Fenomenologia e politica. Operare nel mondo senza divenire suoi prigionieri

domenica, 30 Gennaio, 2011
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Il recente pamphlet di Roberta De Monticelli, “La questione morale” (Raffaello Cortina Editore 2010), si presenta a prima vista come una lettura critica della realtà italiana, osservata con brillante acutezza a partire dai “Ricordi” del Guicciardini fino ai ritagli dei quotidiani dell’estate scorsa. Uno sguardo attento, però, coglie fin dalle prime pagine un obiettivo ben più ambizioso, “quello che molti ignorano essere stato il vero progetto di tutta la vita di Edmund Husserl: riuscire a confutare lo scetticismo pratico” (p. 136).

La “Premessa” enuncia il problema in questi termini: “Chiedersi se è possibile una rifondazione razionale del pensiero pratico equivale a chiedersi se c’è verità e falsità nel giudizio di valore. Se la conoscenza nelle questioni di valore è possibile. Se ci può essere ricerca e scoperta, crescita di conoscenza e capacità critica, per tutti. La questione morale è la questione del possibile rinnovamento dei nostri mores, delle nostre abitudini quotidiane. Ma è in profondità la questione di cosa questo rinnovamento significhi, di quali siano le condizioni alle quali esso è possibile. Il rinnovamento è possibile solo se (…) la nostra esperienza morale è fondamentalmente aperta al vero. Non c’è virtù senza conoscenza, e tutte le categorie della conoscenza – ricerca, scoperta, critica, evidenza, dubbio, e soprattutto verità (questa “idea disposta all’infinito”) – vanno ricollocate anche nel cuore della nostra esperienza morale. Questa è la tesi che attraversa l’intero saggio. Se i nostri argomenti sono convincenti, dovremo concluderne non solo che il rinnovamento è possibile, ma anzi che non c’è altra vita morale che nel perpetuo rinnovamento, vale a dire nella sempre rinnovata verifica che la persona è disposta a fare del giudizio di valore attraverso l’esperienza e la critica – come negli altri campi di ricerca della verità. (…) Il XX secolo ha visto la bancarotta della ragione pratica. (…) Nel pensiero filosofico europeo del Novecento è prevalso, prima e dopo le guerre, quello che possiamo chiamare un fondamentale scetticismo etico, e cioè la convinzione che non esista verità o falsità in materia di giudizio di valore, e non esista di conseguenza oggettività alcuna in materia di giudizio pratico, vale a dire del giudizio che risponde alla domanda “che fare?” (…) C’è o non c’è una ragione pratica? Qui lo scetticismo è maggioritario, e la risposta dominante è: no. (…) Fa una gran differenza, sulle nostre vite, che abbiano ragione gli scettici o che lo scetticismo pratico si possa, con ragione, respingere. Combattere lo scetticismo pratico è difendere la serietà della nostra esperienza morale. E’ difendere la tesi che (…) la nostra esperienza anche in campo morale è fallibile, sì, ma proprio perché è aperta al vero. (…) Nulla appare invano – anche quando ad apparire è un torto, una viltà, un’ingiustizia, un gesto servile – se ciò che appare resiste al vaglio critico, si mostra essere quello che appariva. (…) Chiedersi se ci sia, se possa esserci una fondazione razionale del pensiero pratico non significa dunque affatto abbracciare un “razionalismo” o un intellettualismo che ignori le passioni di cui è fatta la nostra esperienza morale e civile: al contrario, è cercare il contenuto di verità e falsità di queste passioni – è prendere sul serio quell’esperienza, come via di conoscenza” (pp. 14-21).

Il capitolo “Lo scetticismo etico” evidenzia efficacemente i tratti comuni a relativismo e fondamentalismo: “L’idea che la realtà in sé è priva di valori, che i valori li proiettiamo noi nelle cose, è diventata una specie di ovvietà: ma è una falsa ovvietà. È una tesi filosofica come un’altra – e a mio parere, una tesi erronea. (…) La dottrina della Verità che Dio vuole e la Chiesa visibile rappresenta, e quella delle “molte verità” relative condividono l’identica erronea premessa: che in materia di valore non ci sia un modo in cui le cose stanno, indipendentemente da quello che noi crediamo o sappiamo. Che dunque non possano esserci verità che nessuno (ancora) riconosce. Che il vero e il certo coincidano. Che in questa materia sia solo questione di fede. Che poi si ragioni come un papa, per il quale la fede è una e dunque una la verità, o come chi ammette un “politeismo dei valori”, necessariamente in conflitto nelle moderne società, si esclude in entrambi i casi il terzo termine della conoscenza: che ci siano ragioni accessibili a chiunque, indipendentemente dalla sua fede, per riconoscere una tesi come vera. Il relativista attaccherà l’idea stessa che ci sia “una” verità (violenza!), e il fondamentalista negherà l’uguale competenza morale del non credente. Entrambi risponderanno con un no deciso alla questione fondamentale dell’etica del nostro tempo: è possibile una fondazione razionale del pensiero pratico nell’epoca della pluralità degli ordini valoriali, quindi delle identità morali e ideali delle persone e delle comunità? E’ possibile una ragione pratica in un mondo plurale?” (pp. 113-120).

