Fenomenologia dell’intersoggettività di Vincenzo Costa, Carocci Editore, 2010. Un’ampia e articolata recensione

lunedì, 6 Giugno, 2011
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Copertina di Fenomenologia dell'intersoggettività di Vincenzo Costa, Carocci 2010

Copertina di Fenomenologia dell

Ecco un altro bellissimo lavoro di Vincenzo Costa. Da circa un quindicennio, l’Autore ci ha abituato, con quel linguaggio piano e quel piglio socratico che gli deriva dall’appartenenza alla scuola fenomenologica di Milano, ad inoltrarci nei meravigliosi territori della ricerca husserliana, seguendone la precisione micro-chirurgica – e l’inesorabile flessuosità di stile analitico che lo accomuna all’altra grande fenomenologia, quella hegeliana – della dissoluzione di tutto ciò che ‘appare’ come im-mediatezza e che, una volta sottoposto, da un ego trascendentale sempre più esigente, alla dialettica dell’auto-manifestazione (determinante gia a partire dalle Ricerche Logiche), cede la propria compatta ingenuità di ‘dato’, con un movimento a spirale enucleante livelli, orizzonti sempre più profondi di fondazione e di ‘senso’, all’operazione costitutiva infinita della soggettività trascendentale -soggettività mai coscienzialistica, bensì alveo produttivo inoggettivabile intrinsecamente storico, di conferimento di ‘senso’ , mera “intenzionalità fungente” (Eugen Fink, Das Problem der Phanomenologie Edmund Husserls, in: Revue internationale de philosophie, gennaio 1939, pp. 226-270), vero e proprio atto in atto – ovviamente senza implicazioni ‘attualistiche’, anzi! -, ovvero nunc stans, lebendige Gegenwart, Urstand, Ur-Ich (se privilegiamo il lessico dei Bernauer Manuskripte, dei “C-Manuskripte” o della Krisis).

Ma il nostro sarebbe un discorso monco ed in radicale contrasto non solo con le nostre ma anche con le intenzioni dell’Autore se, alla fine di questa discesa nel “regno mai esplorato della ‘madre della conoscenza’” (Krisis, § 42), non trovassimo, in luogo di ciò che da principianti filosofi ‘cartesiani’ ci aspettavamo, ciò che da sempre è invece già dato e rispetto al quale non occorre ‘gettare ponti’: vale a dire non un vuoto simulacro, un’algida quanto trasparente ‘coscienza’ bisognosa di mediazioni a posteriori con i vari stadi ‘paradossali’ della sua formazione o con gli alter ego portatori di equivalenti importi intenzionali, bensì quella stessa ‘intenzionalità fungente’ ora finalmente rivelantesi come correlazione universale delle soggettività costituenti, grammatica universale del riconoscimento, ‘armonia prestabilita’ tra le monadi, scaturigine originaria del senso: l’intersoggettività, quale originaria matrice della costituzione della Lebenswelt (così come efficacemente Husserl riassumerà nei §§ 45-55 della Krisis).

Tale è la posta in gioco che una teoresi fenomenologicamente orientata è chiamata odiernamente a rivendicare ed a ridefinire in un serrato confronto con gli stessi avversari husserliani di un tempo opportunamente dissimulantisi, con le moderne versioni del riduzionismo fisicalistico e del soggettivismo dis-incarnato, e tale è il livello della sfida che Costa fa propria declinandola in maniera assolutamente personale.

Se con ‘senso’, dunque, intendiamo – seguendo, in lavori precedenti di Costa, la ricostruzione delle analisi di Husserl – sintesi costitutiva interminabile effettuata dall’intenzionalità nella sua globalità, costituzione di qualcosa come ‘unità’ soggetta, in virtù dell’esercizio infinito della riduzione fenomenologica, ad una sempre ulteriore determinabilità attraverso l’esplicitazione dei suoi infiniti orizzonti, interni ed esterni, allora termini come io, tempo, cosa, altro, abbandonano la loro ottusa im-mediatezza per divenire meri ‘titoli’, meri ‘fili conduttori’ in grado sia di esibire, attraverso l’analisi statica, la propria stratificazione di senso noetico e noematico, sia, attraverso l’analisi genetica, la propria storicità costitutiva, come opportunamente notava tra i più autorevoli esegeti Van Breda interpretando le pagine husserliane sul Metodo fenomenologico statico e genetico coeve alle Lezioni sulla sintesi passiva del 1920-21.

