In questi mesi, spesso si è sentito parlare di medici imprudenti o incapaci, di cure o operazioni azzardate e in alcuni casi dannose, o ancora, per tornare a qualche tempo prima, vivo è stato il dibattito sull’eticità di alcune pratiche (ad es. mantenere in vita un essere umano in stato vegetativo o lasciarlo morire) che hanno mobilitato e stanno ancora mobilitando giornali, opinione pubblica ecc.
Con questo articolo vorrei domandarmi e domandare a chiunque voglia raccogliere il mio invito: in che cosa consiste l’eticità di una terapia? Forse che una cura è etica se e solo quando funziona?
Non credo; ma è quest’ultima un’ alternativa che dev’essere con cautela analizzata. Certo, qualora una cura funzionasse e rimettesse in sesto il paziente, molti non esiterebbero a definirla in men che non si dica etica; il criterio, però, pare non funzionare se lo applichiamo ad uno spettro di casi atipici (che comunque possono con buona frequenza aver luogo).
Poniamo che un soggetto abbia un disturbo ad un arto e che il medico curante attribuisca (erratamente) la malattia ad una disfunzione di tutt’altro tipo (che so io, cerebrale o di altro genere). Bene, la cura che il dottore somministra ha un effetto collaterale che dà beneficio al disturbo iniziale (ma è solo un coincidenza, del tutto fortuita). Tale cura va dunque a buon fine; è forse una cura che definiremmo etica? È una cura di una qualche rilevanza morale? Il medico curante ha forse agito con un’etica conforme al suo dovere/lavoro? Credo di no.
Veniamo alle questioni più scottanti. Se un paziente decede, la terapia che anche lo abbia condotto a quell’esito è per ciò stesso moralmente scorretta? Se un passaggio di un’operazione chirurgica fa precipitare la situazione in un “vicolo cieco” è necessariamente una scelta immorale quella che ha determinato tale passaggio? Queste sono le domande che mi sento di proporre e alle quali voglio dare una mia personale risposta.
Ritengo che, se da un lato il medico debba pre-vedere e responsabilmente farsi carico delle sue scelte professionali, dall’altro non dipende esclusivamente da lui l’esito di una terapia, non dipende esclusivamente da ciò ch’egli decide che il paziente (in certi casi ovviamente) si salvi o meno. Per essere etica, una cura deve essere 1) massimamente previdente nei confronti dei possibili sviluppi futuri; 2) massimamente attenta al profilo del paziente e alla sua volontà; 3) massimamente attenta a conservare l’umanità del soggetto (e a conservare l’identità di questo “soggetto”): non basta una cura che funzioni!
Mi pare che qui si mescolino istanze diverse.
La natura etica di una cura e la sua efficacia sono nozioni nient’affatto sovrapponibili ed in effetti neppure sovrapposte nel dibattito sui problemi etici in medicina. L’efficacia di una cura ha un aspetto etico soltanto in quanto l’efficacia del curare la malattia in generale (a prescindere dalla singola istanza) ha un aspetto etico: se la malattia è male, curare la malattia è (coeteris paribus) bene. In questo senso una cura attraverso un placebo è altrettanto buona di una scientificamente consolidata e somministrata in scienza e coscienza.
Il problema etico sollevato da cure sciatte o dolose è determinato non dalla mancata efficacia della cura in sé, ma dal non essere dispiegata all’altezza degli standard condivisi: un errore è un errore (in medicina come altrove) solo quando se ne ha contezza e si ha il potere operativo di evitarlo.
Un’altra questione ancora è quella della ‘sorte morale’ di un atto medico, tale per cui un atto sciatto o doloso non viene alla luce e non produce discussione in quanto le sue conseguenze ultime non sono risultate essere gravi: qui il problema degli effetti, più o meno accidentali, è rilevante, ma non per giudicare della natura etica dell’atto (che rimane condannabile, nel caso di una cura subottimale), bensì per le conseguenze legali per il medico negligente.
I problemi legati al rispetto della volontà del paziente e alla preservazione della sua identità sono invece aspetti eticamente rilevanti, ma non c’entrano molto con la questione dell’efficacia della cura: le ragioni per cui, per dire, si continui nell’idratazione di un paziente in stato vegetativo che abbia manifestato la volontà di non essere mantenuto in vita in tali condizioni, queste ragioni non hanno nulla a che fare con una presunta idealità etica della cura ‘efficace’. Tant’è vero che in tutti i casi che non implichino fine vita, il paziente può sottrarsi liberamente alle cure. Il punto qui è legato integralmente alla questione se la vita (la propria vita in particolare) sia o non sia ‘a disposizione’ dell’uomo (tra cui me stesso).