Una risposta affermativa richiede preliminarmente una chiara distinzione fra individuale e “particulare” di guicciardiniana memoria, a cui è dedicato il capitolo “Male nostrum”: “Se intendiamo per “etica” la disciplina che stabilisce ciò che è dovuto da ciascuno a tutti, il “particulare” si oppone all’universalità dell’etica. E questo sembra abbastanza ovvio. Ma con l’individuale, come stanno le cose? Anche l’individuo si oppone all’universale? C’è una risposta che dovrebbe apparire altrettanto evidente, perché è iscritta nel concetto stesso di autonomia morale, che risale precisamente all’età della ragione in Europa: ma che in Italia non è mai riuscita veramente a diventare senso comune. La risposta che dovrebbe sembrare ovvia è: no. Se per “individuo” intendiamo la persona moralmente autonoma, questa individualità non si oppone, ma al contrario risponde all’universalità di certe obbligazioni. (…) Invece il “particulare” – la diffusa volontà di partecipare al privilegio, all’eccezione, al favoritismo – si oppone precisamente all’approfondimento della propria responsabilità individuale nei confronti di tutti. L’uomo del particulare sembra destinato alla minorità morale e civile. (…) L’espressione “minorità” morale e civile dice proprio questo: un “minore” è uno che non è ancora emerso dalla comunità vitale d’appartenenza, che non si è ancora individuato rispetto a essa, e quindi non è ancora capace di portare personalmente responsabilità di quello che crede e quello che fa. (…) La strana contrapposizione fra individuo e persona, che è un’eredità del cosiddetto personalismo cattolico, è oggi uno dei segni più inquietanti di continuità del cattolicesimo preconciliare e di quello contemporaneo, perfino quello progressista, che sembra troppo spesso restare impermeabile precisamente alla differenza fra l’interesse particolare e l’autonomia individuale. (…) Ci si potrebbe chiedere come sia potuto avvenire che proprio in seno alla chiesa cristiana “universale”, alla Chiesa cattolica, una tale diffidenza nei confronti dell’individualità, che in fondo è la sola sede possibile dell’anima, abbia potuto prendere piede. (…) Che cosa possiamo cristianamente intendere per “anima”, col suo destino (come direbbe Vito Mancuso), se non questa “ecceità”, questa irriducibile individuazione di ogni gesto, espressione, atto o parola di un essere umano, inconfondibili e riconoscibili fra mille come suoi, al punto che ci paiono “senz’anima” le espressioni stereotipe, i gesti di conformismo, le azioni di routine?” (pp. 54-72).

