Cos’è la ricerca in filosofia? Attorno all’ultimo libro di Benedetta Tobagi: Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita (Einaudi)

domenica, 29 Dicembre, 2013
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Alcuni di noi – filosofi, fenomenologi, insegnanti o ricercatori – credono di sapere che cosa sia ricerca. A tutti consiglio uno spaesante e avvincente esercizio di dubbio riguardo a questo sapere. Un libro di vera ricerca – dal quale si esce un po’ cambiati, e soprattutto dolorosamente coscienti di quanto poca ne abbiamo fatta, di vera ricerca, per tutta la nostra vita. È il libro di Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita, Einaudi 2013.

Ricerca. Qualcuno penserà – che c’entra, è un libro sulla strage di Piazza della Loggia, Brescia 28 maggio 1974. Strage impunita, appunto, ancora più impunita, se si può dire, di quella di Piazza Fontana – là esistono certamente con nomi e cognomi i colpevoli, ma non i condannati, qui c’è la conoscenza di quasi tutti i fatti rilevanti, accumulati da tre gradi di processo e relative indagini, e soprattutto dall’infaticabile lavoro dei congiunti e amici delle vittime (anzi dei “caduti”, secondo l’esatta dizione che l’Associazione si è data: non sono morti per caso, curando affari propri, ma perché manifestavano in piazza, con poche altre migliaia di persone, con il Pci di allora e con i sindacati). Un libro scritto dalla figlia di Walter Tobagi, assassinato il 28 maggio del 1980 da un gruppo terroristico di estrema sinistra; un libro che appartiene a quella letteratura dell’arca – per usare la bella immagine che chiude il libro, l’arca della memoria e dell’esile filo di speranza che il semplice tener memoria comporta – prodotta in primo luogo dai figli e dai congiunti di coloro che morirono negli anni della strategia della tensione, dello stragismo nero e protetto – è storia, ormai – dai vertici stessi del potere democristiano di allora, e poi negli anni di piombo del terrorismo rosso.

E invece è proprio questo il punto che vorrei chiarire. Questa è una ricerca che dovrebbe far invidia – e servire di stimolo, profondo – ai filosofi (del resto Benedetta Tobagi è laureata in filosofia, oltre che D.Phil student di storia). Non semplicemente perché è una ricerca storica – appartiene a quel genere di storia cui hanno dato tanto materiale, dai processi di Norimberga in poi, le indagini giudiziarie e i processi. Lo è senz’altro, e anzi giunge a conclusioni che gli esperti sapranno certo valutare meglio di chi scrive: per il lettore comune, conclusioni illuminanti per quanto riguarda i fatti, che vengono mostrati e nei limite del possibile dimostrati ma soprattutto ordinati, sistemati in un quadro coerente e tragico della storia d’Italia fra il dopoguerra e il cosiddetto avvento della cosiddetta seconda Repubblica. Fatti da cui emergono significati: dimostrata senza ombra di dubbio la responsabilità delle organizzazioni eversive neofasciste nell’ideazione ed esecuzione materiale, e il collegamento con gli autori della strage di Piazza Fontana; dimostrate anche le differenze rispetto a Piazza Fontana, in particolare nel ruolo piuttosto omissivo che attivo dei vertici dei servizi segreti e di conseguenza dei governi da cui dipendevano per le decisioni ultime – una differenza rispetto a Piazza Fontana, dove il ruolo di Giannettini, agente segreto, fu attivo e cruciale; provata la responsabilità non solo delle organizzazioni neofasciste extraparlamentari, ma dello stesso Msi che protegge, sostiene, contribuisce ai depistaggi, e riammette il filonazista Pino Rauti nei suoi ranghi, mandandolo in Parlamento per garantirgli l’impunità; sottilmente denunciato l’uso auto-giustificatorio, da parte neo-fascista, e poi da parte della maggioranza che ha sdoganato e riciclato tutto, dai neo-fascisti ai piduisti ai mafiosi, della tesi “strage di Stato”, che è a lungo servita a scaricare su Nessuno – cioè sul “potere” – responsabilità penali e personali; accertata anche l’indubbia connivenza-indulgenza-passiva riscossione di vantaggi politici derivati, da parte dei governanti democristiani, da Mariano Rumor fino ad Andreotti; ridimensionata, anche per quanto riguarda Piazza Fontana, la responsabilità dei servizi segreti americani o della geopolitica e della guerra fredda – altre entità sfortunatamente troppo impersonali per poter essere utilmente imputate in sede giudiziaria. E qui si tocca con mano l’abitudine inveterata al ragionamento deresponsabilizzante: quel “tutto si decide altrove” che anche oggi imperversa nell’analisi del disastro italiano, oggi naturalmente con riferimento ai “poteri forti” dell’economia e della finanza e non più alla Cia, ma il meccanismo logico e la fallacia etica sono assai simili.

