Paideia e Stato di diritto – di Giuseppe Cappello

giovedì, 28 Maggio, 2020
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Ricordo come una volta, a lezione, Gennaro Sasso disse che Hans Kelsen era l’unico che nel Novecento aveva capito e interpretato il pensiero e l’opera di Kant. Sasso amava le iperbole, le assolutizzazioni, le provocazioni come quella per cui, sempre a lezione, lo ascoltai dire che l’unico momento speculativo di tutta cultura anglosassone era quello risolto nel termine ‘without’; era agli occhi di quel corrosivo docente universitario l’unico momento in cui gli inglesi mostravano l’intendimento dialettico della realtà; lo mostravano perché almeno in quel termine, diceva Sasso sarcasticamente, avevano la consapevolezza che l’assenza implica una presenza. L’aneddotica sulle lezioni sassiane è ricca e anche leggendaria alla facoltà di filosofia dell’Università di Roma. Dovrei dire, oggi, dell’Università «La Sapienza» di Roma. Sennonché i discorsi di Sasso, pur ispidi nell’esterno come quelle figure dei sileni che invoca Alcibiade nel Simposio platonico, celavano spesso, come i discorsi silenici socratici, sempre un intendimento. Un nous, per dirlo nella lingua di Alcibiade. E’ una cosa che ho imparato a capire con il tempo. Prendevo in effetti, al contrario di come forse può avvenire, con le molle, da studente, queste battute che mi facevano certamente sorridere e anche andare fiero di essere un uditore di quelle lezioni; e invece, andando avanti nel tempo, ho capito che nei discorsi di Sasso, anche quando sembravano i più ispidi, c’è stato sempre un intendimento, un nous. Certamente, se vogliamo anche scontare la battuta del ‘without’, ho sempre più meditato su quella affermazione e sul suo nucleo noetico per cui il più grande lettore e interprete di Kant sia stato Hans Kelsen. L’ho sempre più meditato fino ad arrivare a pensare che in fondo l’intera filosofia di Kant sia una filosofia del diritto; dall’indagine epistemologica su quali siano le condizioni entro le quali la ragione teoretica possa avanzare la pretesa di legittimare le sue conoscenze fino più specificamente alla teoria kantiana di come si debba intendere, nella filosofia politica, lo Stato. Sarebbe una bella ricerca quella di pensare come lo spirito di Kant sia uno spirito giuridico che si innalza fino alle speculazioni della ragione pura piuttosto che uno spirito epistemologico che discende poi alla teoria dello stato di diritto. Certamente non si può sfuggire alla evidenza testuale che la Critica della ragion pura  ha l’idea di fondo di portare la ragione di fronte al tribunale della ragione stessa. Ed è in questo spirito che Kant si muove fino ad arrivare a quella che forse è la visione che più ha resistito al tempo. Proprio quella  visione per cui la regola imperativa di ogni cittadino è stata così formulata dal filosofo di Koenigsberg: «Agisci esternamente in modo tale che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con quello di ogni altro sotto una legge universale».

In un precedente articolo che questo laboratorio ha voluto gentilmente ospitare abbiamo affrontato il tema di un’arcontica dello Stato di diritto che, il filosofo che più a fondo ha studiato a sua volta Kelsen, Norberto Bobbio, ha indicato come il principio ultimo dell’emancipazione del genere umano. Lo abbiamo affrontato in una triangolazione di punti di vista in cui lo stesso punto di vista di Bobbio si è misurato con la fenomenologia di Paci e con quella originaria di Husserl. E siamo giunti alla riflessione di Bobbio per cui se Husserl affida l’emancipazione del genere umano a una «arcontica della della comunità dei filosofi», il fenomenologo Paci non riesce a stare fermo all’acquisizione di Husserl ma l’altra fonte del suo pensiero, il marxismo, lo induce a pensare che l’arcontica della emancipazione del genere umano è «l’arcontica della comunità dei proletari». Probabilmente Paci non riesce a stare fermo all’arcontica teoretica di Husserl perché in lui la conciliazione fra la fenomenologia e il marxismo si inclina e si incrina in favore del marxismo. E si inclina in favore del marxismo perché probabilmente, come scrive Bobbio, «l’integrazione che il marxismo offre alla fenomenologia sembra necessaria, se si guarda il fine cui Paci mira, che è quello di sorprendere una crisi sociale, di un certo tipo di società, dietro la crisi delle scienze». Il rapporto di Paci con la fenomenologia tanto si inclina verso Marx quanto in questo inclinamento pesa lo stesso storicismo hegeliano. E, dal canto suo, Bobbio, che in questa triangolazione dell’eccellenza del pensiero certo invece non indugia, prima ancora che a inclinazioni marxiste, a inclinazioni hegeliane, scrive: «Non si tratta di rinunciare alla funzione arcontica della filosofia, ma di concepire diversamente l’arché, cioè di scegliere l’arché propria del cosiddetto ‘Stato di diritto’, che non si propone altro che di permettere la coesistenza delle infinite vie che ciascuno persegue secondo il proprio talento, verso il proprio telos».

