Riforma Gelmini in panne: molto rumore per nulla? (di Carlo Serra)

giovedì, 14 Ottobre, 2010
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’articolo Riforma Gelmini in panne: molto rumore per nulla? di Carlo Serra, Ricercatore del Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria.

Come molti, ieri ho appreso da Repubblica che la riforma Gelmini sarebbe a rischio per mancanza di fondi (Università, duello sui fondi. La riforma Gelmini è a rischio). Purtroppo non si tratta semplicemente di molto rumore per nulla: i problemi strutturali rimangono, e rimangono anche visibili lacerazioni all’interno del corpus universitario, con modelli che evidentemente vanno riplasmati, se vogliamo evitare una direzione centrifuga piuttosto pericolosa. Il rinvio indica semplicemente che l’Università non è riconosciuta come una priorità da parte della classe politica, che evita problema e lacerazione. Un risultato che lascia perplessi.

La perplessità nasce dal vedere che da un lato si riforma senza aver fatto un accurato piano economico (questo credo che possiamo dirlo, perchè è nelle cose), dall’altro non vi è la minima attenzione alle condizioni strutturali della scuola e dell’università, da parte di chi riforma. La gente ha idee confuse sull’argomento, ma da quello che leggiamo nella legge il famoso discorso sul merito rimane ancora opaco, come sono opachi i criteri di valutazione del lavoro universitario, un tema, questo, che va oltre questa riforma, e che partecipa di un’assenza di indicatori che è preoccupante.

Purtroppo in Italia chi lavora nel pubblico vede spesso questo tipo di situazioni, e alle volte avverte che i rappresentanti di categoria rivendicano molti diritti, senza avere un quadro preciso delle situazioni. Un ricercatore guadagna poco, e spesso, non sempre purtroppo, si demotiva, o perde energia per cercare sponde private che sono intermittenti (penso ai colleghi che lavorano nelle facoltà scientifiche). Questo quadro implica che sia sensato cercare un dialogo con il privato e che questo strumento debba modularsi in un quadro di legge nitido, per evitare di ridurre l’Università allo statuto di molte fondazioni, che precipitano nel limbo. Il quadro offerto dalla Riforma è molto vago perché, come spesso accade, essa fotografa una situazione, ma non pone dei correttivi.

Le conseguenze sono purtroppo sotto gli occhi di tutti, e mostrano una stato che trascura l’istruzione, a partire dalle scuole elementari. Anche qui ci sono cose da dire, e non tutte belle per noi docenti. I nostri studenti spesso arrivano nel canale universitario senza saper nuotare: voglio dire che il livello delle superiori non è adeguato, che i voti di diploma spesso sono tarati verso l’alto in modo avventuroso, e che, almeno lì, delle disfunzioni sul corpo docente, e amministrativo, sono intuibili.

La RIFORMA doveva andare anche in quella direzione, ma le forme di razionalizzazione proposte non sembrano efficaci. I docenti della scuola sono pagato poco in Italia, e, almeno nominalmente, lavorano molto. Il tema universitario è ancora più complesso, e chiederebbe strumenti raffinati, visto che il diritto all’istruzione è un diritto di tutti (è per questo motivo che non vedo nello sciopero una risposta, ma solo un’arma di lotta che ci porta al limite della crisi di identità, facendoci trascurare un dovere che è etico, e che condividiamo con altre categorie di statali). Per questo non ho aderito agli scioperi o alla sospensione delle lezioni, anche se mi stupisce la celerità della commissione di garanzia, nel chiedere i nomi dei ricercatori ai Rettori, che sembra abbiano risposto, correttamente, picche.

Per questo senso perplessità, e, non lo nascondo, un poca di inquietudine, perché la posta in gioco sembra aver disunito un corpo docente e amministrativo, che dovrebbe muoversi in responsabile armonia. L’isterismo di alcune rivendicazioni della mia categoria (Ricercatori) mi ha un po’ ferito, ma mi ferisce anche vedere risposte troppo tiepide in molte Università, una sorta di filtro che vorrebbe attenuare il disagio interno. Questo segnale è un segnale di debolezza, non più legato a un fatto culturale, ma a una prassi politica. Questo aspetto un poco mi addolora, perché l’Università è giustamente una struttura extraterritoriale, e questa sua caratteristica essenziale, dovrebbe permettere un dialogo sereno e, per quel che si può, oggettivo. Non vedo il privato come il diavolo, tutt’altro, ma so anche che alcuni poli d’eccellenza privati, in Italia sono ormai nelle mani delle banche, e questo non è un buon precedente. Aggiungo che amo la Bocconi visceralmente, è un esempio gestionale notevole, ma che non so come potremmo valutare un sistema impact factor serio in termini filosofici. Faccio un esempio: il dibattito analitico si è spesso ridotto ad una discussione interna, in cui vige la regola CITA E LASCIA VIVERE. Per le nostre materie questo sistema sarebbe fallimentare, e vi è la necessità di strumenti metodologici più acuminati.

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