso che, purtroppo, laicità e gratuità, rinuncia alle insegne identitarie e rigorosa distinzione fra il dovere, che è legge, e la grazia, che è libertà, non hanno nutrito e continuano a non nutrire la vita della Chiesa romana visibile. E la sua conseguenza, il fatto anche più doloroso che, come scrisse Simone Weil, i frutti della sua storia, da cui dovremmo giudicare (“li vedrete dai loro frutti”) sono per questo Paese misti di veleno e di bene. Ma il veleno ha prevalso. Questi fatti mi impediscono purtroppo di condividere le parole con cui Simone conclude la sua osservazione sul concilio di Trento e che per amore di verità riporto: “quando leggo i mistici, la liturgia, vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia…”. Sempre per amore di verità (uno dei nomi di Dio): Simone, fin sul suo letto di morte, rifiutò il battesimo cattolico.

Roberta De Monticelli

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