Ora, se Paci poteva confutare, a torto o a ragione, Husserl nel segno dello storicismo hegelo-marxiano una certa critica hegeliana si può riproporre a Bobbio dove la sua filiazione è quella con Kant. Un altro eminentissimo studioso del pensiero di Kant, pur nel difendere Kant, non si è sottratto al problema che la formulazione dell’imperativo categorico e la sua traduzione nel principio giuridico secondo cui bisogna agire con la consapevolezza che il libero uso del proprio arbitrio individuale possa coesistere con quello di ogni altro individuo sotto una legge universale, possono porre. Scrive Piero Martinetti nei suoi Saggi e discorsi del 1926 e specificamente nel saggio intitolato Sul formalismo della morale kantiana: «Non è possibile, si dice, imporre un ordine, una forma razionale alla vita senza prefiggere nello stesso tempo in via essenziale un determinato fine, una materia del volere che, come tale, non è deducibile a priori dalla ragione. Quindi anche il preteso principio formale da Kant enunciato implica un fine materiale». Non staremo a discutere in termini di critica filosofica come risolve la questione Martinetti. Qui ci basti dire che l’esigenza di non trincerarsi di fronte ai rilievi dei critici del formalismo kantiano è un problema. Un problema che innanzitutto e soprattutto può rilanciare la palla nel campo avversario come l’avrebbe rilanciata Kant ovvero con l’argomentazione che vincolare la morale e il diritto a un elemento storico inficia la possibilità di individuare uno stesso principio universale della morale. Un principio che valga in ogni tempo e in ogni luogo. E abbiamo visto proprio nella storia come principi della condotta umana che si siano risolti in contenuti altri dallo Stato di diritto abbiano fatto il loro corso particolare e si siano in qualche modo, se non esauriti, consumati. Pensiamo proprio all’arcontica della comunità dei proletari perlomeno come essa si era realmente posta in movimento nella storia. Fu lo stesso Enrico Berlinguer che, nella consapevolezza della tensione fra il principio ed il tempo e in una irriducibile serietà e severità dell’impegno, nel 1981 affermò come si dovesse pensare come esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre. Con il che Berlinguer non abbandonava il marxismo ma ne invocava e ricercava una nuova declinazione. Poniamo dunque anche che Kant, e con lui lo stesso Bobbio, possa rispedire con forza nel campo altrui la palla di quello che nel campo altrui è stato individuato come elemento di debolezza. Ciò che viene individuato come elemento di criticità dei principi pratici morali e giuridici kantiani è, al contrario, proprio l’elemento di forza dentro cui Kant pensò quei principi.

In realtà, accettare l’imperativo di agire esternamente in modo che il proprio arbitrio possa accordarsi con l’arbitrio altrui secondo il principio di una legislazione universale, impegna comunque in qualche modo a irrorare il formalismo dell’arcontica dello Stato di diritto con una visione della società. O, meglio, impegna a trovare un orizzonte in cui il formalismo e un certo contenuto o esercizio universale possano essere coniugati. Come si può rispondere infatti oggi ai populismi che altro non sono se non la declinazione triviale, propria del nostro tempo, di un attacco al formalismo dello ‘Stato di diritto’ e dunque alle democrazie liberali nazionali e al progetto di una stessa democrazia liberale che s’innalzi al livello delle istituzioni europee? La risposta che ci sentiamo di avanzare nel segno di quella che è «l’arcontica della comunità dei filosofi» sostenuta da Husserl è quella di un ritorno alle origini della filosofia stessa. Di un ritorno a Socrate. Ma anche di un ritorno, con lui, all’Atene del V secolo a.C. Quella comunità in cui la comunità dei filosofi non si realizzò in maniera elitaria ma come esperienza di un popolo. E potette realizzarsi come esperienza di un popolo solo perché in quella che fu la prima democrazia che il mondo abbia conosciuto circolava la linfa vitale della paideia. Della formazione del cittadino. Qui probabilmente sta la conciliazione di forma e contenuto. Che nella democrazia ateniese avvenne grazie alla preoccupazione di fare della città attica «un esempio di formazione (paideia) della Grecia intera». E quanto l’esercizio della filosofia fosse coniugato ad Atene con quello che Kant avrebbe più avanti chiamato «regno dei fini» lo possiamo intendere se bene intendiamo il valore non solo formale ma sostanziale del dialogare socratico. Scrive in proposito Guido Calogero, che rende peraltro pure una giustizia parziale all’opera educatrice della prima sofistica: «come il persuadere protagoreo e gorgiano risponde allo spirito liberale della costituzione ateniese nella sua antitesi al violentare (biazesthai) tirannico, così il conversare socratico rappresenta ancora un passo ulteriore nel riconoscimento del diritto dell’individuo, che sarebbe umiliato anche se fosse soltanto persuaso, e non collaborasse personalmente alla ricerca dialogica della verità» . Il dialogare socratico non è solo un metodo della ricerca ma un modo di intendere i rapporti fra gli uomini; quel modo in cui la filosofia teoretica e la filosofia etico-politica stanno insieme. Sono l’una nell’altra o, meglio, l’una l’altra.