La soluzione proposta nel capitolo “Tornare a respirare” si fonda sui concetti scheleriani di ethos individuale e di “ordo amoris”: “Diremo che ciò che caratterizza essenzialmente un ethos è un determinato ordine di priorità valoriali che struttura il sentire, e quindi le decisioni e le scelte, dell’individuo maturo, e che, una volta riconosciuto e assunto, determina non solo gli aspetti di valore delle cose cui una persona è sensibile, ma anche in qualche modo il “compito”, il dovere personale di quell’individuo, la sua “vocazione” o “destinazione”, per così dire: insomma il bene che lui, e solo lui, può portare al mondo. (…) Ed ecco la buona ragione per apprezzare la pluralità degli ordini di priorità valoriale. La diversità intrinseca delle personalità è un valore positivo, perché ciascuna personalità porta con sé una possibilità di esperire e realizzare nel mondo beni che non sarebbero altrimenti esperiti o realizzati. È il valore dei talenti o delle vocazioni, fondati nell’inesauribilità degli aspetti di valore della realtà, che hanno bisogno di ciascuna vita e di tutta la storia per essere realizzati. (…) Non c’è possibile conflitto di valore dove gli ordini di priorità personali non supportino né contraddicano norme universalmente obbliganti. Viceversa, c’è un risvolto propriamente etico della diversità delle vocazioni assiologiche, quello per cui è in assoluto (e per tutti) un bene che ciascuno realizzi il massimo di valore conforme al proprio ordine di priorità, purché compatibile con il dovere di tutti. (…) A fronte dei casi di conflitto, le soluzioni standard sono oggi due: quella, dominante nelle cerchie progressiste, di un pluralismo che accetta il relativismo (assiologico, e in particolare etico) e quella di un antirelativismo che rifiuta il pluralismo. (…) Come uscire dall’impasse? Il primo passo consiste nel distinguere con grande chiarezza fra ethos ed etica, dove per ethos intendiamo l’ordinamento valoriale costitutivo di un’identità personale e morale (individuale o condivisa, culturale o anche religiosa); e per etica intendiamo la disciplina del dovuto da ciascuno a tutti. Senza questa distinzione non è possibile sfuggire all’uno o all’altro corno dell’alternativa fra fondamentalismo e scetticismo. Il secondo passo consiste nell’esplicitare il rapporto fra ethos e etica. L’etica, evidentemente, deve giocare il ruolo di limite e di vincolo rispetto agli ethe, se vogliamo bloccare l’implicazione dal pluralismo al relativismo. Perché non si dia relativismo, occorre appunto che sia negato l’anything goes, la convinzione che tutto è permesso (purché sia sostenuto da una forza sufficiente). E come? Non ogni ethos evidentemente può andare, ma solo quelli compatibili con l’etica. (…) Enunciamo la formula dell’etica: quello che è dovuto da ciascuno a tutti è lo stesso diritto a vivere e fiorire secondo il proprio ethos, che si chiede per sé. Ogni ethos che viola questo dovuto è a priori incompatibile con l’etica” (pp. 143-153).

Il testo stesso suggerisce diversi spunti che richiederebbero ulteriore riflessione: “ci manca, per quanto sorprendente questo sia, una teoria della ragione” adeguata alla formula husserliana “civiltà fondata in ragione” (p. 96), “andrebbe oggi approfondito il concetto liberale di società aperta” nel senso di “aperta al rinnovamento morale costante” (p. 162). In questa sede, invece, vorrei sollevare un’altra questione: accanto a un’etica fenomenologica, come magistralmente tratteggiata ne “La questione morale”, c’è spazio anche per una politica fenomenologica? In altre parole, mi chiedo se una dottrina politica può risultare conforme ai principi della fenomenologia, come ad esempio sono riassunti in un altro libro prezioso della stessa Roberta De Monticelli (“Ontologia del nuovo”, in collaborazione con Carlo Conni, Bruno Mondadori 2008, pp. 126-129).

Per non ragionare in astratto, converrà innanzi tutto esaminare un paio di esempi tratti dalla scena politica italiana, in particolare trentina. Michele Nicoletti, nella sua veste di segretario provinciale del Partito Democratico, ha recentemente argomentato (“L’Adige”, 8 novembre 2010): “I democratici stanno (…) da duecento anni dalla stessa parte, dai tempi delle rivoluzioni americana e francese che hanno posto al centro della politica non i privilegi di qualcuno, ma i diritti di tutti. E’ questo che ha consentito a milioni di democratici italiani di ritrovare la loro unità originaria, quell’unità che nell’Ottocento e nel Novecento era stata perduta allorché si erano divisi in correnti diverse (cattolici democratici, liberaldemocratici, socialisti democratici e così via). E dal punto di vista della storia delle idee – che nella storia dei partiti è determinante – è un incredibile risultato che le forze democratiche italiane abbiano voluto riconoscere il loro valore fondante e unificante nella “democrazia”, concepita finalmente non come uno strumento per realizzare qualche altro modello di società (il socialismo o una nuova cristianità) ma come “il” modo in cui uomini e donne, che si vogliono liberi e si riconoscono pari diritti, determinano assieme il loro destino.” Ora, se davvero la cifra della fenomenologia è la passione per le differenze, è facile riconoscere che l’argomentazione di Michele Nicoletti non si inquadra in una prospettiva fenomenologica. Sentirsi “cattolici democratici, liberaldemocratici, socialisti democratici”, impegnarsi per costruire “il socialismo o una nuova cristianità” a me pare essenzialmente diverso: a meno che, sulla scia della postuma lezione heideggeriana, non crediamo anche noi che “ormai solo un dio ci può salvare” e non riconosciamo nel massimo comune divisore della democrazia l’ultimo brandello di verità politica che siamo ancora disposti a difendere. Un simile “pensiero debole”, dove all’estremo baluardo della democrazia si affianca quello dell’ambiente, ispira anche la politica dei Verdi. Si rilegga questo emblematico passaggio di Marco Boato (estratto dall’intervento al convegno “Conservare l’ambiente, cambiare la politica”, Trento 1982): “anche in Italia ha cominciato a formarsi una vera e propria questione verde (…) Non è un caso che i nuovi soggetti e movimenti sociali che su questo terreno hanno cominciato a formarsi (sia pure spesso in forma ancora magmatica e dispersa, al punto che ha avuto un grande successo l’immagine dell'”arcipelago verde”) abbiano assunto caratteristiche del tutto diverse, e spesso antitetiche, rispetto a quelle dei grandi movimenti di massa “totalizzanti”: a-ideologici (ma non senza valori), a-partitici (ma non contro la politica), extra-istituzionali (ma non anti-istituzionali), inter-classisti (perché trasversali rispetto alle tradizionali divisioni di classe), parziali (perché legati a specifici obiettivi, e non a una “Weltanschauung”), “carsici” (perché legati alla specificità concreta e non a tensioni “escatologiche”).” Se dunque la fenomenologia esprime un desiderio di operare nel mondo che abbia un significato di verità, anche il punto di vista di Marco Boato appare distante.