C’è anche una scoperta ulteriore, una scoperta “normativa”: che, come sempre avviene quando i fatti sono carichi di valori positivi e soprattutto negativi – trae dalla conoscenza dei fatti e dei valori una “lezione” su quello che dovremmo fare. Dalla prima all’ultima pagina questo libro indica la necessità inderogabile di una riflessione autocritica da parte di tutti noi, “discendenti” delle forze ideologiche in gioco e in lotta in quegli anni, insieme più spietati, apparentemente più feroci, e tuttavia meno disperati dei nostri anni, meno insensati o cinici (non un ombra di rimpianto, ciononostante) di quelli venuti dopo. Dopo Tangentopoli, dopo l’ultima fiammata di speranza che una qualche catarsi, che un po’ di verità e un po’ di giustizia fossero possibili. Non purtroppo rispetto ai fiumi di sangue versato prima, ma rispetto almeno alla corruzione profonda, non soltanto economica ma di costume e di mente, in cui agonizzava la democrazia italiana. Che oggi è in coma profondo, a quanto pare: un’immagine resterà di questa evidenza dell’oggi, particolarmente didascalica nella sua crudezza. I maiali a Roma, che si aggirano nell’immondizia distesa a cielo aperto.

Alcuni anzi vedranno il maggior merito di questo bel libro forse proprio in questo aspetto della nostra storia (chi meglio di Benedetta Tobagi poteva illuminarlo): la dimostrata impossibilità di ricostituire, con una memoria condivisa, una vita civile degna del nome, senza due condizioni. La prima è la ricerca e l’accertamento definitivo – ma anche l’insegnamento, la divulgazione – della verità storica dove non è più accertabile quella giudiziaria – e la verità storica non è più imprecisa, non ha meno di quella giudiziaria le facce e le azioni, le scelte e i pensieri o le omissioni e le rimozioni delle persone. Non è fatta di forze impersonali ma semmai di risposte personali a queste forze che l’agire intrecciato degli uomini provoca, oltre le loro intenzioni. La seconda condizione però è appunto, finalmente, la mai troppo tardiva disponibilità ad ascoltare le ragioni degli altri, di quelli che furono i “nemici”, magari dei padri: a riconoscere, anche, la parte d’ombra che in ogni appartenenza rinsaldata dall’opposizione a un “nemico” cresce, a mettere in questione la propria identità morale e politica, dove si creda di averne ancora una. Anche il credere di non averne più alcuna, del resto, è il risultato di rimozione e oblio, di ignoranza e menefreghismo, cioè di conti mai fatti col proprio passato: perché anche proprio è il passato del Paese in cui si vive, il passato degli sconciati paesaggi, delle ingiuste città che abitiamo.