Così per venire ai nostri giorni e al moderno ‘Stato di diritto’ con le sue difficoltà tutte contemporanee sia nella difesa della democrazia liberale nazionale che in quella della costruzione del progetto di una vera e propria democrazia liberale europea non possiamo non pensare che il ruolo della paideia, della formazione dei giovani, sia decisiva. E sia decisiva soprattutto la ricostruzione di una formazione che, al di là dei formalismi, che oggi sono divenuti burocraticismi, ritorni appunto a una scuola dei contenuti. Chi vive oggi la scuola non fa fatica a vedere come la tecnocrazia di cui si accusa l’Europa si risolve esattamente in una visione tutta tecnoburocratica dell’insegnamento-apprendimento in cui gli insegnanti sono sempre più ridotti a meri impiegati di fatto che ad altro non servono che portare in giro i ragazzi dentro una babele di improbabili progetti  extracurricolari e di altrettanto improbabili soggetti extrascolastici fra cui ogni energia della mente si perde e con essa ogni esercizio alla cittadinanza democratica. In questo senso, vivendo la scuola, mi permetto di dire che su questo ho scritto molto ma anche che molto ho letto. E le parole migliori che possano dare testimonianza a questa crisi in cui versa la scuola, esercizio vitale immanente (fra il latino e il greco, la matematica e la fisica, le scienze e la letteratura) dello stesso Stato di diritto, le ho trovate in una testimonianza di Salvatore Settis che è apparsa sul Fatto Quotidiano del 15 marzo 2018. Scrive Settis: «Ci sono sempre stati buoni maestri, quelli che praticano con passione e impegno il proprio mestiere e sanno comunicare ai giovani curiosità, interesse, entusiasmo; e ci sono sempre stati cattivi maestri, scontenti di sé, insicuri, incapaci di dialogare e di suscitare attenzione. Ma quel che stimola ogni trasmissione di conoscenza è l’appassionata pratica di un sapere e il conseguente desiderio di trasmetterlo ai più giovani. La conoscenza si propaga per contatto fra esseri umani, e sono i contenuti che ne assicurano il travaso da una generazione all’altra […] Da alcuni decenni è di moda credere che per insegnare, poniamo, la matematica o la storia non basta conoscere bene queste discipline, ma è indispensabile praticare qualcos’altro, che le supera e le contiene: la didattica della matematica, la didattica della storia. Questa perniciosa petitio principii ha infettato le nostre menti, ma anche le circolari ministeriali, i meccanismi di reclutamento e di valutazione. La didattica, o pedagogia che dir si voglia, tende così a diventare non un sapere fra gli altri, bensì una sorta di super-disciplina che pretende di superare o contenere tutte le altre. Di conseguenza, si può insegnare solo a patto di sapere come, non che cosa […] Concentrarsi sulle modalità del l’insegnamento e non sui suoi contenuti. Questa sembra essere la parola d’ordine della nuova scuola, “buona” o cattiva che sia. Si viene così a creare una perversa simmetria: agli insegnanti si chiede di spostare l’accento, nella loro preparazione e nel loro lavoro, dai contenuti ai metodi d’insegnamento Agli studenti si chiede di spostare l’accento dalla elaborazione della conoscenza all’acquisizione di abilità, competenze, skills. La scuola così intesa può forse ancora (stancamente) trasmettere nozioni, ma non la passione di sapere […] L’insegnante ideale è chi sa benissimo la storia o la matematica, vi dedica la miglior parte del suo tempo, e ha elaborato la passione di trasmetterla perché la considera non solo utile, ma “bella” da coltivare, da conoscere e da far conoscere. Solo un insegnante come questo (e per nostra fortuna nella scuola italiana ce ne sono ancora migliaia) saprà davvero trasmettere, attraverso la storia o la matematica, la capacità di ragionare con rigore che è la dote più preziosa di ogni essere umano».  Sono parole di cui sarebbe bene fare un manifesto per la ricostruzione della scuola italiana e della stessa identità dei suoi docenti sempre più disorientati fra circolari e improbabili moduli pseudomanageriali da costruire e riempire come si costruisce senza accorgersene la gabbia intorno a se stessi e alla propria funzione sociale di linfa primigenia dello Stato di diritto.

Giuseppe Cappello

Docente di filosofia e storia presso il Liceo Statale «Maria Montessori» Roma

Sito internet www.giuseppecappello.it

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