Dove cercare allora un approccio fenomenologico alla politica? Da parte mia rimanderei il lettore incuriosito alle pagine illuminanti dedicate al socialismo da Jeanne Hersch nel bellissimo libro-intervista dal titolo folgorante “Rischiarare l’oscuro”, tradotto da Laura Boella e Francesca De Vecchi per i tipi di Baldini Castoldi Dalai nel 2006. La filosofa Jeanne Hersch, formatasi alla scuola di Karl Jaspers, non è ascrivibile formalmente al movimento fenomenologico, ma si rivela qui e altrove (ad esempio nel romanzo giovanile “Primo amore (Temps alternés)”, la cui traduzione è disponibile presso la stessa casa editrice) “naturaliter” fenomenologa. Riflessione teoretica e attività politica risultano limpidamente integrate nella sua vita (“L’appartenenza al partito socialista, credo, si accorda perfettamente con quello che le ho detto sull’unità dell’anima e del corpo”) e sostenute da una lucida consapevolezza (“Perché non sono entrata prima nel partito socialista? Innanzitutto perché mi sentivo troppo poco politica, e perché mi sono sentita tutta la vita, malgrado le apparenze, troppo poco politica. Non ho “il pallino della politica”. Sono per natura individualista, per natura solitaria nel mio pensiero, e fare politica non è affatto una tentazione per me. Al contrario, è un dovere”). Una declinazione fenomenologica di questa ogni giorno più urgente necessità di rinnovamento morale e politico si ritrova nelle parole ispirate di Enzo Paci (dal “Diario fenomenologico”, Bompiani 1973, p. 33): “La gloria non ha senso, la potenza non ha senso, il tuo successo personale non ha senso. Vanità. Quella vanità che Husserl ha sempre combattuto. Ed era sincero. Amava davvero la verità e viveva per la verità. La gloria è il mondano e il senso della vita si rivela solo nella negazione del mondano, in un operare nel mondo che non è prigioniero del mondo. Credo fermamente a questo. Non è rinunzia a operare nel mondo, a vivere nel mondo: è desiderio di un operare che abbia un significato di verità. Bisogna essere capaci di questo, bisogna voler vivere così, bisogna tentare di vivere così.”

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6 commenti a Fenomenologia e politica. Operare nel mondo senza divenire suoi prigionieri

  1. Claudio
    mercoledì, 2 Febbraio, 2011 at 09:37

    Dal mio punto di vista, il criterio della razionalità in un contesto etico può essere associato ad un qualche valore di verità e tale valore possiamo trovarlo nelle relazioni umane; ossia, l’etica è tale quando aderisce al tipo di relazioni umane, se le relazioni umane intese nel senso di componente organizzativa sociale tendono a cambiare, mutano anche i valori etici; dunque, eccolo lì il valore di verità. Solo che occorre trovare una misura razionale di questi mutamenti; per esempio, se ad un certo punto le relazioni umane tendessero all’oppressione, alla costrizione, al predominio di interessi individuali (come da anni avviene sul fronte politico con il berlusconismo e sulla scelta elettorale di tale modello politico da parte della massa), può esso dirsi razionale, benchà fondato sulla comunità umana? Direi di no, poichè costituisce una sorta di negazione, nichilismo, forte opposizione al mondo, sclerotizzazione ed assolutizzazione dello schema individuale determinando con ciò conseguenze negtive, rispetto a un modello relazionale basato su tolleranza, apertura, scambio, tutela non solo della dignità individuale ma anche di quella sociale, un’orizzonte dinamico e non assolutistico. Dal mio punto di vista, penso di aderire a un tipo di etica, di natura laico-liberale, che considero migliore e più razionale di quella di natura individualista e nichilista. Se si basasse il valore di verità dell’etica sulla comunità sociale, umana, invece che su di una sola autorità rappresentata da uno o da pochi, eviteremmo di assolutizzare tale etica sia in senso fideistico-religioso che in senso etico (il relativismo etico dei berluscones che ho incontrato nella vita reale per i quali tutto vale tutto, tutto è opinione, la netta separazione dell’etica dalla politica, etc. etc.)