Avrà ragione, chi vedrà in questa lezione il contributo più importante di questo libro. Ma in questi appunti io vorrei andare oltre questa lezione appresa – a quella ancora non appresa, che ancora cerco di formulare: che cosa, in profondità, posso imparare da questa ricerca? Che cos’è questo, che esemplifica in modo quasi lancinante (per un filosofo, per l’acuto sentimento delle proprie omissioni e rimozioni di filosofo) l’Idea di ricerca? Sì, questa parola, quasi ossessiva, continua a ritornarmi in mente, proprio come faceva durante la lettura di un libro uscito invece ormai molti anni fa, ma altrettanto importante e coinvolgente anche oggi, Il vizio della memoria di Gherardo Colombo: un uomo in ricerca, questo il pensiero che ad ogni pagina si levava in me, un pensiero che accennava a qualcosa di cercato oltre (ma non senza) la verità dei fatti e quella dei significati. Storia anche lì, la nostra storia. Ma oltre la nostra storia ancora qualcosa, qualcosa che per il momento riesco a dire con lo strano verso di Mario Luzi, che mi torna alla mente incongruamente: “e ancora/sopravanzano le cose i loro nomi”. Notate la perfetta ambiguità di questo verso. C’è un’eccedenza di senso non formulato nelle parole intelligenti che descrivono i fatti, i loro nessi, quando si tratta di azioni ed omissioni umane. Ma c’è anche un’eccedenza di realtà, fattuale e valoriale, che le cose hanno rispetto a quello che siamo finora riusciti a saperne e a dirne, e chiede di essere catturata in proposizioni, in immagini, in qualunque forma che ne faccia senso. Qualcosa che tutti possono percepire, e che è probabilmente all’origine della filosofia: di questa forse incongrua estrapolazione dell’interrogativo sull’umano, sulla sua essenza, da tutte le frasi che contengono domande, di questa ricerca di senso che assurdamente viene separata dalla ricerca sui fatti, ogni volta che la filosofia acquista, nelle diverse epoche, una sua tecnicità di lessico e di problemi. Come è difficile allora mantenere l’equilibrio fra definitezza concettuale e metodologica e contenuto vivo, come è difficile non scadere da un lato nel bizantinismo, e dall’altro nella tuttologia. Oggi siamo in uno di questi periodi. Parliamo di filosofia in inglese, come un tempo in latino, ma facciamo fatica a tenere insieme rigore e vita, capacità di dire qualcosa che possa anche essere confutato e capacità di parlare a tutte le persone che hanno a cuore il senso della vita propria e di quella associata, di incidere nella loro formazione, di tener viva la loro mente in ogni occasione problematica dell’esistenza. Perché una filosofia che rinunci alla vocazione socratica cos’è? A cosa serve?

Vorrei proporre un’ipotesi, che orienti il nostro pensiero in una direzione invece che in un’altra. Saremo ormai forse d’accordo che un libro di storia contemporanea, e così immerso come quello da cui siamo partiti nella questione tanto dolorosa e attuale della giustizia negata, dovrebbe sconcertare e risvegliare ogni filosofo proprio ricordandogli che dei fatti della storia non può disinteressarsi – anche se gli abusi della filosofia della storia, gli storicismi di ogni specie e i residui relativismi e determinismi che ancora allignano nella filosofia postmoderna spiegano gran parte della nostra diffidenza.

Ecco l’ipotesi: l’eccedenza di senso non formulato allo stato attuale della conoscenza e delle domande, la filosofia la raccoglie in questioni che non cercano la spiegazione di ciò che è accaduto, ma la giustificazione possibile delle azioni ed omissioni che stanno alla base dell’accaduto. Non voglio dire che non si possa cercare anche la spiegazione. Ma nella prospettiva di prima persona in cui il filosofo si colloca, questa ricerca non è molto diversa da un domandare agli altri le loro ragioni. Perché? A quale scopo? In vista di quale valore? Come si può, ad esempio, rubare o uccidere senza altro scopo che procurarsi denaro, come può ogni cosa che pareva mezzo – denaro, potere, partiti, istituzioni, economia, politica – diventare fine a se stesso e alle persone cui doveva semplicemente servire, in vista dei loro fini e valori?

Nel caso di Gherardo Colombo, mi fu subito chiaro su cosa verteva la ricerca – anche lì, con la storia di tutti sapientemente intrecciata con la sua, dove gli squarci di memoria dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza, ritmati dalla trasformazione dei paesaggi, dal tempo misteriosamente altro delle “vacanze” – danno lo spessore del tempo vissuto, della realtà – non quella del cronista o del giornalista, ma quella che i libri di vero respiro riescono a evocare, come fanno i romanzi e i poemi. La domanda che attraversa quelle pagine è una sola: unde malum? Troncata della sua premessa classica – si deus est – non è meno ardua, perché, Dio o no, la caratteristica più spiccata del male morale, di quello solo bieco, ladro e truffaldino, come di quello truculento e omicida, è l’inspiegabilità. Si usano di solito parole-mantra per spiegarlo, denaro e potere – ma sono pseudo-spiegazioni, precisamente perché non c’è niente di più insensato dei mezzi che diventano fini, e schiavizzano anche chi li persegue. L’agostiniano peccata enim quis intelligit? – resta ancora la formulazione più chiara dello status quaestionis, quello che da sempre induce i filosofi a rappresentarsi il male come non essere, niente, vuoto che divora.