Ora, agli occhi del filosofo di Prossnitz, proprio in virtù di questo movimento dialettico e a maggior ragione in virtù della sua presunta – fino a prova contraria – primarietà fondativa, la categoria della soggettività che abbiamo in precedenza introdotto risulta, dopo una prima ‘riduzione cartesiana’, estremamente povera di contenuto intenzionale, al punto da necessitare di ulteriori riduzioni. Di questo limite, Husserl sarà pienamente consapevole almeno fin dal corso del 1910-11 sui Problemi fondamentali della fenomenologia (vero e proprio punto di svolta della teoresi husserliana) e non smetterà di ritornarvi a livelli sempre più complessi di approfondimento – bastino, per tutte, le Lezioni sulla filosofia prima del 1922-23 –, tant’è che prolungherà questi tentativi di rendere più articolato e persuasivo il profilo metodologico della riduzione fino agli ultimi anni di vita, percorso che culminerà – tanto per restare alle opere edite in vita dall’autore – nelle Meditazioni Cartesiane e nella parte edita della Krisis.

La pars construens del libro di Costa – dando giustamente tutto ciò che precede per scontato per un lettore di testi di tale complessità e, anzi, disseminando intelligentemente questa ricostruzione filosofica dei caposaldi della fenomenologia lungo tutto il libro con preziosi riferimenti, bibliografici e testuali, altrimenti indisponibili – si incardina, dunque, su questi presupposti.

