Lettera all’Italia di una (quasi) ventenne. Indigniamoci per risollevarci

lunedì, 16 Gennaio, 2012
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Cara Italia,

Sono una giovane ragazza che tra poco meno di due settimane compierà vent’anni, saluterà l’adolescenza e farà un ulteriore passo verso il mondo degli adulti, fatto di responsabilità, sacrificio e lavoro: non nascondo la paura di tutto ciò. Perché dovrei avere timore? In fondo sono al primo anno di università, ho ancora tempo, devo concludere la triennale, affrontare poi la specialistica, insomma ho i prossimi cinque anni più o meno segnati. Quando però questa apparente sicurezza cesserà, sarò in grado di affrontare la situazione di instabilità che questo Paese offre? Da mesi rieccheggiano in tivù, sui giornali, sulla bocca della gente, le medesime parole: fiducia, sacrificio, credibilità, crisi. Tutto ciò rimbomba anche nella mia mente. Il mio percorso di studi e la mia ignoranza non sempre mi hanno fatto capire di cosa si stesse realmente parlando e quando è stata presentata la cosiddetta manovra salva italia, per esempio, confesso che ho avuto non poche difficoltà a comprendere, ma grazie alla curiosità e alla voglia di conoscere che caratterizza ancora quest’età, ho deciso di andare più a fondo alla questione. Così ho preso coscienza dell’aumento dell’Iva, che grava non su tutti i cittadini, la modifica al sistema previdenziale, che ancora una volta non grava su tutti gli italiani, la reintroduzione dell’Ici, una tassa sul lusso poi purtroppo e ridicolamente ridimensionata, come ridicola è stata la difesa delle lobby farmaceutiche&Co da parte dei politici. I momenti in cui leggevo le notizie sui giornali e su Internet, la presa di coscienza di tutto e la conseguente disperazione crescevano dentro me. Oggi, primo gennaio 2012, mi sono convinta a compiere questo grido di dolore, paura e angoscia che non affligge solo me, che non è stato spazzato via dalle luci e dalle consuetudini natalizie, ma vive e cresce nel nostro Paese, nella gente comune che, come me, non sempre può avere voce in capitolo.

Questa “impotenza” generata da imposizioni mi sta logorando, così non mi resta altro che urlare e a gran voce sputare fuori tutto quello che ho dentro per poter continuare a vivere, ma vivere realmente, non semplicemente esistere. Dalla seconda metà del secolo scorso la società postmoderna ci ha scaraventato in un vortice di insicurezze e contraddizioni, viviamo in un mondo di razionalità debole, di relativismo, di profondi valori e disvalori. Da un momento all’altro rischiamo di cadere nel buio dell’ignoranza, nell’oblìo di principi che stanno alla base dell’esistenza dell’uomo e tutto questo causa la nostra crisi, che non può essere definita meramente economica, sebbene dalla prima rivoluzione industriale in poi sia stata l’economia a decidere le sorti della politica, è così che questo materialismo ha piano piano invaso ogni cosa, ogni ideale, ogni sogno rendendo questo mondo sempre più competitivo e individualista, rendendolo corrotto.

Non sono una persona che critica senza vedere o conoscere e così ho aspettato anche a criticare questo nuovo governo di tecnici, nel quale ho ancora fiducia nonostante i forti dubbi sulla manovra fatta. Il presidente del Consiglio Mario Monti ha affermato pubblicamente di aver preso scelte che nessun altro partito politico avrebbe mai potuto prendere, in quanto il suo governo non dovrà affrontare le elezioni a differenza dei partiti e quindi di fatto non teme un confronto con l’opinione pubblica. Mi domando, tuttavia, ingenuamente, se a seguito delle decisioni prese riguardanti il risanamento dell’economia, che sono andate a pesare violentemente sulle tasche degli italiani, non ci sia spazio per provvedimenti sull’abolizione di privilegi, vitalizi e beni vari riservati solo ed esclusivamente alla casta.

La nostra Costituzione all’articolo 3 afferma le pari dignità sociali dei cittadini e la loro uguaglianza di fronte alla legge; io figlia di un operaio che quest’anno ha dato il massimo nel suo lavoro, con straordinari la domenica mattina e non solo, ho visto la sua rabbia di fronte a provvedimenti presi che non gli permettono di ricevere un premio extra per l’impegno dimostrato, ma allo stesso tempo ho visto leggi che premiano parlamentari a patto che questi si rechino sul loro posto di lavoro: ciò supera i limiti dell’assurdo. Ancora, ho visto precari manifestare nella piazze delle città per rivendicare la dignità che in ambito lavorativo non possono raggiungere, ho visto ricercatori costretti ad andarsene dalla propria Patria perchè essa non offre loro opportunità, speranza di futuro ma solo disoccupazione o stipendi non adatti a garantire un minimo benessere sociale.