  2. giovedì, 3 Febbraio, 2011 at 17:40

    Quando Roberta deplora nel suo libro lo “scetticismo pratico” della cui diffusione siamo tutti testimoni diretti, le prime immagini che mi si affacciano alla mente non sono tanto i profili di intellettuali “amoralisti” particolarmente sofisticati (che pure non sono mai mancati nella storia passata e recente del nostro paese), ma quelle frasi che affiorano in questi giorni sulla bocca di persone che tradiscono un’insensibilità totale per la dimensione morale delle scelte e dei comportamenti individuali. Quando, prima di esprimere la loro opinione, li senti chiedere se quella particolare azione intorno alla quale solleciti il loro giudizio sia esplicitamente vietata dalla legge, capisci che per loro lo spazio delle ragioni morali non è tanto uno spazio vuoto, ma un non-luogo, un mistero insondabile. “La morale? Ihhhh!”
    Di fronte a questo paesaggio desolante, molti amici mi rincuorano invitandomi a misurare lo spessore umano reale di queste persone. Certo, mi dico io stesso, il biasimo per una simile situazione non può ricadere sulle fragili spalle dell’universo morale, ma rientra nella sfera della Bildung, dell’educazione, della seconda natura che viene cucita attorno a queste persone. Si tratta di un fallimento pedagogico, culturale, sociale, che sarebbe però forse più facile da comprendere in condizioni di vita in cui l’urgenza della mera sopravvivenza assume un peso preponderante, mentre è assai difficile da conciliare con il benessere e l’offerta culturale delle nostre società occidentali. È davvero difficile capire come si possa, con premesse così favorevoli, diventare sordi a ogni genere di impegno morale.
    In genere, l’effetto che hanno su di me questi tentativi di consolazione è pari a zero. Sarà forse perché sono troppo radicalmente universalista? Conoscendomi, non si direbbe. Più probabilmente mi inquieta il nesso che sussiste tra questa debole difesa psichica e il cinismo tacito, mai esplicito, che si accompagna spesso all’insensibilità morale delle classi dirigenti (nel nostro come in molti altri paesi). L’atteggiamento di chi osserva il genere umano con uno sguardo superbo, assolutamente privo di empatia, e rumina pensieri del genere: “Ma a chi la volete dare a bere? Perché non guardate in faccia questa umanità di cui vi riempite la bocca? Grumi di emozioni incoerenti trascinabili a destra e a manca facendo leva sui più volgari desideri, vizi, automatismi, pulsioni. Manichini destinati a essere manipolati da chi ha il coraggio e la lucidità per guardare in faccia la realtà. La gente in carne e ossa non è composta dalle proiezioni fantasiose dei moralisti, ma dalla casalinga teledipendente, dal frequentatore assiduo del Bar sottocasa, dal fanatico collezionista, dall’annoiata per partito preso, dal giovane a caccia dell’Happy Hour, dal sociopatico che ce l’ha con il mondo intero, dall’ottuso ma efficiente funzionario, dai prepotenti di ogni risma, dall’egocentrica il cui mondo si ferma esattamente ai confini del proprio spazio peripersonale, dal vanitoso che sacrificherebbe qualsiasi cosa per un complimento, dal pavido che è sempre lì pronto a scaricare le proprie responsabilità sul primo che passa, dallo scaltro che aspetta solo di essere certo dell’impunità per infrangere le regole, dall’amico del cuore che parla parla ma non ascolta mai, dalla zia ottusa con cui non ti sogneresti mai di intavolare una discussione seria. È il loro consenso che conta in una democrazia. E pensate forse di guadagnarvelo con le buone ragioni? Facendo appello alla loro capacità di distinguere ciò che è bene da ciò che è male? Ma non raccontiamoci frottole… Non viviamo in un mondo corruttibile, ma in un mondo che non ha certo bisogno del nostro intervento per essere corrotto!”.
    Chi di noi non avverte il peso di questo sguardo disincantato sul mondo? Chi può negare di aver visto affiorare puntualmente questa forma perturbante di saggezza (magari con la nostra benevola condiscendenza) anche sulle bocche o sugli sguardi più inappuntabili di chi, intorno a noi, occupa posti di autorità di ogni natura e grado? Roberta l’ha definita in un paragrafo importante del suo libro la “coscienza sprezzante”, descrivendola come un fenomeno tipicamente novecentesco. Ma le sue radici sono senza dubbio più profonde. Sto pensando proprio al disprezzo (ammiccante) per la vita e la gente comune (a pensarci bene, nemmeno Marcel, il narratore della Recherche, sfugge a una simile attitudine cinica e blasé). Per altro, questo disprezzo per la massa riguarda più di ogni altro proprio chi, come molti di noi, svolge una professione intellettuale e lo snobismo ce l’ha, per così dire, nel sangue. La sua eco non la sentite risuonare in questi giorni anche nelle dichiarazioni “tecnicamente” ineccepibili di quegli scienziati della politica che osservano con distacco le rivolte in Tunisia ed Egitto e non sono disposti a scommettere un centesimo sul diritto e sulla capacità di quei popoli ad autogovernarsi?
    Che ne dite: sarà davvero un caso che l’uomo le cui vicissitudini balzacchiane ci assillano da anni è stato prima di tutto un genio della pubblicità? Mano a mano che passa il tempo, sempre più i venditori mi appaiono come la vera incarnazione contemporanea dell’“ultimo uomo” evocato/paventato da Nietzsche. (E, badate bene, non sto parlando di Cetto la Qualunque… )