La tesi del libro, introdotta nel cap. 1 (e ampiamente ripresa nel cap. 9, pp. 212-218), è infatti quella di un’originaria costituzione intersoggettiva del senso di quella totalità articolata e gerarchicamente strutturata chiamata ‘mondo’ e che noi troviamo già da sempre disponibile quale sfondo naturale della nostra azione, a portata di mano, già istoriata da concrezioni di vissuti sociali densi di rimandi, operativi in senso lato, alle operazioni stratificate di costruzione della realtà sociale. Il senso del segno è dunque intersoggettivamente costituito, sia che osserviamo la dialettica del segno espressivo, sia che ne valutiamo il divenire formale nei suoi vari livelli di oggettivazione (senza dimenticare che, originariamente, quindi al livello di un’indagine genetica, non meramente statica come quella sviluppata, nell’arco dell’intero volume, ad eccezione del capitolo conclusivo, per esplicita scelta metodologica, dall’Autore e con un empito ‘somatologico’ in grado di richiamare le migliori analisi della Struttura del comportamento e della Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty, il ‘senso’ affiora dalla sapiente orchestrazione di rimandi, significativi soltanto all’interno di un mondo, veicolati dalle mani e dalla voce (pp. 203-212) in perfetto accordo con Mead e con l’Husserl della terza sezione del secondo volume delle Idee). Con una bellissima immagine, nell’ambito della discussione critica delle tesi di Damasio sulla “coscienza nucleare” (pp. 50-54), Costa suggerisce che “il presente momentaneo è strutturalmente abitato dalla non-presenza” (p. 52) – si vedano, a questo proposito, le pagine delle cruciali lezioni husserliane del 1910-11 sul ricordo come trascendenza immanente – e che tutto ciò che sembra essere, come, appunto, la ‘coscienza nucleare’, mera coscienza mono-dimensionale, priva di strati costitutivi come di Horizont temporale, è in realtà, agli occhi di un’analisi fenomenologica rigorosa, “coscienza estesa, intersoggettività e segno” (p. 54). È dunque in questa fitta trama di significazioni socialmente condivise (o che, con il Dilthey ‘sociologico’ – qui veramente trascurato, ancorché l’autore di Esperienza vissuta e poesia sia stato assolutamente determinante, per ammissione dello stesso Husserl non solo nella lettera a Mahnke del ’27 in cui si ripercorre il cammino della trasformazione delle Ricerche Logiche nelle Idee, ma anche nell’apprezzamento husserliano nel 1911, così come emerge dalla terza sezione di Idee II e dalla lettera a Misch del 1929 – potremmo definire connessioni dinamiche, tendenzialmente universalizzabili dallo ‘spirito oggettivo’ su su fino allo ‘spirito assoluto’), ancorché inintelligibili ad un individuo – quello contemporaneo – refrattario alla dissoluzione della reificazione, che si costituisce una diversa, alternativa nozione post-strutturalistica di ‘totalità’ (pp. 138-148), all’interno della quale si muovono creativamente i singoli soggetti (e già dai primissimi frammenti husserliani sulla monade degli anni 1908-09 collazionati da Kern nella monumentale silloge del 1973, sappiamo quanto sia importante per il Nostro l’individuo!) alla luce non di un ‘lumen naturale’ bensì appoggiandosi alle rispettive riserve di produttività simbolica, svincolate dal ferreo, quanto ermeneuticamente inefficace, determinismo dei paradigmi dell’imitazione e della simulazione , retaggio della pseudo-antropologia non-appresentativa compendiata nella categoria di entropatia per l’afferenza implicita del termine all’orizzonte di un approccio ‘mentalistico’ – e non ‘indiziario’, non costruttivistico in senso lato – alla problematica dell’alter-ego (e in questo senso, è importantissima la ripresa – pp. 157-158 – da parte di Costa, della critica husserliana quasi negli stessi termini, cfr. Iso Kern, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, Erster Teil, 1905-1920, Text 13). Nel campo degli atti sociali, infatti, non esiste ‘imitazione’ nel senso di ‘rispecchiamento’ di un’azione altrui o di un significato, veicolato dall’azione stessa: se vogliamo, l’unico orizzonte teorico – sicuramente presente allo stesso Husserl sin dall’avvio della propria riflessione sull’intersoggettività e, a parer nostro, per quest’ultima determinante – all’interno del quale ha senso per Husserl parlare di ‘rispecchiamento’ è quello della Monadologia leibniziana (artt. 56-60), ‘rispecchiamento’ che avviene esclusivamente mercé le ‘piccole percezioni’ (artt. 14,16, 20-25, 59-60 e prefazione ai Nuovi Saggi), che nella husserliana teoria delle ‘implicazioni intenzionali’, vale a dire nella dialettica di ‘sfondo’ e ‘primo piano’ predominante già a partire dal primo volume delle Idee con l’introduzione delle strategiche categorie di Horizont, Hintergrund e Untergrund, assurgeranno a livello di quelle ‘visioni’ originariamente costituenti che (in Esperienza e giudizio più chiaramente che altrove) verranno sviluppate come esplicitazioni (relative al semplice ‘orizzonte interno’) e relazioni (relative al più comprensivo e strategico ‘orizzonte esterno’).