Mi chiedo se non sia evidente l’anticostituzionalità di questa casta, se l’Italia non stia vivendo in una situazione che globalmente va contro la sua Costituzione, il suo documento supremo. Il 12 dicembre del 1975 un poeta italiano, vincitore del premio Nobel per la Letteratura, fece un’importante riflessione sulla società odierna e sulle possibilità di sopravvivenza dell’arte in questo tempo. Per quanto mi riguarda l’arte non è solo poesia, pittura, scultura, musica o architettura, l’arte è un mondo di ideali, Diritti Umani, valori che spingono all’integrazione, alla cooperazione e alla solidarietà; guardando questa società però, penso sia leggitimo domandarsi se la riflessione di quel poeta sulla morte dell’arte non fosse più che mai opportuna. Ogni giorno sento la pesantezza della rassegnazione che piano piano mi schiaccia e a soli vent’anni le mie forze si stanno indebolendo.

Una leggera e fioca luce rimane, la luce emanata dai miei concittadini onesti, dal loro sacrificio e dalla loro tolleranza, dalla loro voglia di crederci ancora nonostante le continue delusioni. Li ringrazio per amare questo Paese, per essere pronti ad andare avanti, per non dimenticare la resistenza fatta un tempo per la nostra liberazione e quindi resistere ancora. Questo clima di indignazione servirà a qualcosa: è la base per l’agire, per stringere i denti e credere. Il mondo ha affrontato lotte ben più tragiche, noi abbiamo la forza per affrontare questa?

Rebecca Lucchini

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4 commenti a Lettera all’Italia di una (quasi) ventenne. Indigniamoci per risollevarci

  1. Carla Poncina
    giovedì, 19 Gennaio, 2012 at 00:22

    Quando un giovane invia una lettera indirizzata alla comunità tutta cui appartiene, l’attenzione alle sue parole deve essere massima. La lettera di Rebecca è lunga, e alcune parole in particolare fanno emergere i sentimenti di fondo. “Paura” ad esempio, che compare all’inizio e non ha bisogno di commenti. Una paura che non acceca, perché subito dopo si manifesta il bisogno di capire che sta succedendo, e sensatamente R. cerca di informarsi. Certo non è facile capire. Non lo è, a quel che si vede, per i “professori” che ora sono al governo, e tantomeno per una giovane. Ecco allora il senso di impotenza, la paura -ancora una volta- di essere inghiottita dal “buio dell’ignoranza”.
    E’ una richiesta di chiarezza, di luce, la sua. Rebecca è forse alla ricerca di una guida, o di più guide. Le prime decisioni del professor Monti non la convincono, tuttavia non lo priva della sua fiducia, perché è una fiducia “necessaria” per andare avanti. Non può rinunciare al suo bisogno di giustizia, di dignità, di futuro.
    Sa Rebecca che ci sono stati in passato momenti anche più difficili. Non li cita ma possiamo facilmente indicarli: gli anni in cui i “resistenti”, i “partigiani”, attraverso la lotta al nazifascismo hanno cercato di ridare un po’ di dignità ad un paese che il fascismo aveva condotto ad un grigio e infine criminale conformismo. E poi gli anni del terrorismo, nei quali tragicamente si spensero gli aneliti di libertà e democrazia dei giovani sessantottini. Oggi per fortuna non c’è il sangue a colorare drammaticamente le strade. C’è piuttosto un clima opaco, confuso, depresso, esito ultimo di un ventennio circa di narcosi berlusconiana. Ne siamo usciti? Solo in parte e troppo lentamente, ma forse ancora in tempo per non cadere in una crisi irreversibile.
    Che dire allora a Rebecca? Continua a percorrere la strada su cui ti sei avviata: studia, studia il presente ma anche il passato, almeno quello più recente, allo scopo di capire per quanto possibile il mondo che ti circonda. E poi prendi posizione, e continua a far sentire la tua voce. Non ci sono stati progressi o rinascite in Italia se non sostenute dai giovani migliori, seppur minoranza. Così è stato nel Risorgimento, così nella Resistenza. Non sono mancati, e credo non manchino, i buoni maestri, anche se pochi e magari “irregolari”, in grado di avviare ai giusti pensieri e alle giuste azioni.
    E’ vero che l’ultimo movimento giovanile, quello del ’68, fu sconvolto e corrotto dal terrorismo, di destra prima, poi di sinistra, e ancora non si è capito se c’è stato chi ha tirato le fila di quella violenza, solo in parte spontanea, che di fatto ha bloccato il paese sulla via di una vera modernizzazione e democratizzazione. Forse è proprio di lì che si deve ripartire, dal bisogno di giustizia, sensatezza, gioia condivisa anche, che i primi movimenti del ’68 esprimevano.
    Il terrorismo venne sconfitto dallo slancio di un Paese ancora unito e guidato da uomini come Pertini, Moro, Berlinguer, ma assieme a loro parve scomparire la politica intesa come servizio al Paese.
    La caduta del muro di Berlino e il crollo del comunismo -che si sperava avrebbero dato avvio ad una fase di maggior concordia e serenità- aprirono autostrade alle mode ultraliberiste che dall’Inghilterra agli USA lanciarono le nuove parole d’ordine: “arricchitevi, divertitevi…ognuno per proprio conto!”. Thacherismo ed edonismo reaganiano ci regalarono in realtà i peggiori anni della nostra vita e il peggior leader della storia d’Italia (Mussolini permettendo…), di cui è inutile fare il nome. Di lì è iniziata la selezione a rovescio della classe dirigente: non solo nani e ballerine, come ai tempi di Craxi, ma mafiosi e camorristi, “escort” e “scilipoti,” passando per “ i bossi”, padre e figlio e via continuando l’elenco dei “nuovi mostri” all’italiana, cui possiamo aggiungere, ultimo ma di gran pes , il capitano della Concordia!
    Ora è chiaro che la crisi entro cui ci dibattiamo riguarda tutto l’Occidente e non è solo economica, ma culturale e morale.
    Non è facile individuare il rimedio, cara Rebecca, ma è certo che non se ne potrà uscire isolatamente. Si dovrà trovare il modo di lavorare insieme per far emergere una nuova idea di politica, non ridotta a mero esercizio di potere, come si è visto negli ultimi anni.
    Come duemila anni fa l’invocazione è rivolta agli “uomini di buona volontà”, i soli capaci di veri miracoli. E’ già successo al nostro Paese -si è detto- di ribaltare in brevissimo tempo il pessimo giudizio che di noi si aveva. Possiamo ancora provare a farcela. Aspettiamo le indicazioni dei migliori, e intanto insieme, con i pensieri e i comportamenti, cerchiamo di dar voce a un’altra Italia.