Ma se la nostra ipotesi è corretta, ogni interrogazione essenzialmente filosofica, si trovi in un libro di memoria, di storia o di filosofia, si trova necessariamente a fare i conti con l’enigma del male, ogni volta che o nella misura in cui non riesce a trovare la giustificazione possibile di un’azione o di un’omissione. Così facendo scopre. Scopre sempre nuovi aspetti dell’ingiustificabile, e anche nuovi aspetti del giusto, che sono stati volati.

Anche Una stella incoronata di buio ha forse questa domanda – unde malum – come filo conduttore. Ma questa domanda prende qui una forma più specifica. Perché questo male così specifico di questo paese, la resistenza insormontabile alla scoperta e diffusione del vero – quando si tratta di riconoscimento di responsabilità? Dai vertici del potere politico a quelli del potere militare, alle organizzazioni politiche coinvolte agli uomini che hanno ideato e materialmente eseguito una strage: anche quando non rischiano più (perché non più giudicabili, o perché espatriati, o perché non personalmente ma solo indirettamente coinvolti): tutti coloro che potrebbero contribuire a questa forma fondamentale di giustizia che è l’accertamento della verità e delle responsabilità – non lo fanno, e al contrario contribuiscono tenacemente a rimuovere, occultare, distruggere ogni traccia. Tre gradi di processo, quarant’anni di indagini, di scoperte, la situazione internazionale e nazionale tanto cambiata – e infine, la sentenza definiva: assoluzione per tutti.

“L’amarezza è maggiore nel rendersi conto che né la caduta di un vincolo internazionale, né l’ondata di rinnovamento innescata dalla stagione di Mani pulite sono bastate a creare le condizioni perché si facesse piena luce sul passato. I vincoli resistono, caduto l’alibi dell’anticomunismo resta la determinazione di alcuni centri di potere a proteggere se stessi e la propria reputazione…. La percezione di un passato irredimibile che ritorna, senza possibilità di scampo, è soffocante” (378)

Una grande immagine improvvisamente apre uno squarcio di metafisica indifferenza quasi a illuminare beffardamente questa angoscia: l’affresco che decora la sommità della Torre dell’orologio in Piazza della Loggia, proprio al di sopra di una colonna scarnificata dalla bomba. Scoperta, notata alla fine di questa lunga ricerca: Saturno divoratore, con falce e clessidra. Il Tempo, che tutto cancella. Che tutto muta perché niente muti. Come fosse la sola risposta – già racchiusa, scopre l’autrice, nella tesi di laurea di Livia, la giovane insegnante morta nella strage, insieme agli amici del circolo politico e culturale cui apparteneva anche Manlio Milani, il marito sopravvissuto, che ha speso il resto della sua vita a cercare la verità sulla strage. Era una tesi sul Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, una tesi dunque che racchiudeva misteriosamente il senso desolato anche di questa storia, di tutta la nostra storia collettiva. Quando noi filosofi ne renderemo ragione? Perché è questa, da sempre, la nostra storia?

E poi un’altra immagine, quella finale. Filosoficamente, tutta questa ricerca si svolge all’ombra di una delle poche, grandi scoperte filosofiche del Novecento: il fenomeno del male banale, del male senza radici di coscienza, di rivolta, di luciferina perversione, un male che non è più quel “male radicale” la cui possibilità sembrava almeno condizione anche del bene, perché esercizio di libero arbitrio. Ma il male banale, ottusamente inconsapevole di sé, sembra fatto da mani di burattini, e tutto l’immenso sanguinoso teatro sembra un meccanismo di automi, senza burattinai. Chi sono, allora, questi automi spirituali? Perché così Leibniz chiamava gli uomini, la cui vita si svolge come girando sugli ingranaggi della loro oscura sostanza.