Ed è infatti all’indagine della ‘sfera monadologica’ che è dedicato il cruciale cap. 2 del libro, dapprima attraverso l’analisi della costitutiva individualità temporale della monade – che Husserl introduce nel 1908 – e della sua conseguente irriducibilità ad altra monade (su questo, cfr. anche il cap. 4, pp. 109 ss.), tanto più quando, nel 1909-1910, poco prima del corso sui Problemi fondamentali della fenomenologia, a rendere individuale ed irriducibile la monade non è più e non tanto il singolo vissuto di coscienza bensì l’intero flusso di coscienza. L’individualità temporale della monade, in Husserl, è infatti un concetto-chiave che si evolve continuamente: dai Manoscritti di Seefeld, nel 1905, attraverso la scoperta, nel 1907, del flusso originario (si veda il testo n. 36 delle Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo del ’28) e della sua auto-costituzione in unità in virtù della dialettica di ‘intenzionalità trasversale’ e ‘longitudinale’ all’apertura di quello che è stato chiamato il processo di “dissoluzione dello schema contenuto apprensionale-apprensione”, processo che porta dritto dritto ai Problemi fondamentali della fenomenologia dove, con la doppelte Reduktion, si passa – e questo è un passaggio cruciale che Costa aveva già esaurientemente analizzato nel suo libro su Derrida – ad un superamento (sulla base della teoria delle implicazioni intenzionali – p. 62 – percorrenti massicciamente il primo volume delle Idee – cfr. §§ 35 ss.) della concezione dell’evidenza, dell’apoditticità basata sulla ‘semplice-presenza’ ad una basata sull’intreccio, pre-delineante per la presentazione originaria della percezione, di ritenzione e protenzione, struttura che troverà nei Bernauer Manuskripte del 1917-18 il suo culmine in una articolazione della problematica della temporalità così complessa da poter costituire l’asse di fondo del ragionamento di Filosofia prima nel 1922-23 e sancire l’atto di nascita di quell’epoché universale in grado di proiettare Husserl verso la sua ultima, rivoluzionaria produzione con un definitivo ‘distacco dal cartesianismo’ (Landgrebe) e dagli asfittici residui ‘coscienzialistici’ che, secondo Husserl – e anche secondo Costa – ingiustificatamente, appannavano la comprensione, da parte dei contemporanei, dell’innovazione fenomenologica. Nell’ultima parte del cap. 2 (pp. 70-74), nel cap. 3 – significativamente intitolato “Perché ascriviamo una mente agli altri?” – e nel cap. 5, l’Autore si accinge invece a tracciare un altro delicatissimo passaggio per la fenomenologia, quello che mette al proprio centro la tematica del Leib, di quel ‘corpo vivo’ che non è mera cosa fisicalisticamente ridotta, bensì latore delle sensazioni localizzate, complessione di apparati cinestetici governati dall’‘io posso’, punto-zero dell’orientamento, vera e propria soggettività incarnata che – all’altezza della Quinta Meditazione Cartesiana (§§ 44 ss.), nell’ambito della densissima, stupefacente trattazione della sfera dell’appartentività, all’interno della cui compagine intenzionale è dato per la prima volta, quale originario quanto intrascendibile ‘fenomeno’, qualcosa come un mondo primordinale, uno strato configurantesi come ‘trascendenza immanente’ dalla quale far sgorgare, non dedurre cartesianamente, attraverso una ‘tipica’ fenomenologicamente rigorosa, il ‘mondo oggettivo’ quale macro-fenomeno mercé l’operare della legalità fenomenologicamente primaria dell’associazione, quindi secondo la logica delle ‘sintesi passive’, producente ad un tempo l’accoppiamento (Paarung) e la trasposizione appercettiva in grado di rendere ap-presentativamente l’alter-ego in base alla quale l’io costituisce il proprio ‘senso’ del mondo – rappresenta la stessa condizione di auto-manifestatività dell’alter-ego.

