L’importanza filosofica di arrivare ultimi. Ripensando a Giovanni Piana

giovedì, 28 Febbraio, 2019
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Sebbene negli ultimi anni ci avesse ormai abituati a chiamarlo Giovanni, per molti di noi era e resterà “il Professor Piana”. E così lo vogliamo ricordare oggi, il giorno dopo la sua improvvisa scomparsa. Altri meglio di noi ne ricorderanno i meriti scientifici: allievi importanti, che con lui hanno condiviso quotidianamente anni di insegnamento e di ricerca nel Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Pensiamo a Elio Franzini, Paolo Spinicci, Carlo Serra, Vincenzo Costa, per limitarci ai nomi di coloro con i quali alcuni di noi svolsero negli anni Novanta il loro apprendistato filosofico.

Dalle pagine del Phenomenology Lab, invece, vorremmo limitarci a un ricordo più laterale e più personale insieme, che tuttavia può forse illuminare un aspetto dell’avventura intellettuale di Giovanni Piana non del tutto scontato: la gratitudine filosofica che ha saputo suscitare, anche ben oltre la sua consapevolezza.

Dieci anni fa chi scrive lavorava da tempo come giornalista all’Arnoldo Mondadori Editore, lontanissimo ormai da ogni consesso accademico. Un giorno, tra un’intervista a un cantante e un’inchiesta sugli sversamenti tossici nel Golfo di Augusta, lesse su Avvenire un articolo fiammeggiante di una certa Roberta De Monticelli a proposito della scarsa passione per la verità di Martin Heidegger. Condividendone lo spirito, mosso da oscure motivazioni, decise di scriverle, suggerendo qualche probabilmente inappropriato parallelismo con Carl Schmitt, certo in ogni caso che mai avrebbe ottenuto risposta. Pochi giorni dopo, invece, la risposta arrivò, trasformandosi ben presto in un breve carteggio a un certo punto del quale la fino ad allora sconosciuta autrice dell’articolo di giornale lasciò cadere sul suo ancor più sconosciuto corrispondente la domanda: “Scusi, ma lei con chi ha studiato?”. E alla risposta “Con Giovanni Piana”, ogni cosa divenne d’improvviso illuminata.

Fu così che i due corrispondenti s’incontrarono di persona, in occasione dei seminari presso la cattedra di Filosofia (Teoretica) della Persona dell’Università Vita-Salute, insieme a Francesca De Vecchi e, se ben ricordiamo, gli allora dottorandi Anna Bortolan, Emanuele Caminada, Barbara Malvestiti, Lodovica Zanet. Questione di mesi, e attorno al neonato Centro di ricerca Persona nacque l’idea di una community fenomenologica, il Phenomenology Lab, di una rivista digitale di fenomenologia, filosofia della mente e scienze cognitive, Phenomenology and Mind, e di una International School dedicata agli stessi temi. Iniziammo nel gennaio del 2010 con la Winter School dedicata al libro di Dan Zahavi e Shaun Gallagher The Phenomenological Mind. Proseguimmo l’anno successivo con una Summer School dedicata a Making the Social World di John Searle. E ancora si procede, grazie all’impegno di Francesca Forlè, Sara Songhorian, Bianca Bellini e altri amici che si sono aggiunti lungo la strada.

Ecco, non credo di esagerare nel dire che senza Giovanni Piana, questa nostra minuscola ma almeno per noi preziosa storia filosofica non sarebbe stata concepita. Non perché lui ne sapesse allora qualcosa. Anzi, lungimirante, sensibile e competente sulle tecnologie digitali, avrebbe probabilmente suggerito ben altro rispetto a quello che siamo riusciti a realizzare noi. Ma perché lo stile filosofico di Piana rappresentava il centro di gravità attorno al quale tendevamo a condensare gran parte di quello che di eccellente la fenomenologia italiana aveva fatto, convinti che i suoi meriti, in Italia e all’estero, non fossero stati ancora adeguatamente riconosciuti. L’elegante trasparenza della scrittura, anzitutto, capace di enucleare i problemi più complessi in modi così semplici da suscitare nel lettore l’illusione di poter fare altrettanto. Illusione altamente benefica, perché spronava continuamente a ricercare un ideale del discorso filosofico realmente cristallino. La varietà e originalità dei suoi interessi intellettuali; mai disgiunti, tuttavia, dalla capacità di focalizzare con rigore i temi che trattava bilanciandoli attentamente con la tensione verso un ideale della filosofia, comunque, mai, mai angusto. Diversamente distante, ma distante, tanto dalla “svolta linguistica” analitica quanto da quella ermeneutica, nei sui rari ma entusiasmanti interventi pubblici, colpiva per la serietà calma e profonda, con quel suo ricorrente invito, citando Wittgenstein, a non avere fretta.

La fenomenologia non tollera scorciatoie.

E allora non per caso, forse, proprio il Phenomenology Lab divenne a un dato momento anche l’occasione per molti di riallacciare rapporti personali con lui, da tempo ormai libero dai suoi carichi accademici, ma ancora intellettualmente attivissimo e fecondissimo. Accadde, per esempio, in occasione di nostre recensioni di alcune sue più recenti opere, alle quali dedicammo un’attenzione che egli ricambiò con la serietà critica e costruttiva che lo contraddistingueva.

Era nostra intenzione fare di più. Da tempo ne discutevamo. Ci contiamo ancora.

Stefano Cardini

per il

Centro di ricerca PERSONA e il Phenomenology Lab

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