  3. Andrea Zhok
    venerdì, 4 Febbraio, 2011 at 11:35

    Il fatto di capire profondamente e condividere integralmente le parole di Paolo quasi mi spaventa: oramai, come credo molti, mi sono rassegnato a vivere in una dimensione sociale media in cui l’aspettativa di una probabile assenza di terreno umano comune è la norma, e dunque l’assunzione che il fraintendimento ed il misconoscimento siano condizione umana normale è solidamente radicata. Scoprire episodicamente che vi sono livelli di comunanza comunicativa e razionale anche al di fuori dei libri oramai mi coglie impreparato.

    Quanto al discorso di Roberta De Monticelli sullo ‘scetticismo pratico’, lo capisco e condivido, anche se non sono certo che il riferimento allo scetticismo, che è pur sempre una posizione riflessa nobile, sia pienamente adatto a descrivere la disgregazione sociale presente. Il contrasto ricordato da Paolo tra ciò che è vissuto come vincolante perché appartenente alle proibizioni di legge, e ciò che è invece considerato costitutivamente dubbio ed irrilevante, perché appartiene alla sfera morale, mi pare porre la focalizzazione nel punto giusto.

    Un discorso in termini di scetticismo pratico consente di vedere uno dei livelli a cui quel contrasto è operativo: la legge è una cosa scritta su cui c’è un accordo intersoggettivo ufficialmente sanzionato, dunque non è dubitabile; al contrario, la sfera morale appartiene alla dimensione intersoggettiva delle norme non scritte, dei costumi, degli abiti condivisi, e la sua natura consegnata alle coscienze soggettive la renderebbe labile ed inaffidabile. Fin qui un discorso concettualizzato attraverso la nozione di ‘scetticismo’ funziona.

    C’è però un livello ulteriore che mi pare determinante: la base informale di tutte le morali è una qualche forma di reciprocità basata nel riconoscimento intersoggettivo. La reciprocità non è fondata primariamente su una dimensione cognitiva mediata, ma su di un riconoscimento primario pre-culturale (ma che la cultura può deformare e persino cancellare). Una sfera di reciprocità diffusa è necessaria al funzionamento di qualunque ordinamento sociale, ancorché minimo: è ciò che fa sì che in tutti i nostri atti riconosciamo che l’altro esiste come senziente ed affine, e non come oggetto o strumento.

    Se supponiamo per un attimo di poter sospendere integralmente questa sfera elementare di riconoscimento, ci ritroviamo catapultati in un universo popolato da ‘uomini del sottosuolo’, un universo dove tutti devono assumere che ciascuno può commettere qualunque cosa, se non è sorvegliato dalla capacità coercitiva della legge. Immediatamente il mondo diviene uno spazio popolato da predatori con cui siamo costretti a convivere a stretto contatto ed anche a fingere, a denti stretti, qualche grado di prudenziale rispetto, ma sempre in attesa di un possibile atto ostile, non appena le condizioni lo rendano possibile e conveniente. Quella condizione ferina, che i teorici del contratto sociale spesso proiettavano fantasticamente nella mitica sfera dello stato di natura, viene vissuta come la realtà autentica che sottostà alla nostra civiltà, appena sotto una sottile verniciatura di prudenziale rispetto, fornita in ultima istanza dalle proibizioni legali.