Su questo punto i problemi nascono solo ed esclusivamente quando si scontrano istanze laiche con istanze dottrinali peculiari di una delle ‘religioni del Libro’ (o delle sue derivazioni minori).
Prof. Zhok, vorrei ancora una volta ringraziarLa per la sua disponibilità e correttezza. Dal momento che la discussione è cominciata, vorrei portarla avanti contestualizzando innanzitutto il mio intervento. In famiglia, ho a che fare quotidianamente con problemi simili e la scrittura di tale articolo nasce da un’esigenza di mettere ordine e concettualizzare il mio “sentire” quotidiano, piuttosto che da un approfondimento e relativa presa di posizione rispetto al dibattito odierno su tali temi. Certamente, il discutere con un esperto di tematiche morali come Lei è per me un momento fondamentale di apprendimento e crescita culturale.
Detto ciò, mi consenta di mettere in luce alcune mie idee in merito a ciò che Lei ha risposto (e, se vorrà, sarò ben lieto di ricevere altri chiarimenti o “bacchettate”).
Parlerei, prima che d’altro, della seguente espressione: “un errore è un errore solo quando se ne ha contezza e si ha il potere operativo di evitarlo”: è un’affermazione su cui varrebbe a mio parere la pena di soffermarsi.
Quando il medico di famiglia ha di fronte un paziente con una problematica particolarmente complessa da individuare (perchè i sintomi sono molto generici, perchè potrebbero appartenere a vari tipi di patologie,…) è di fronte a due possibilità che non costituiscono SOLO un errore, ma a mio modo di vedere, anche una responsabilità morale. C’è il medico che, avendo in sala d’attesa 40 persone, velocemente tenta una diagnosi (non per forza errata); e c’è il medico che, ritenendo il suo lavoro qualcosa di simile ad una “missione” (così direbbe un prete, ma non direbbe cosa avulsa dalla realtà) si fa carico anche personalmente della vita e quindi del problema di quell’altro che ha davanti. Ciò che accade è a tutti gli effetti un “prendersi totalmente cura” (a sua volta il paziente si affida a tale cura). La scelta (non sempre volontaria, certo) tra questi due modi di essere medico è una scelta che ha qualcosa dell’etico. Quello che con ciò vorrei dire è che il “potere operativo” non è un qualcosa che è sempre lì a portata di mano di OGNI medico e che, se non raggiunto, costituisce un errore SOLO clinico; ma (sempre parzialmente) frutto (anche) di una scelta, di un modo di essere (e, ripeto, non è solo una questione professionale).
Un secondo punto che vorrei mettere in luce riguarda la preservazione dell’identità del paziente in relazione all’efficacia della cura. Lei ha ragione nel dire che la questione più strettamente etica del “possesso della vita” c’entra poco con l’efficacia di una cura. Ciò che vorrei indicare è che c’è anche un altro aspetto, forse meno all’ordine del giorno, della questione.
Poniamo per un attimo mente ad uno psicotico. E’ ovviamente un soggetto pericoloso e con cui non è semplice (clinicamente E umanamente) aver a che fare. Ci possono essere tipi di cure TUTTE ugualmente EFFICACI, ma che non vorrei pensare tutte come ugualmente etiche. Rinchiuderlo in manicomio e/o imbottirlo di psicofarmaci può essere una buona soluzione; ma è altrettanto buona la soluzione di curarlo con farmaci e psicofarmaci meno stordienti e
proporre periodi di riabilitazione guidata al fine di reimmetterlo in società. Quale strada (delle molte) scegliere? La scelta è indubbiamente e primariamente clinica, ma anche un po’ etica.
Spero di non essere stato troppo fuorviato da un certo spirito filantropico o ingenuo; confido in suoi ulteriori chiarimenti.
Se posso contribuire con alcune mie riflessioni… da non prendersi ovviamente come oro colato.
L’efficacia della cura dipende da un lato dalle conoscenze scientifiche e all’altro dal seguire dei rigidi protocolli terapeutici, stabiliti da una precisa metodologia scientifica.
