Note dell’aspirante fenomenologo che s’è perso e ritrovato

venerdì, 18 Dicembre, 2009
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“Occorre esser pronti a donar la propria vita per la filosofia”: è certo questo uno degli insegnamenti più preziosi che ho potuto accogliere in me in questi pochi anni di studi filosofici, e sbaglia chi vede dietro questa piccola lezione di metodo e di virtù scenari di privazione, isolamento e mortificazioni. Sto imparando col tempo che l’essere disposti a dar tutto di sè per la filosofia, ovvero far fenomenologia, è forse proprio il contrario del “rinuncia a vivere per esser filosofo”. Più adeguato mi pare è pensarlo in questi termini: sii pronto ad accogliere pienamente le esigenze che la realtà pone, anche quanto sono troppe, anche quando è chiaro che un paio d’occhi, due gambe, insomma le possibilità che questa vita ti dona, non saranno affatto in grado di dir tutto, percorrere tutto, di abbracciare tutto. La fenomenologia credo inizi con questa scommessa: provare a restare aderente ai fenomeni e alla loro ricchezza. E cercando di applicare questa massima vorrei raccontarvi una piccola storia.

C’era e c’è ancora uno studente di filosofia che con la filosofia, con molta della filosofia, forse c’entra poco. I suoi studi liceali lo hanno addestrato a guardare le cose, a studiare forme, colori e a cercare di farli crescere in sè per poi provare a farne venire alla luce di nuovi. Aveva coltivato per anni una certa, presunta, sensibilità per i corpi, gli sguardi, le forme dell’umano, la bellezza del darsi delle persone. Alla fine del liceo un bivio: artigiano del superfluo-più-necessario o quella cosa affascinante ma comunque sempre sfuggente che troviamo sotto il nome di “filosofia”? Grandi oscillazioni e ripensamenti e alla fine decide di provare a transitare per questa strada ancora quasi del tutto ignota che è quella del lavorare col pensiero.

Cambiano le facce, i luoghi, i ritmi. Nuove lezioni, nuove parole: l’apprendista filosofo conosce i tanti modi di poter essere quel che dovrebbe diventare. Teorie, pensieri, intrecci semantici e rivendicazioni ontologiche. Per lui la gran parte di queste cose non hanno suono, sono occasioni mancate, direzioni sbagliate. Però un punto di discontinuità appare subito vivo sotto i suoi occhi: l’esercizio paziente del guardare “alle cose stesse”. Non una scelta, è ricongiungimento. Come se quelle parole già da sempre fossero sue, come se attraverso la bocca della Professoressa venissero alla luce i suoi stessi pensieri, più belli e rigorosi di quel che potrebbe far lui, pensatore alle primissime armi. Però le lezioni sono tante e diverse e a poco a poco un dubbio si fa strada: “forse non questo devo diventare”. La distanza dalle cose che abitano il cuore, dai valori, dal sentire non è condizione facilmente sostenibile. Perde di vista se stesso, un calo d’identità, uno smorzamento della sua luce personale. Così pensa che non sia possibile probabilmente dirsi aspiranti filosofi se la maggior parte delle lezioni di filosofia quasi ti offende, certamente ti infastidisce, soprattutto quando alla mancata presa sulle cose che più contano si associano i toni profetici o quelli tra il cinico e il sarcastico, l’ambizione immotivata o lo svilimento della nostra piccola visione delle cose.

Cambia rotta di nuovo: torna sui suoi passi. Prova a riprendere la via del fare arte: “Così sentirò di più, così sentirò meglio”. Ma è il caos: nessun rigore, scarsa consapevolezza intorno a lui. A volte le forme sono belle, qualcuno crea visioni che un poco il fiato lo fanno restar sospeso: ma i pensieri perlopiù sono piccini. Si sente ancora una volta fuori posto il nostro fenomenologo errante. Si chiede un po’ di tempo. Poi inaspettatamente, quando aveva pensato ad ipotetici compromessi tra vita e pensiero, si trova ad una lezione. Si parla di Husserl. È gioia. Ricorda ancora quel momento: vorrebbe alzarsi e dirlo a tutti: “Io sono questa cosa qui! Lo so che vi sembra una cosa come le altre, un argomento come gli altri, ma per me no… è quello che voglio essere”.

Allora con quel poco di forza che gli è rimasta dopo tutti questi spostamenti prova ad esser fedele a se stesso e ribussa alle porte della filosofia. Capisce che quello che è chiamato a fare forse è coltivare il suo senso per i fenomeni nel rispetto per le vocazioni diverse, imparare a studiare anche pensieri di chi, teoreticamente ma prima ancora assiologicamente, sta totalmente altrove. Passano i mesi ed è sorpreso dall’equilibrio che giorno dopo giorno vede nascere nelle sue giornate. Il fastidio per molti autori ancora resta, ma tuttora questo studente di fenomenologia cerca il compromesso tra le parole alle quali vuole ricongiungersi e l’impegno ad affrontare sguardi diversi, perchè questo è forse il volto che deve, almeno per ora, avere per lui il ricercare in filosofia.