L’immagine viene dal Libro dei morti dell’antico Egitto, il manuale di istruzioni per l’anima dopo la morte.

“Accederà alla salvezza della vita eterna colui il cui cuore sarà più leggero di una piuma. Il cuore puro di un innocente, penso. Invece, mi sbaglio di grosso… L’orizzonte retributivo ebraico e l’immagine del Dio giudice capace di penetrare i segreti dell’anima del peccatore, anche se questi rifiuta ogni addebito di responsabilità, come fece per primo Caino nei confronti di suo fratello, sono di là da venire. Il tribunale delle anime egizio esibisce nella sua feroce nudità un meccanismo psicologico assai più realistico, e inquietante… Il cuore, infatti, leggo nei pannelli esplicativi, potrebbe parlare, ma la formula rituale del Libro dei morti garantisce che esso si tratterrà dal rivelare fatti che potrebbero compromettere il suo proprietario” (416).

Si tratterrà, dal rivelarli anche a se stesso. E qui intravedi un’ipotesi di ricerca che forse vede solo il filosofo, eppure spiegherebbe perché questo libro sembra sempre lì sul punto di offrirti – svoltate ancora poche pagine, una vera scoperta filosofica.

L’immagine del Dio giudice. O la rocca trascendentale della giustizia, l’inferno dantesco. La millenaria efficacia di questi Novissimi non dipende dalla loro realtà – ma dalla loro idealità. Sono l’Idea stessa della giustizia morale come verità finalmente rivelata e piena, e a tutti resa nota. “Universale”, il giudizio: di tutti i tempi, per ogni tempo, per ogni e qualunque coscienza. Ci eravamo abituati a credere che non ci sia bisogno di religione per vivere sotto la norma di questa idea – come facciamo anche solo per constatare quanto poco trovi applicazione, questa idea, perfino ai suoi livelli più basilari, quelli della giustizia penale. Ma un residuo di religione lo conserviamo ancora tutti, se crediamo che l’eredità ebraica o quella cristiana o quella kantiana, solo perché sono confluiti nella nostra storia, siano delle acquisizioni garantite anche per l’avvenire. Che le grandi scoperte di valore restino con noi, siano conservate nell’essenziale anche quando “superate”, è una forma di fede nella provvidenza, anche se in una provvidenza hegeliana più che cattolica.

Non c’è bisogno di aspettarsi il Giudizio Universale per credere che nessuna riconciliazione e ricostruzione di una memoria condivisa sarà mai possibile senza una forma di catarsi. Questo è vero, io credo, della storia italiana, ma dev’essere vero della storia delle comunità umane tutte, se l’immagine del Giudizio Universale serba ancora un senso. E io credo che oggi ne serbi uno, profondo, soprattutto in quanti di noi non credono affatto né che un Dio provveda nell’al di là né che un momento storico verrà in cui tutto sarà chiaro e giustizia sarà fatta.

Questa idea ha come corrispettivo quella della coscienza morale, cioè del giudice in noi – giudice non in quanto punisca, ma in quanto giudichi il vero, non lo ignori. Il cuore “non può” ignorare ciò che uno ha fatto – perfino Hannah Arendt pensa alla coscienza morale come all’impossibilità di convivere con un assassino – o con un ladro.

Hannah Arendt aveva riscoperto questo modo dell’ignorare che già Caino opponeva all’accusa di Dio, e ne aveva descritto la fenomenologia, riaprendo il dibattito sulla questione morale e sulla sua unità profonda con la questione politica, oltre la loro ovvia distinzione, su cui si reggono le democrazie. Il fatto è che le democrazie si reggono tanto su quell’ovvia distinzione, per la quale nessun legislatore può ergersi a giudice morale di un altro uomo, quanto su quella profonda unità – per la quale ogni democrazia degenera in qualcos’altro se le virtù della cittadinanza, che sono aspetti di moralità delle persone, non sono di continuo alimentate dall’interno, dall’anima di ciascuno dei “sovrani” – soprattutto di quello che don Milani chiamava “i sovrani di domani”.