Tutto ciò (cap. 6) sempre nella strutturale triangolazione ‘io-tu-mondo’ (cfr. anche cap. 4, p. 117 e cap. 7, pp. 158-160), come se l’esperienza dell’alter ego non potesse non trovare scaturigine se non al punto di intersezione tra il complesso degli stimoli ‘motivazionali’, non causali, provenienti dal ‘mondo circostante’ (Umwelt) e la ricerca, da parte dei soggetti oramai assunti quali ‘monadi aventi finestre’, di criteri oggettivi per l’ascrizione all’altro di una mente, punto d’intersezione che è un ‘-esser-ci (già-da-sempre)-con-gli-altri’ di heideggeriana (e diltheyana/scheleriana) ascendenza e che Costa mostra essere un elemento di contiguità ermenutica e teorica tra l’autore di Essere e tempo e Husserl, al di là – almeno relativamente a questo punto – delle reciproche incomprensioni a partire dal 1927/1929. Infatti, per Heidegger – e anche per de Saussure o per Mead – il manifestarsi del linguaggio nella sua vivente effettualità di ‘atto linguistico’ presuppone un’‘apertura’ preliminare, una precedenza dell’orizzonte del ‘mondo della vita’ e della pre-comprensione – e quindi uno (s)fondo intersoggettivo della catena dei ‘rimandi’ significativi – in grado di recepire, tesaurizzare elaborandola e restituire, complessificata e stabilizzata, l’‘intenzione significativa in nuce’, il ‘simbolo significativo’ oramai divenuto oggetto ad ogni nuovo ‘attore’ che si profili – anche come bambino – sulla scena del mondo dotato solo della (husserliana, originariamente matematica) solitudine dell’immaginazione produttiva e mai di algoritmi o di risposte istintuali, mettendolo nella condizione di procedere, più o meno criticamente, all’edificazione del Sé partendo da un proto-ruolo sociale oggettivato nel simbolo significativo che consente già una prima ‘teatralizzazione sociale’, ad es., nel monologo interiore (pp. 45 ss.).

Va da sé che a fare le spese di questo approccio siano, nel libro, gli emuli di quel Theodor Lipps e dei suoi enigmatici ‘istinti’ analizzati nel cap. 8 (pp. 178; 184-186), autore già ampiamente criticato da Husserl tra il 1907 ed il 1909 (cfr. Iso Kern, “Zur Phänomenologie…”, cit., Erster Teil, 1905-1920, Text 2 e Beil.X e XVI ) per la debolezza della sua risposta al crollo del paradigma della costituzione ‘analogica’ erdmanniana (ivi, Beil. IX), come se l’apprensione esperienziale dell’alter-ego (ivi, Text 2) dovesse e potesse essere ricondotta direttamente e misteriosamente, ricorrendo a subdole presentificazioni analogiche, all’autentica, indubitabile ‘visione originalmente offerente’ del primo volume delle Idee e a quelli che sono i modi di datità dell’apprensione esclusivi dell’ego dei propri vissuti – dati, per Husserl, in ‘presentazione originaria’ immediata – e perciò stesso escludere l’unica forma di accesso (mediato) nell’entropatia ai vissuti estranei attraverso la ‘trasposizione appercettiva’, la comprensione interpretante (anche se qui andrebbe sottolineata la differenza dell’approccio del ‘manoscritto del 1912’ (Husserliana V, pp.109-110) rispetto all’elaborazione della corrispondente trattazione, nel 1915, nel secondo volume delle Idee contenuta in Husserliana IV, pp. 109-110 e in I. Kern, “Zur Phänomenologie…”, cit., Erster Teil, Text 3, pp. 53 ss.). Di conseguenza (cfr. cap. 8, pp. 173-174; 186-190), se da una parte, quindi, imitazione e simulazione si limitano a re-duplicare e a proiettare semplicemente i vissuti propri e intrascendibili di un ego sull’altro, non facendo crescere alcun margine di intederminabilità e di latenza del senso all’interno del rapporto intersoggettivo, l’immaginazione (pp. 190-197) – ancorché distinta, come presentificazione, dalla rimemorazione e, quindi, dall’impossibilità di costituire a ritroso eventualmente l’unità di un singolo flusso di coscienza – attraverso il suo specifico ‘come-se’, attraverso la sua specifica modalità essenziale di trasposizione appercettiva all’‘interno’ della (meadiana) gestualità significativa dell’altro, dei comportamenti dell’altro, nei luoghi dell’altro, nel ‘complesso esperienziale’ triangolare dell’altro, costituisce lo strumento imprescindibile di trascendimento del ‘dato’ della separazione dei vissuti ‘congelata’ nelle varie modalità di approccio ‘empatico’ ed il vero nucleo propulsivo della costruzione dell’(immagine dell’) altro. L’immaginazione – in primis quella matematica – nasce quindi per contrastare batterie segniche, codici semiotici che vengono utilizzati solo per sedurre – e così capiamo anche il riferimento pregnante di Costa a Sartre e alla ‘vergogna’ di essere guardati entomologicamente (pp. 128-131), come Emma Bovary sul letto di morte –, per impiantare se stessi nel cuore dell’altro; così come eminentemente ‘immaginativa’ in questo senso traslato, d’altra parte, è la strategia ‘agostiniana’ di Husserl del “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas” rivendicata esplicitamente nelle Meditazioni Cartesiane ma operante da sempre, almeno a partire dal riferimento all’intuizione ‘mistica’ de “L’idea della fenomenologia” del 1907 conseguente alla scoperta nevralgica, fondante, della “correlazione fondamentale” (ricordata anche nella Krisis, § 46).

