Lettere da Parigi, IV – Riflessioni sulla vastità e l’angustia

mercoledì, 20 Novembre, 2019
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Parigi può insinuarti dentro anche questo: l’esigenza di una sostanziale correzione di rotta da apportare alla visuale eurocentrica dei nostri studi. Quella che, già nel mezzo del secolo scorso, operò l’antropologia culturale, che ben al di là dei suoi contestabili esiti dottrinali (un incoerente relativismo assiologico, un umanismo tanto più disperato quanto più sostanzialmente nichilista, quale si desume dalle ultime, pur splendide pagine di Tristi Tropici (1955)). Questa grande avventura intellettuale – grande a dispetto del poco che ne resta di dottrinale, disseminato poi e ripullulato nella buia foresta filosofica dei postmoderni – è semplicemente un pezzo della storia mondiale, perché fra l’altro è il modo in cui se ne prese coscienza: la devastazione del mondo coloniale e la decolonizzazione al tempo del suo pieno, vario e disparato accadere.

Tristi Tropici, questa grandiosa Odissea senza ritorno, ma anche una semplice passeggiata per Parigi, fanno luce sul gigantismo (a volte anche invidiabile) delle Istituzioni di quei paesi che sono state potenze nei secoli coloniali. Le dimensioni dei palazzi del potere e della finanza, dei musei, dei grandi viali e degli archi di trionfo, ma anche delle istituzioni scientifiche, culturali, universitarie. C’è l’aspetto superbo, a volte intollerabilmente burbanzoso della grandeur, certo, e può anche essercene la dissimulata violenza e l’arbitrio geometrizzato: l’enormità dello spazio occupato. Ma c’è anche il respiro dell’ampiezza. C’è l’esperienza, la memoria, l’immaginario dei grandi viaggi di scoperta. C’è la conoscenza dell’umano nella sua diversità, grandezza e miseria. C’è il respiro dei continenti, l’avventura, la scoperta, la vertigine stressa della conoscenza. C’è tutta la crudeltà e l’audacia di ciò che qui hanno chiamato la Modernità. Delle azioni e delle imprese dei suoi protagonisti, non solo dei pensieri e dei canti dei suoi cantori. C’è, come in filigrana, il vero fondamento della figura del Funzionario, del grand commis, perfino, certe volte, del professore: e questo fondamento e radice del Funzionario è la sua controfigura: l’Avventuriero.

(Quanta luce nuova ne viene sull’inversa e corrispondente audacia, sull’ambizione interiore e la grandezza morale, oltre che sul coraggio innovativo della terza figura che su entrambe si leva, spettrale sì ma solo perché fu strangolato e sepolto nell’irrilevanza il pensiero di chi la portava: l’husserliana figura del filosofo, il “Funzionario dell’umanità”. Il Cavaliere ignoto dei “grandi edificatori” (l’espressione è di Altiero Spinelli), degli umanisti costruttori di democrazie sovranazionali e di universalismo cosmopolitico, che hanno comunque, a loro volta, contribuito a incarnare in grandi istituzioni normative qualche scintilla di Ragion Pratica: e la bellezza del loro progetto, del resto il solo ideale che ci resta, è ancora visibile anche a Parigi, nella Maison  de l’Unesco di Place de Fontenois, soprattutto lo Spazio di Meditazione di Tadao Ando e il giardino giapponese che lo circonda).

Ma dicevamo dell’Avventuriero, invece. E’ strano, ma forse vero per molti e non solo per me. Quella vastità di orizzonti, quel vero significato di Faust  – che il genio provinciale di Goethe ha pur sempre ridotto nella misura dell’incantatore, del mago e dell’erudito inizialmente sepolto fra le ragnatele e la polvere dei suoi libri,  insomma del letterato – la percepisci assai di più dal cuore d’Europa che dai ponti di Manhattan. Perché qui è virtuale e non solo reale, mista d’esprit  e memoria, carica di storia. Là è eminentemente fisica e geografica.

Due pensieri autobiografici si intrecciano a queste passeggiate immerse nella vastità. Uno può forse rientrare nell’orizzonte di tutti noi. Può dar nome alla debolezza, all’asfitticità, all’angoscia della condizione italiana. Questo nome è angustia. Nel bene e nel male, proprio nella modernità noi siamo rimasti esclusi da questo enorme ampliamento di visuale dell’umano che è stata la rapina dei continenti. Paradossalmente, lo sguardo lungo e largo l’avemmo prima, quando erano ancora da scoprire i fondamentali di quell’uomo che diede il nome all’idea di umanesimo: quando ancora il giovane frate allievo di Galileo restava accorato dalla sparizione di quel Dio che non ci guarda più dalle travi del soffitto, quando quell’idea lottava ancora per liberarsi dalla tutela del Padreterno. Forse più che Marco Polo e Matteo Ricci il nostro esploratore prototipico rimane Galileo: occupato a definire i fondamentali appunto, la misura vera del cosmo, rispetto alla sua configurazione dantesca, in mente dei (“E questo cielo non ha altro dove /che la mente divina, in che s’accende/l’amor che ‘l volge e la virtù ch’ ei piove…”). Ma poi cademmo fra i vinti, e non potendo offrire vastità di terre e masse di schiavi, fummo ridotti a fare i lacché del mondo “civile” che irrompeva ovunque e conquistava tutto lo spazio. Cuochi e cocchieri – ce ne sono ancora tanti di noi per il mondo. Ce ne rimase la torsione dello sguardo – dal basso, o sul ventre, dagli angoli delle dispense, obliquo, occupato di mezzi e non di fini. Ce ne rimase il calcolo, la diffidenza, la mancanza di ambizione nel pensiero, la tendenza a camminare con gli occhi rivolti all’indietro, un po’ per consolarsi e un po’ per non guardare in faccia il vero, una psicologia da bottegai e uno snobismo da maggiordomi.

Questo pensiero – ammetto, d’umor nero e fantastico, ma non così lontano dal vero, sarà forse venuto o potrebbe venire a tutti quelli che dell’angustia dell’esser nostro soffrono, e soprattutto di quella del futuro concesso ai nostri figli e nipoti – anche perché lì i rapinatori siamo stati noi: come sempre il debole se la prende con chi lo è ancora di più.  Ma dentro a questo pensiero ne nasce un secondo, legato a un ricordo che ora mi sembra tutto mio – eppure potrebbe anch’esso esser di molti.

Io questa vastità negata, quest’avvincente, favolosa avventura dell’antropologia l’avevo già vissuta tutta, con il coinvolgimento ancora più profondo e avvolgente che è proprio dell’immaginazione nell’infanzia. Nella mia infantile misura, l’avevo vissuta con passione e con assoluta serietà. Furono le opere complete di Jules Verne, i miei Tristi Tropici.

 

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