  2. Antonietta Monticelli
    domenica, 22 Gennaio, 2012 at 21:52

    Un grido di dolore, un esercizio retorico o una richiesta d’aiuto? Non è facile nell’assenza del padre, direbbe Socrate, interpretare queste righe. Ma sappiamo che l’assenza, in questo momento, è artificiosamente invocata per poter, interpretando, aggiungere ciò che non traspare immediatamente. Ebbene Rebecca, da insegnante e un po’ più grande, accuso il colpo. Quello che la mia generazione dovrebbe avvertire quando chi, come te, a vent’anni, invece di prendere in mano il testimone della storia ed usurpare con l’arroganza e la bellezza della gioventù, il detto e il fatto che non corrispondono più alla velocità e alle icone del tempo, si ferma invece ai piedi della scala. Sì, ti immagino davanti a una salita, la prima rampa tranquilla, affidabile, ben costruita da tutti quei noi che si sentono sicuri nel procrastinare ancora, per quanto dici? Per cinque anni ancora la tua giovinezza. Ma tu, adesso ti sei permessa di guardare la seconda rampa, e ne hai intravisto i gradini sconnessi. Hai intuito il vuoto forse? Un sentore di paura ti ha spinto ad andare a fondo alla questione. Ti sei informata, hai cercato di capire quale fosse il pericolo reale e hai chiesto ragione dei provvedimenti per la messa in sicurezza. I professori sono stati esaurienti nella lezione di risposta? Sei una ragazza attenta e rispettosa dei tempi e dei modi degli altri, ma i risultati che annunciano non ti convincono. In cima alla scala ora intravedi qualcosa, una possibilità di crescita. Eppure, Rebecca, i muri tra o quali ti aggiri sono pieni di crepe. Da queste hai sentito la rabbia di tuo padre denunciare i soprusi della casta e le voci sommesse di quanti vanno via da questo nostro Paese per cercare altrove la tranquillità di un vivere che non sia un semplice esistere; hai sentito il coraggio di chi ogni giorno intraprende una nuova battaglia per portare a casa la certezza della sopravvivenza; la stanchezza di chi dopo anni di precariato si siede a terra per rivendicare uno spazio.
    Vedi Rebecca, queste sono solo le crepe che stanno all’inizio della tua scala. Ma in questo nostro paese di scale ce ne stanno altre della cui statica ci interessiamo poco, anche se intuiamo che comunque portano al piano di sopra. Sono quelle che non saliranno mai coloro che, partiti dal loro paese, per esistere, naufragheranno prima che la barca improvvisata riesca a raggiungere le nostre coste; sono quelle ai piedi delle quali si fermeranno i corpi senza vita dei “sans papiers” che attraversano il nostro territorio; sono quelle che dovranno ininterrottamente salire coloro ai quali, nati in Italia da genitori stranieri, il nostro paese nega, ancora una volta, lo ius soli.
    E sai Rebecca, questa è solo una parte della storia, perché un po’ più lontano da questo nostro Occidente civile, ci sono uomini che si trascinano di giorno in giorno senza intravedere scale. Bambini che hanno statisticamente poche probabilità di diventare adulti e occhi di madri che non sperano più niente. La loro anima può salvarsi solo a patto di credere nell’esistenza di una legge di natura o di una volontà imperscrutabile che ha deciso una volta per sempre la condizione di ciascuno. Anche per loro accuso il colpo e lo estendo.