Ma l’immagine del Tribunale dei morti dell’antico Egitto scuote l’ultimo residuo di fede nella provvidenza della storia. Credo che a tal punto sia indovinata, quell’immagine, perché dà forma a un dubbio muto: l’antico Egitto, siamo noi. Non c’è storia e memoria che tengano, non c’è progresso morale – se non c’è qui ed ora chi rinnovi, con l’esperienza del male subito, la cognizione del dolore, da cui quella del valore è inseparabile. L’idea di catarsi, e con essa l’idea del giudice in noi stessi, sono queste persone a tenerle in vita – non certo l’esserne culturalmente eredi. Dunque abbiamo una sola risorsa: l’ingiustizia sofferta o veduta infliggere, in quanto sappiamo trarne una più profonda conoscenza di cosa sia giustizia. Ogni lavoro, ogni pensiero, ogni ricerca in questa direzione è parte di una battaglia che si svolge in ogni presente. L’antico Egitto non è all’origine, è il fondo immobile dell’incoscienza sempre presente, con la quale in realtà ciascuno di noi può convivere. Forse il prossimo passo è capire che la parola “valori” è stata la maggiore vittima degli storicismi. Valore non è convinzione che si tramanda ma dato d’esperienza viva che chiede parola nuova, pensiero chiaro. La ricetta egizia non rivela soltanto “un meccanismo psicologico assai più realistico e inquietante” (415) degli imperativi kantiani. Indurre il proprio cuore all’omertà del silenzio è la vera formula dell’indifferenza. È il nome del fondo pre-umano al quale, con tutta la nostra scienza e la nostra tecnologia, rischiamo ogni giorno di tornare.

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2 commenti a Cos’è la ricerca in filosofia? Attorno all’ultimo libro di Benedetta Tobagi: Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita (Einaudi)

  1. sabato, 11 Gennaio, 2014 at 15:30

    A proposito di anni di piombo, o anni spezzati: anche noi ne abbiamo spesso parlato sul nostro Lab, e non solo qui sopra. Qualcuno forse ricorderà la discussione sul film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage, da cui prendemmo l’avvio per un libro a più mani, curato da Stefano Cardini, Piazza Fontana 43 anni dopo – Le verità di cui abbiamo bisogno (Mimesis 2012). In occasione di quel dibattito, pubblicammo molti interventi usciti su quel film, spesso sorprendentemente severi nei suoi confronti, a firma di giornalisti e intellettuali (soprattutto quelli che avevano vissuto in prima persona, e forse anche più che vissuto quegli eventi, ma c’erano anche recensori più giovani). Fra questi il pezzo di Marco Travaglio si segnalava come una delle poche eccezioni: apprezzava il film di Giordana, gli riconosceva un valore notevole proprio come contributo a una riflessione sulla verità storica – oltre che su quella giudiziaria – di cui abbiamo bisogno come del pane, come di una memoria che, per quanto dolorosa, possa essere condivisa.
    In questo stesso spirito trovo degno di riflessione l’articolo di Marco Travaglio pubblicato oggi (11/01/14) su Il Fatto Quotidiano, che costituisce una sorta di recensione critica a un altro film su quegli anni, una fiction televisiva recentemente andata in onda, “Il Commissario” (Calabresi). La si può già trovare in rete qui

    http://triskel182.wordpress.com/2014/01/11/il-suicidio-calabresi-marco-travaglio/

    – e a mio parere va proprio letta. E magari discussa.