Quando una cura non risulta efficace, possono esserci alla base diversi fattori:
1) dosaggio insufficiente
2) tipo di risposta individuale del paziente
3) diagnosi errata, imprecisa o parziale
4) carenza di conoscenze (per esempio, alcune malattie come il parkinson)
5) responsabilità del medico
Forse il punto 5 è quello che interessa l’etica individuale, mentre il punto 3, per esempio, può dipendere dal grado di adesione alla cosiddetta etica professionale (seguire in tutto o in parte taluni protocolli sperimentali in base all’esperienza piuttosto che in base allo scrupolo nel seguire taluni protocolli terapeutici).
Caro Claudio, La ringrazio di essere intervenuto nella discussione. In questa mia risposta vorrei semplicemente insistere su un punto; Lei parla giustamente dell’efficacia di una cura come dipendente da conoscenze scientifiche e (rigidi) protocolli terapeutici; posso essere d’accordo di certo e in ogni caso sul primo punto, non sempre e necessariamente sul secondo.
Ciò che cerco di sostenere è (forse) che i cosiddetti “protocolli terapeutici” hanno da misurarsi, per forza di cose, con lo “scoglio” della morale. È ovvio che, al momento della codificazione dei suddetti protocolli, sarebbe un errore scientifico volgere l’attenzione alla specificità e irregolarità (costitutivamente non codificabile) del lato etico della questione.
Tuttavia, mi sembra che nella concretezza, nell’effettività della pratica medica sia di buona importanza, accanto alla fermezza della terapia, la coscienza morale di identificare quel che si ha davanti come un “singolo” uomo (“quel singolo” uomo), irriducibilmente diverso dal caso invariante considerato (giustamente) nello stilare il “rigido protocollo”.
Credo che questo “volto morale” della cura incida un po’ anche sul lato più strettamente scientifico (e pur sempre principale) di essa.
È interessante l’accento sul “volto morale”, penso di essere in sintonia con questo accento, in fin dei conti, la medicina dovrebbe accantonare quella pratica clinica che tratta un paziente come mero oggetto e fare uno sforzo maggiore per introdurre nei propri protocolli (sin dalle basi dell’insegnamento universitario) la nozione di paziente inteso nel senso della totalità, ossia, un paziente non visto soltanto come mero oggetto ma da comprendere anche nei suoi aspetti psicologici, nel suo vissuto, persino nelle sue tavole valoriali, ma c’e’ un limite critico a ciò, se si pensa per esempio a quei pazienti come i testimoni di geova le cui tavole valoriali impediscono per esempio la trasfusione di sangue persino ai propri figli, ritengo che la pratica clinica non debba acconsentire in alcun modo a tale richiesta, ecco, questo è per esempio uno degli aspetti etici della professione clinica.
Penso del resto anche a quel genere di paziente che rifiuta in toto una cura per il terrore psicologico di convivervi con delle menomazioni che la terapia impone a salvaguardia della vita, ricordo per esempio il caso di una donna riportato dalla cronaca dei giornali che rifiutò l’amputazione di una gamba che andò in cancrena, con la conseguenza di subire anche il decesso.
Che ne pensa di questi casi al limite tra aspetto etico ed aspetto scientifico della cura e della terapia in senso lato?
Sinceramente ritengo che simili occasioni (peraltro non rare) siano profondamente complesse e non ascrivibili a ciò che ho nei miei interventi precedenti inteso come “eticità della cura”. Tenterò tuttavia, nel mio piccolo, di darLe una risposta.
Per quanto riguarda il primo da caso menzionato (testimoni di Geova…) bisogna far riferimento a limitazioni terapeutiche volontariamente messe in atto da coloro che si riconoscono in quel determinato gruppo o fede. Penso che bisogni vagliare sia l’importanza che in quella “tavola di valori” assume la pratica che la cura violerebbe sia la posta in gioco (se è in questione la vita di un’altra persona o se invece lo è la mancata risoluzione di un proprio raffreddore). Direi che, in alcuni casi, etica è proprio quella cura o quel curatore che sa violare e assumersi la responsabilità di violare impedimenti culturali (o “tribali”).
Il secondo caso riguarda, oltre che “sovrastrutture” di natura prettamente culturale, anche un accumulo di vissuti, che difficilmente mettono in condizione di vedere il pericolo che si ha davanti. A seconda dei casi, ciò che ritengo sensato è o tentare di far aprire gli occhi o, in caso ciò fosse impossibile, intervenire con sensatezza e giudizio, ma intervenire.