È in uno ‘stile’, in una ‘tipica’ radicalmente antagonistica che si muovono, quindi, i ‘nipotini di Lipps’ sopra incidentalmente ricordati. Ci riferiamo, da una parte, all’opzione metodologica ‘mentalistica’ di Baron-Cohen, il confronto con il quale viene già anticipato nell’“Introduzione” e sviluppato nel cap. 7 (pp. 159-167) e, dall’altra, al riduzionismo della teoria dei ‘neuroni-specchio’ la cui disanima è avviata da Costa nel cap. 3 (pp. 100-103), ripresa nel cap. 7 (pp. 167-172) e sviluppata organicamente nel cap. 8 (pp. 181 ss.), con la sua deterministica struttura neurale di base, già ampiamente criticata da Lohmar qualche anno fa e che l’Autore (p. 170) ritiene filogeneticamente “‘intrisa’ di storia” ma ermeneuticamente irrilevante rispetto all’interpretazione del vissuto altrui e della relazione io-tu. C’è da dire – e questo è un tratto che, da solo, meriterebbe la lettura di questo libro – che Costa si è sempre confrontato con tutti gli autori, per quanto lontani potessero essere dalla tradizione fenomenologica, non per respingerne a priori l’argomentazione ma, laddove possibile, per mediare, recepire, integrare, ottemperando perfettamente all’empito ‘universalistico’ di quel telos in cui si compendia, all’altezza della Krisis, l’essenza più autentica della fenomenologia trascendentale. Di conseguenza, oltre al dialogo sempre franco e producente con la filiazione sociologica husserliana e post-husserliana di Schütz (pp. 157-160) – quello stesso Schütz che, a partire dal 1942, criticando però aspramente la Quinta Meditazione Cartesiana (dove Scheler viene sì ricordato incidentalmente solo verso la fine ma anche indirettamente combattuto lungo tutta l’ampia riflessione circa l’intersoggettività) e riscoprendo Scheler e il suo diverso approccio all’intersoggettività rispetto a quello husserliano, giunge ad esiti molto diversi da quest’ultimo –, Goffmann, Berger, Luckmann e con i teorici dell’interazionismo simbolico (anche se manca un’adeguata considerazione non solo di Zahavi-Gallagher e Depraz, ma di quel ‘gigante’ – stranamente assente nel testo! – della sempre più convincente corrente ‘neurofenomenologica’ contemporanea, vale a dire Francisco Varela, di cui si sarebbe potuto ricordare almeno lo strepitoso saggio “Una soluzione metodologica al problema difficile – Neurofenomenologia” in: “Pluriverso”, a. II, n° 3), il confronto con le suddette opzioni metodologiche neo-riduzionistiche in senso fisicalistico di ermeneutica sociale – non solo inefficaci in quanto inapplicabili al mondo umano per definizione incardinato su libertà e, quindi, storicità, ma anche dimentiche dell’incommensurabilità delle esperienze dei singoli individui sulla base del privilegio, da una parte, della primarietà del proprio vissuto di coscienza dato in ‘donazione originaria’ ad ogni singolo individuo e, dall’altra, della conoscenza dell’altrui vissuto solo su base indiziaria, mediata, ap-presentativa veicolata dall’impenetrabilità e dall’espressività del Leib –, il confronto, diciamo, ripropone la storicità e l’intersoggettività costitutiva del ‘segno’ e del ‘senso’ – anche a livello del monologo interiore – per definizione reversibili in quanto integrati nella fluidità magmatica di fondo che sostiene le dinamiche interpersonali della comunicazione e dell’agire strategico e /o comunicativo. Storicità, cioè, secondo Costa, che arriva a lambire e perfino a ‘costituire’ i profili salienti della personalità (nel senso in cui questa categoria è adoperata nella terza sezione del secondo volume delle Idee) nella molteplicità dei propri livelli – oltre agli strati fondamentali della percezione della cosa deputati anch’essi ad ospitare una fruizione condivisa – dell’esperienza del mondo.