  2. Matteo Pedrazzini
    domenica, 12 Gennaio, 2014 at 12:47

    Le riflessioni sui fatti più cruenti del secondo dopoguerra italiano e, nella fattispecie, sulle stragi che costellarono il periodo della cosiddetta strategia della tensione offrono ai lettori (quando non siano apologie di questa o di quella ideologia, di questo o di quel personaggio) due elementi diversi, ma complementari: da un lato una ricostruzione dei fatti, basata sulla consultazione di archivi e su testimonianze dirette, volta a rimuovere il più possibile la patina di oscurità che troppo spesso si è sedimentata su tali avvenimenti storici e a fornire quindi una versione dei fatti il più possibile scevra di segreti; dall’altro, pur essendo molteplici i livelli di fruizione di ciascuna opera letteraria, libri come quello di Benedetta Tobagi sulla strage di Brescia del 28 maggio 1974 danno l’idea di avere una caratteristica non comune a tutte le proposte della carta stampata: restare aperti anche dopo l’ultima pagina. Aperti ai sentimenti di rabbia e di impotenza di fronte ai progetti stragisti, di rispetto e di vicinanza verso coloro che, colpiti dalle traiettorie impazzite (ma calcolate) della Storia, si batterono, si battono e si batteranno sulle strade della verità giudiziaria e della verità storica di questi fatti. Ma libri aperti anche su domande alle quali non sempre si può dare risposta: quelle domande in cui la razionalità si scontra con la frontiera dell’imponderabile e dei segreti non ancora scoperti e dimostrati.
    L’indignazione dinnanzi a una strage è uno stato d’animo comune ai più, ma Benedetta Tobagi (e tanti come lei) ha reagito con l’azione a tale brutalità: ha scritto un libro che racconta, che spiega, che anima un dibattito e un confronto, di cui l’autrice fornisce un esempio, che si pone come un profondo esame di coscienza verso i pregiudizi che accompagnano ciascuno di noi, quando racconta la decisione di Manlio Milani (Presidente Associazione dei caduti di Piazza della Loggia) di accettare l’invito dei ragazzi di CasaPound di Brescia a un incontro:
    “Manlio si trova isolato, ma resta fermo nella sua decisione. Non ho bisogno di chiedergli perché. Gli ho sentito dire mille volte che per capire fino in fondo un periodo di amori e odio così folle – i ragazzi di sinistra e di destra si ammazzavano a vicenda per le strade – occorre mettersi in discussione in prima persona e guardare laicamente al proprio passato. Tutti devono fare questo sforzo.” (p.219)
    La sensazione più istintiva di fronte al diverso, “dell’altro da noi” è la paura, diffidenza: un’autodifesa ancestrale, ma sempre ben radicata nell’uomo. Se non si riesce a superare questo stato d’animo però i muri, materiali e immateriali, rimarranno alti e invalicabili; non è per niente facile mettersi in discussione, a maggior ragione quando questo processo chiama in causa le nostre idee, le nostre convinzione più profonde: entità astratte eppure dal notevole peso specifico nel nostro essere, nella formazione della nostra persona.
    Azar Nafisi, l’autrice di “Leggere Lolita a Teheran”, proponeva questa frase di Nabokov: “la curiosità è insubordinazione allo stato puro” (p.65), che può essere un valido punto di partenza per accostarsi a territori a noi alieni e ostili. Questa può essere una via per fare davvero i conti con un passato complicato e doloroso, che troppo spesso ci si illude di aver metabolizzato, mentre ci si è solo fermati a una superficiale comprensione, cercando risposte rassicuranti e interpretazioni dei fatti alle quali siamo abituati e che ci danno ragione. Certo l’ottusità e l’ignoranza sono agenti ostili sempre presenti, così come il revisionismo utilitaristico e mendace dei fatti, ma bisogna tentare: forse così si potrà guardare e vivere in modo diverso (e migliore) il nostro presente.
    In questo cammino non si può prescindere dall’istruzione: è nelle scuole che, ancora acerbi nel corpo e nella mente, ci formiamo; è qui che muoviamo i primi passi in campi prima sconosciuti o solo orecchiati, non ultimo quello delle idee e della coscienza politica e sociale. “Se dopo le bombe sono andato in giro a testimoniare, da subito, – riflette Manlio, – è perché sentivo di avere un compito da svolgere” (p.157): credo che questo debba diventare anche il compito di chi crede in uno sviluppo civile basato sulla conoscenza; credo inoltre che così facendo si potranno arginare pericolose derive che troppo spesso bussano alla porta della Storia e della società. La strada è quanto mai ripida, ma questa ricerca può portare delle conquiste di cui oggi si avverte la necessità.

    Matteo Pedrazzini

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