    Lo estendo a tutti noi che non abbiamo voluto guardare in alto nel momento dovuto e abbiamo preferito affidare ad altri, attraverso il libero gioco democratico, la responsabilità di costruire un mondo migliore. Noi che, forse stanchi della stanchezza che i nostri genitori ci avevano raccontato, abbiamo creduto che il più fosse stato fatto e che fosse giunta l’ora di dedicarci a noi e…a voi. E lo abbiamo fatto nel modo peggiore. Chiudendo gli occhi quando qualcosa non ci piaceva e tappandoci/vi le orecchie quando le voci facevano male. Abbiamo creduto in questo modo di esercitare un diritto e, (senza volerlo?) vi abbiamo illuso di aver realizzato finalmente il Mondo Migliore.
    Le nostre coscienze, istupidite, hanno taciuto. Le intenzioni erano buone!? Le valutazioni sbagliate!? La pigrizia morale ha preso il sopravvento!? Ora accuso il colpo. Ora che il torpore morale rischia di diventare pesante rassegnazione, l’indignazione non può tacere! Da sempre sappiamo che quel che accade intorno a noi ha poco a che fare con ciò che è dovuto a ciascun essere umano. E in questo saperlo semplicemente denuncio la nostra corresponsabilità. Allora mi associo alla tua indignazione. Purché ad essa segua un’azione responsabile rispetto al progetto di mondo che pensa. Perché un’indignazione che resti pura passione può degenerare in un risentimento sterile che ha molto dell’autocompiacimento, se non in rabbia distruttiva che sa piuttosto di catarsi che di soluzione. E allora guardiamoci intorno, magari spostando più in là la linea di questo nostro orizzonte; perché la nostra Italia è solo una tessera del mondo di cui assumere la responsabilità. E soprattutto liberiamoci dal peccato originale: aspettare che altri dimostrino o facciano o siano prima di noi o al posto nostro. Mettiamoci in gioco! Perché è nelle deleghe e nelle more delle coscienze pulite che si insinua il malaffare e l’ingiustizia.

  3. venerdì, 27 Gennaio, 2012 at 00:32

    Ringrazio la mia quasi omonima collega per aver ascoltato con tanta attenzione la voce di Rebecca, e in questo modo averle dato corpo, spessore d’esperienza e speranza. E soprattutto coraggio, che significa in definitiva non demandare agli altri quello che possiamo cominciare a fare noi, in generale, ma più in particolare significa fare attenzione a scoprire il compito che in qualche modo è affidato proprio a noi, al quale in qualche modo proprio noi siamo chiamati – e quello di ognuno è diverso da quello di ogni altro. Ma non si impara ad aver fiducia in sé e in questo compito che attraverso la voce di un altro – in un qualche modo il “modello”, l’esempio di un altro. E’ in fondo il contenuto di una pedagogia esistenziale e morale che dovremmo ricominciare a praticare. Su questa verteva – fra l’altro, felice coincidenza – la conferenza di Guido Cusinato che abbiamo annunciato l’altro giorno su questo Lab.
    Ma posso dire che gli allievi della Prof. Antonia Monticelli hanno avuto una certa fortuna? Credo di poterlo dire perché li ho conosciuti: si sono già affacciati al dibattito pubblico – occasione una conversazione nella trasmissione di Corrado Augias… Ce ne saranno molte altre, di occasioni per farsi ascoltare e ascoltare: per tutti loro e per Rebecca. Allora forse il Paese riprenderà un po’ di slancio, da loro….