    Ora, mentre è certamente vero che quasi nessuno compie con chiarezza un ragionamento di questo genere, traendone esplicitamente le (insostenibili) conseguenze, la mia impressione è che una forma implicita, tacita ma pervasiva di questo ragionamento stia oramai costituendo lo sfondo sociale comune, l’acqua in cui quotidianamente nuotiamo. Ciò produce e riproduce una pedagogia spicciola, cui sono capillarmente sottoposti grandi e piccini, tale per cui in fondo in fondo considerarci esseri umani, o anche solo mammiferi, sarebbe già un modo per nobilitarci: “in verità vi dico siamo rettili, rettili dotati di un apparato di leggi e del timore di essere puniti, ma pur sempre rettili, la cui natura essenziale si esaurisce nell’ottenimento individuale di cibo, calore e procreazione, il tutto in rigorosa assenza di relazione non strumentale con l’altro.” Eh, già, i Visitors sono tra noi, anzi siamo noi. QED.

  4. Corrada Cardini
    lunedì, 7 Febbraio, 2011 at 02:38

    Lo ammetto appartengo a quelli “della coscienza sprezzante”. Da una vita provo a convincermi che l’uomo merita di più, ma non ho mai gli argomenti giusti a portata di mano, non li trovo. Dirò di più: l’uomo massa mi inquieta, mi terrorizza, mi incute diffidenza e disprezzo. Perché sono convinta che se è controllabile, lo è da forze che sono esterne, ignote a quelli stessi che sono controllati, i quali restano comunque incapaci di sottrarsi a elementi di irrazionalità e suggestionabilità che li rendono facilmente influenzabili e di fatto gregari. Sono sempre stata affascinata dal tema della fondazione dei valori intorno a cui una comunità umana costruisce la propria identità: regole,leggi,costumi,usanze,priorità e quant’altro crea i legami sottili che danno ritmi certi allo scorrere della vita e senso di appartenenza. La religione e le sue tecniche di persuasione basate sul principio di autorità hanno da sempre, a tal scopo, una ruolo decisivo e determinante. Il tema, visto in senso diacronico, non offre, temo, molte alternative alla spiegazione che vuole nella progressiva complessità dei nuclei umani, popoli e nazioni, l’origine della necessità di surrogare con l’imposizione e la persuasione di massa le difficoltà di controllare i comportamenti individuali e collettivi. Il tutto a favore della minoranza che possiede potere e ricchezza, ma anche indirettamente per rispondere a una esigenza oggettiva della maggioranza subalterna, priva di capacità autoregolativa e bisognosa di essere eterogestita. Dunque l’etica è frutto della storia di un popolo, figlia della politica e dei rapporti economici. E fin qui siamo nel relativismo etico, nello scetticismo della ragion pratica che si vuole all’origine di un crollo di valori e di certezze a sua volta all’origine di ogni male. Mi rendo conto di quanto sia impopolare evocare argomenti di sapore marxiano; ma tant’è non so che farci. Mi chiedo se questo forte disagio, se questa diffusa e “ragionevole” ansia di cercare,trovare, fondare sistemi di valori basati sulla riflessione condivisa intorno a ciò che è e non è dannoso a una comunità, giusto o sbagliato, auspicabile e da rifiutare, non nasca semplicemente dal fatto che ora esistono i margini di libertà personale e le opportunità per un crescente numero di persone di parlare di questo.Mi chiedo anche, d’altronde, se l’unico dato di fatto su cui si può contare sia la tendenza dei gruppi umani a organizzarsi intorno ad un capo, una oggettiva predisposizione a delegare a una minoranza di persone individuate come vincenti, e quindi “affidabili”, la scelta dei modelli di riferimento su cui costruire i propri comportamenti. L’etica in senso filosofico, l’attività razionale intorno all’etica è destinata a restare appannaggio dei pochi. I molti, i più, sono gli stessi di sempre, si limitano a uniformarsi, adattarsi, assumere atteggiamenti opportunisti (non in senso dispregiativo, ma nell’accezione in cui si usa in biologia). La democrazia come partecipazione consapevole, il principio di responsabilità personale, l’uso di categorie critiche, anche solo l’uso dell’ironia e dell’autoironia, sono per di più fuori portata. E dobbiamo costatare che la scolarizzazione di massa non è assolutamente in grado di modificare la situazione.. parola di ex “prof…” . I linguaggi persuasivi sembrano vincere su tutti i fronti,ora come in ogni tempo, anche se modalità e modelli sono attualmente fortemente diversificati. È con i metodi e gli scopi della comunicazione che dobbiamo fare i conti. In attesa di un governo dei saggi. Resta questo inquietante ma non inspiegabile fenomeno per cui l’individuo come diventa “uomo massa”, diventa altro da sé.

