Un’altra modernità, un’altra Europa. Sull’appello di Massimo Cacciari

venerdì, 31 Agosto, 2018
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Se l’appello di Massimo Cacciari ed altri dovesse essere interpretato riduttivamente e alla fine risolversi nella scelta alternativa far Macron e Orban, credo che non potremmo nutrire (almeno in Italia) speranze su un esito positivo del voto per il Parlamento europeo. Perché l’elettorato già si è espresso il 4 marzo su un’alternativa così composta. Fra chi proponeva cioè dosi ancora maggiori di quello che passa il convento Europa e chi proponeva di cambiare tutto. Dal governo Monti in poi stiamo sperimentando questa Europa e questo modello economico: a dosi rafforzate. Va bene così, bisogna continuare su questa strada? Per parte sua l’elettorato ha già risposto. E io, da europeista convinto, dico di no. Penso anche che l’appello di Cacciari – se lo si vuole interpretare in modo da avere senso e forza persuasiva – ci indichi la necessità di un pensiero nuovo, diverso sull’Europa. O meglio indichi la necessità di ripensare l’Europa.

Peraltro questo sarebbe il momento più adatto per farlo. Per elaborare un pensiero politico rivolto all’Europa – meglio, alla Ue – ai suoi organismi, al suo funzionamento. È questo infatti l’anno in cui si discute di riforma della sua governance, di come modificare le sue istituzioni, si fanno ipotesi su Ministri delle Finanze europei e così via… la Commissione ha formulato delle ipotesi che sono state sottoposte al Consiglio, circolano studi informali (cioè non impegnativi per i governi) di parte francese e tedesca. Il precedente governo italiano aveva formulato a sua volta osservazioni e proposte.

Si sta discutendo di metodo intergovernativo e metodo federale: se cioè privilegiare un modo di procedere che richiede il consenso dei singoli governi, o di devolvere poteri e decisioni a organismi sovranazionali. O un mix dei due. Sono due europeismi diversi. Tecnicismi? Non credo. Cose che riguardano concretamente come si risponde ai problemi dell’economia, del lavoro ecc… che riguardano l’efficacia delle risposte. Cose da cui dipende per esempio il gradimento e il consenso dei cittadini verso l’Europa. A dieci anni dalla peggiore crisi economica che si sia mai manifestata, è lecito chiedersi come è andata e se non c’è qualcosa da modificare? Se tutte le misure previste per affrontare la crisi hanno funzionato?

Prendiamo ad esempio la Grecia: abbiamo festeggiato la fine delle misure imposte dalla Troika (BCE, Commissione, FMI), ma come sta il Paese? La “cura” imposta dai creditori non è certo stata nell’interesse dei greci. E non si può nemmeno dire che le sofferenze patite abbiano però dischiuso la possibilità di un maggior benessere nel medio o lungo periodo (uno scambio fra sacrifici oggi e più crescita domani). È più vero dire che la recessione indotta dalle misure di austerità abbia aggravato le condizioni già precarie dell’economia, mettendo una seria ipoteca sulle possibilità di crescita futura. La crisi prima e la recessione poi, hanno distrutto capitale fisico e umano, rendendo ancor più precarie le condizioni della struttura economica di quel Paese. In più, se il rigore di bilancio era l’obiettivo, questo non è stato raggiunto. Che lezione vogliamo trarre da questo? Va bene così? È questo il patto che proponiamo ai cittadini quando parliamo di Europa?

La Sinistra dovrebbe occuparsi di questo? E c’è uno spazio per la sinistra per dire che l’alternativa non è fra questa Europa e l’uscita dall’euro? Cioè che esiste un altro modo di concepire l’Europa dove sono possibili la promozione dei diritti sociali, equità e giustizia sociale, la riduzione delle diseguaglianze? Secondo me sì.

Gli appelli all’Europa e all’europeismo, pur nobili, non ci servono se restano delle enunciazioni di principi o evocazioni dei padri fondatori. Non voglio essere ingeneroso: e non sottovaluto i 70 anni di pace vissuti nel Continente che ha scatenato due guerre mondiali. Dico però che se si vuole vincere la battaglia europeista occorrerà arrivare con idee molto chiare quando cominceranno le battaglie sulla riforma della governance europea, sul completamento della Unione bancaria, sui mandati della BCE (e pensiamola nella mani di un tedesco della Buba…) ecc…

Ci sono vie di riforma credibili e percorribili, se solo le si vuole vedere. Oggi gli elementi per un rinnovamento delle politiche e delle istituzioni ci sono tutti. Sono ormai ampiamente dispiegati sul terreno. L’Unione Europea, le sue istituzioni, riflettono ampiamente una visione neoliberale dell’economia (quella che si può studiare nei manuali di Blanchard, per intenderci) e incarnano interessi molto concreti di soggetti economici che collaborano alla formazione del consenso verso questa visione. Di fronte alla crisi, questa visione si è tradotta in due ricette: austerità e riforme strutturali. Sono ricette che hanno funzionato? (So che a questo punto qualcuno dirà: non ne abbiamo somministrata abbastanza di questa medicina! Pazienza) oggi, fortunatamente, sono disponibili ampie base dati e ampie elaborazioni teoriche (promosse anche dal FMI e dall’OCSE) che mettono seriamente  in crisi questa visione. C’è dunque uno spazio, molto ampio, per poter ripensare a un intervento dello Stato in economia (non sto parlando delle nazionalizzazioni); della politica economica; del ruolo della spesa pubblica negli investimenti ecc… strumenti (keynesiani) che sono stati abbandonati in questi anni perché nella visione ortodossa non c’era posto per lo Stato, se non ai margini, come arbitro e garante del buon funzionamento del mercato.