  4. Antonella Astolfi
    venerdì, 27 Gennaio, 2012 at 19:05

    A proposito dell’esempio di cui parla Roberta, quell’esempio che, a volte nostro malgrado o comunque anche inconsapevolmente, costituiamo per gli altri, complice la professione che svolgiamo, d’insegnante, in questo caso: leggere la lettera di Rebecca ha fatto riaffiorare dentro di me per l’ennesima volta uno stato d’animo che frequento ormai da diversi anni e che conosco dunque molto bene, perché si rinnova spesso durante certe chiacchierate con i miei studenti quando parlano del loro futuro. La cosa che più mi colpisce è il loro dar voce ad una rassegnazione niente affatto querula, sebbene non manchi mai l’inevitabile (e, del resto, ampiamente giustificato) j’accuse verso gli adulti, semmai lucida, nell’autodiagnosticarsi un futuro nebuloso, problematico, precario, non da sognare ma da gestire alla ricerca del criterio migliore per limitare i danni, più che per realizzarsi pienamente. In quel momento, sulle prime mi sento impotente, io che appartengo alla generazione nata negli anni Settanta e quindi già calata nella forte probabilità di dover fronteggiare ostacoli e difficoltà in un futuro che, però, fino a qualche anno fa si poteva ancora progettare, e non subire. E quindi, di primo acchito non mi sento neanche autorizzata a rispondere loro, nel timore che qualsiasi argomentazione suoni paternalistica, demagogica, falsa, consolatoria, alle orecchie di chi sarà pure rassegnato, ma non a farsi prendere in giro. Non per l’ennesima volta, almeno, e comunque non proprio da me. Poi, però, ecco insinuarsi il dubbio: chi è rassegnato e basta in genere non sente il bisogno di esternare né tantomeno di comunicare le proprie ragioni. Piuttosto, cerca risposte, si prepara a darsele, forse, e allora mi sento chiamata ad un impegno: non dare ai miei ragazzi e a tutti i ragazzi come Rebecca le mie ricette o soluzioni, che non vanno bene per loro perché io mi sono formata in un periodo diverso, in un modo diverso; piuttosto aiutarli, maieuticamente, a tirar fuori le loro, che io posso forse appena intravedere e solo immaginare. Mi pare che ci troviamo in un momento di svolta perché stiamo facendo i conti non solo con le macerie economiche del rovinoso ventennio appena trascorso, ma soprattutto con le miserie morali di un’indifferenza etica, sociale e culturale intollerabile. Il presente è difficile perché contraddittorio e ambivalente: soprattutto agli occhi dei giovani, la mentalità “di prima”, quella nella quale sono nati e cresciuti, ha finalmente palesato i suoi limiti, ma l’alternativa è un rimedio che sembra quasi peggiore del male. Parlando con i miei ragazzi, mi sembra che stia riemergendo un forte bisogno di communitas e l’idea che il legame solidale sia un valore che aiuta, piuttosto che un ostacolo e un impedimento. Il punto è che i primi provvedimenti del governo dei “professori” vanno in tutt’altra direzione, continuando a colpire i più deboli e risultando, dunque, iniqui. Certo, si avverte anche una forte ambivalenza tra il giudizio negativo sulla manovra (e su certe timidezze in fatto di liberalizzazioni) e la credibilità di cui, nonostante tutto, il governo smebra continuare a godere. E’ vero, paradossalmente questo acuisce le critiche, ma non rimuove la percezione netta che comunque “è meglio di prima”. L’unico consiglio che mi sento di dare ai giovani è di non mollare, continuando a studiare, acquisendo gli strumenti per capire dove stanno i problemi, da dove provengono, da quali cause hanno origine, e ipotizzare così soluzioni nuove, “pensando differente”, secondo l’insegnamento di un loro guru (ma anche mio: questo lo rivendico, nonostante l’appartenenza ad un’altra generazione!) e mantenendosi “foolish” e “hungry”. Il governo dei tecnici è comunque espressione di una mentalità vecchia mentre arriverà il momento in cui ci vorranno politici, capitani d’industria, intellettuali, sindacalisti, protagonisti della vita politica, economica, sociale, culturale e produttiva giovani, capaci di trovare soluzioni innovative a problemi vecchi e nuovi. Ecco, sarà importante che siano pronti e che le loro energie siano state spese bene, a prepararsi, a formarsi adeguatamente per traghettare questo nostro Paese verso un destino migliore. Sarebbe bello, anche se è ancora utopistico, lo so bene, che fosse un governo di non ancora trentenni (perché no, magari premier una donna!) a scrivere una pagina nuova della nostra storia nazionale.

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