3 commenti a Note dell’aspirante fenomenologo che s’è perso e ritrovato

  1. venerdì, 18 Dicembre, 2009 at 19:37

    Caro Jonathan,
    conosco il tuo stato d’animo pienamente boccioniano e la crisi vocazionale al bivio tra il pensare ed il creare: non so se è un bene decidersi per l’uno o per l’altro quando si è grado di comprendere bellezza e profondità d’entrambi e si dispone della naturale fortuna per appassionarsi (ed indignarsi) per l’uno e per l’altro. Decidersi non è più possibile, si rimane incompleti e al contempo più duttili e nell’uno e nell’altro campo. creare con completa dedizione e noncurante incoscienza non è più possibile, si cerca la difficile strada dell’arte cosciente e minuziosa che pochi maestri rinascimentali e del bauhaus hanno intrapreso oppure ci si dedica a quella forma di filosofia che ha bisogno di umili artigiani del pensiero, addestrati “a guardare le cose, a studiare forme, colori e a cercare di farli crescere in sè per poi provare a farne venire alla luce di nuovi” coltivati ad una “sensibilità per i corpi, gli sguardi, le forme dell’umano, la bellezza del darsi delle persone” e del mondo intero. Forse questi atteggiamenti, vie e deviazioni, come nella fantastica immagine di Paul Klee “Hauptweg und Nebenwege” conducono lo sguardo verdo la medesima trascendenza, forse lì si baciano il pensiero creativo ed il creare pensante, forse…

    per ora lasciami salutare la tua trovata serenità!

  2. Sofia Bianchi
    lunedì, 21 Dicembre, 2009 at 22:14

    Ciao Jonathan.

    Anch’io ti capisco e forse nelle righe che seguono non riuscirò a rendere completamente l’idea di quanto ti capisco.
    “Occorre esser disposti a dar la propria vita per la filosofia”.
    Già, ma quale filosofia?
    Questo semestre, nonstante abbia seguito dei corsi molto interessanti, i momenti in cui ho potuto alzarmi e dire ” io sono questo” sono stati troppo pochi.
    Troppo spesso mi ritrovo a far filosofia, ma una filosofia sterile, muta, a volte violenta. Che prende ciò che ci circonda e lo accantona, lo trascura.
    E allora mi chiedo: se questa la chiamiamo filosofia, allora io non sono disposta a darle nulla, figuriamoci la vita.
    Sono quei casi in cui la filosofia ti provoca, ti fa arrabbiare, quasi ti fa rimpianger d’averle dedicato del tempo; ti offende!
    E poi ci sono quelle rare volte in cui ti senti chiamata in causa, e alzi la mano a lezione e dici: “è così che dovrebbe essere!”.
    Sono quelle volte in cui gli sguardi, le forme dell’umano, la bellezza del darsi delle persone ti incantano, ti prendono, richiedono la tua attenzione, esigono la tua competenza. e queste sono quelle volte in cui penso di non poter scegliere altro per diventare quello che voglio.
    Questi sono i momenti in cui credo che sia necessario dare al mondo che ci sta attorno e all’umano che ci vive a fianco una risposta adeguata. E come farlo? Come farsi trovare pronti a questa domanda?
    Per ora, ma sono ancora solo all’inzio, non ho trovato un modo migliore che posare lo sguardo in modo umile e delicato sulle cose e usare il linguaggio in modo serio e rispettoso, in modo che la mia descrizione del mondo non sia mistificazione e la mia relazione con l’umano non sia violenza.

    Grazie per la tua storia, a fine semestre ci voleva!
    In bocca al lupo per la tesi

  3. Bob Formenti
    mercoledì, 30 Dicembre, 2009 at 21:01

    Gentile Jonathan,

    confesso che anche io ho vissuto la tua stessa esperienza: fare o pensare? In principio ho scelto la strada del pensare, la filosofia. Poi mi sono ritrovato dall’oggi al domani a dover gestire grandi quantità di denaro inaspettate e ho capito che il pensare non mi bastava più, quei soldi dovevo investirli, dovevo farne qualcosa. Tu, credo, non hai grandi capitali da gestire ma tra l'”artigianato del superfluo-più-necessario” e “quella cosa affascinante ma comunque sempre sfuggente che troviamo sotto il nome di filosofia” si apre la strada dell’artigianato del concreto. Che ne pensi?
    Spero di esserti stato di aiuto,

    Con affetto,
    Bob

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