Che operazioni teoretiche del genere di quella di Costa – intelligentemente sostenute dall’editore Carocci, non nuovo a tale genere di iniziative e cui non si può non esser perciò grati – tornino ad attraversare, con tutta la loro forza, il dibattito filosofico contemporaneo è non solo auspicabile, ma anche storicamente urgente: solo allora avremo la possibilità di ripensare, contestualmente ad una riforma etica dell’Umanità e come suo prolungamento organico, l’approntamento di una mediazione storico-politica audacemente riformistico-strutturale tra lo ‘spettatore trascendentale’ e il filosofo ‘leibhaft’ quale ‘funzionario dell’umanità’ anti-gerarchico e comunitariamente diffuso in direzione di una re-integrazione attivamente solidale, mercé la ‘filosofia come scienza rigorosa’ quale autentico ‘imperativo categorico’, di un’umanità polverizzata e cieca.

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Introduzione
I.    Perché la coscienza è originariamente intersoggettiva? Segno, linguaggio e monologo interiore
II.    Che cosa ci rende coscienze separate? Originarietà del vissuto, temporalità e unità psicofisica.
III.    Perché ascriviamo una mente agli altri? Proprio, somiglianza e trasposizione analogica.
IV.    Che cosa accade con l’apparire dell’altro? Decentramento, socialità e storia.
V.    Come si manifesta l’altro? Corporeità, espressività e sguardo.
VI.    La cultura è intersoggettiva? Senso, rimando e motivazione.
VII.    Come comprendiamo intenzioni e azioni? Comprensione, lettura della mente e neuroni specchio.
VIII.    Come comprendiamo gli stati d’animo altrui? Empatia, imitazione e simulazione.
IX.    Come, nel rapporto intersoggettivo, sorge la coscienza? Mani, voce e comunicazione.

L’autore

Vincenzo Costa (San Cono, Catania, 1964) è Professore Associato di Filosofia teoretica presso l’Università del Molise. Ha pubblicato: La generazione della forma. La fenomenologia e il problema della genesi in Husserl e in Derrida (Jaca Book, Milano 1996); L’estetica trascendentale fenomenologica. Sensibilità e razionalità nella filosofia di Edmund Husserl (Vita e Pensiero, Milano 1999); La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger (Vita e Pensiero, Milano 2003); Esperire e parlare. Interpretazione di Heidegger (Jaca Book, Milano 2006); Il cerchio e l’ellisse. Husserl e il darsi delle cose (Rubbettino, Cosenza 2007) ; I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica (Quodlibet, Macerata 2009 ); Husserl (Carocci, Roma 2009 ). Sul fronte dell’impegno di traduttore di testi husserliani, ricordiamo tra gli altri I problemi fondamentali della fenomenologia. Lezioni sul concetto naturale di mondo (Quodlibet, Macerata 2008).

(Per gentile concessione di “Recensioni Filosofiche”)

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