  5. Carmelo
    giovedì, 10 Marzo, 2011 at 20:21

    Mi ritrovo affascinato e attratto dalle interrogazioni filosofiche di questo spazio virtuale. Non sfuggo, tuttavia, alla sensazione che esse siano ripiegate su loro stesse, appiattite sul contingente territorio italico visto e pensato come se fosse rimasto bloccato in un fotogramma di un altro tempo. La fenomenologia come può pretendere di parlare in nome di una ragione universale, se non riesce a vedere la varietà di nuovi italiani presenti e che sono provenienti dall’europa dell’est, dal Maghreb, dall’Asia delle tigri del Tamil o dei draghi cinesi, piuttosto che dall’Ecuador che si dichiara stato plurinazionale? Nell’uso di un linguaggio specifico e nel teorizzare, non vi è il rischio di essere comunque vincolati a una posizione nata in un contesto storico e geografico determinato? (diciamo europeo, tedesco, francese, italico). Ecco si affaccia un desiderio filosofico: ascoltare un ragionamento, e seguirne il filo, sul riconoscimento che intrecci la dimensione personale e insieme il bagaglio culturale e valorico di cui ciascuno è interprete tenendo conto della varietà di cittadinanze che vivono con noi. Come costruire una convivenza in questo scenario? Che tracce e fenomeni si mostrano già sotto i nostri occhi? Li sappiamo cogliere?

  6. Stefano Cardini
    giovedì, 10 Marzo, 2011 at 23:49

    Capisco e condivido anch’io spesso il senso d’inadeguatezza che confessa Carmelo. L’Italia e in particolare la politica, la cultura e il sistema italiano della comunicazione sembrano drammaticamente avvitati su se stessi. Penso allo spettacolo mediorientale di questi giorni, del tutto imprevisto, nonostante la retorica sulle famose “profezie” di Oriana Fallaci, che in realtà vaneggiò di un mondo arabo irrimediabilmente incivile e orrendamente fondamentalista che non ritroviamo nei volti dei ragazzi che stanno sfidando i loro tiranni dall’Oceano Indiano all’Atlantico. Accendiamo la televisione e che cosa troviamo? Giornalisti, commentatori, esperti, politici, sono lì, a bocca aperta, stupefatti, come tante comari alla finestra improvvisamente distolte dal loro pettegolezzo dal frastuono della strada. Che cosa può fare la fenomenologia, o in termini più generali la filosofia, di fronte a questo? Non sta a me dirlo. Ci sono molti filosofi autorevoli che frequentano questo blog. Risponderanno, se credono, loro. Quello che posso dire, è che il desiderio di leggere o scrivere di filosofia mi prende ogni qualvolta vivo esattamente quella sensazione di soffocamento che Carmelo lamenta, quando, cioè, attorno a me l’aria si satura di risposte automatiche, frasi fatte, fattoidi, statistiche manipolate o unilaterali, spiegazioni per nulla circostanziate ma allungate sempre con l’aria di chi la sa lunga, di chi ha già capito tutto, che lo sapeva già, e da molto tempo, e pertanto non si meraviglia più o mai di nulla, soprattutto del peggio che ha davanti. La filosofia, e a mio parere più di ogni altra quella incardinata nella metodologia fenomenologica, è invece l’arte di porre bene le domande. E questa è un’arte universale, non solamente – grazie a dio – europea. Può cambiare la realtà una domanda formulata bene? No, perché non è detto conduca a una risposta capace di orientare – tantomeno efficacemente – la nostra azione. Ma una domanda ben formulata è una premessa indispensabile, se non per migliorare la realtà, per starci dentro con dignità, offrendo agli altri – chiunque essi siano – l’opportunità di fare altrettanto. Questo non risolve le questioni richiamate, certo. Ma non credo di sbagliarmi nel dire che alcune delle ragioni per cui oggi trascorriamo tanto spesso il nostro tempo alternando stati dall’attonito allo sbigottito, sono da ricercare nel fatto che da troppi, troppi anni, l’arte di porre bene le domande, almeno in Italia, è molto trascurata. Forse siamo tutti un po’ arrugginiti, è vero. Diamoci da fare!

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