Ma oggi, dopo che abbiamo sperimentato ricette inusuali, “navigato in acque sconosciute” forzando la politica monetaria all’inverosimile, portando al limite il mandato delle banche centrali: dopo che abbiamo verificato il fallimento delle ricette di austerità e dei dogmi neoliberali; oggi lo spazio per un pensiero diverso si è aperto e bisogna saperlo cogliere.

Ma in che direzione spingere questo pensiero diverso? Dipende dai problemi che decidiamo di porci. A mio avviso, La sinistra dovrebbe ripartire da alcuni interrogativi di fondo: le diseguaglianze, il lavoro. Mai come in questo periodo lo sviluppo capitalistico ha generato diseguaglianze (se ne parla in modo molto promettente sul forumdiversitàediseguaglianze.com) nella distribuzione del reddito e della ricchezza, e ha generato disoccupazione, soprattutto giovanile. Risposte da sinistra seriamente impegnate ad affrontare questi due temi non ce ne sono state (salvo qualcuno che ha pensato che il conflitto redistributivo venisse risolto in maniera efficiente dal mercato) Questo spiega la distanza dell’elettorato dei partiti di sinistra dalla tradizionale costituency: e come questa si sia rivolta altrove (non indico le numerose indagini, dall’Istituto Cattaneo, alla Luiss, passando per Ilvo Diamanti, che hanno fotografato il fenomeno).

C’è un punto, in particolare, dove la sinistra ha sbagliato mira ed è la riforma del mercato del lavoro e degli istituti giuridici che lo regolano. Non è solo questione del Jobs Act. La flessibilizzazione del mercato del lavoro è un dogma del pensiero liberale, ed è diventata un imperativo dopo l’introduzione della moneta unica. Fa parte delle “riforme strutturali” e dei “compiti a casa”. Si è invocata per anni la cosiddetta flexycurity e ritenuto che le  politiche attive avessero il potere di restituire sul mercato le garanzie che sul posto di lavoro venivano tolte. Non è andata così, oggi lo si può onestamente ammettere. Indebolire il lavoro, ridurre il potere contrattuale dei lavoratori e dei sindacati ha semplicemente favorito una distribuzione più iniqua del reddito e del potere economico. Puntare sulla disintermediazione, cioè sull’annullamento del ruolo dei corpi intermedi, non rafforza la società e non favorisce la coesione sociale.

Infine, non ho compreso il riferimento polemico che la Prof. De Monticelli fa alla concertazione. La concertazione è una pratica di negoziazione trilaterale (Governo e Parti sociali) che ha avuto corso per un periodo non lungo nel nostro paese e in diversi paesi europei. Per intenderci è quella che ha dato luogo all’accordo del 23 luglio del 1993 – accordo che ha consentito all’Italia di entrare in Europa, centrando gli obiettivi economici imposti (bilancio, debito pubblico, inflazione). In quell’accordo le parti – dotate di autorevolezza, forte rappresentatività e soprattutto di credibilità (questo valeva soprattutto per i sindacati, meno per la parte politica, salvo alcune personalità indiscusse come Ciampi) – condividevano alcuni obiettivi macroeconomici e mettevano a disposizione risorse in vista di un bene comune. In questo modo il sindacato ha dimostrato di giocare un ruolo oltre la difesa stretta degli interessi degli associati e di guardare anche ad interessi generali. Questo metodo non ha avuto una lunga applicazione e già verso la fine degli anni 90 era dismesso (i primi anni 2000 sperimentarono invece la pratica degli accordi separati): dubito che il Segretario della CGIL possa rimpiangerlo amaramente.

Non comprendo le ragioni dell’accostamento a “pratiche opache“ e cosa esattamente si voglia imputare a questo metodo. Peraltro, Jacques Delors per tentare di dare una più spiccata dimensione sociale all’Europa, tentò in ogni modo di introdurre forme di concertazione a livello sovranazionale, riuscendovi solo in parte. Infatti arrivò a istituire la pratica (formalizzandola in una direttiva) del “dialogo sociale”, una modalità partecipativa molto più scarna ma che partiva da una concezione positiva del ruolo delle organizzazioni intermedie. E della necessità di accompagnare l’integrazione europea da processi spinti dal basso, attraverso il metodo del dialogo confra le organizzazioni di rappresentanza: imprenditoriali e dei lavoratori. Egli era convinto che la riuscita del Mercato Unico dipendeva in modo importante dal grado di partecipazione delle parti sociali. Era convinto cioè che occorresse dare una dimensione sociale più spinta a processi che altrimenti sarebbero stati guidati solo ed esclusivamente dall’economia. A mio parere, Jacques Delors andrebbe tenuto fra i buoni riferimenti per ricostruire un pensiero europeista, non lo rottamerei, diciamo.

 

 

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