Sull’Europa e la solidarietà – X lettera da Parigi

domenica, 10 Maggio, 2020
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Sull’Europa e la solidarietà*

«Le nazioni europee sono ammalate, la stessa Europa, si dice, è in crisi». Così Edmund Husserl apre la sua famosa conferenza di Vienna, tenuta nel 1935 (traduzione italiana ne La crisi delle scienze europee, Il Saggiatore 1968). Una data che basta a capire a quali malattie e a quali crisi si riferisse il grande filosofo. Ma la domanda che segue illumina l’attualità bruciante di questa constatazione, nonostante i mutamenti radicali intervenuti da allora: perché mentre c’è una medicina per la vita biologica, non c’è una medicina per la vita «dello spirito»?

Oggi le nazioni sono doppiamente ammalate – c’è la pandemia, e c’è la malattia «dello spirito» che da sempre minaccia la vita dell’unico progetto politico innovativo che gli Europei siano riusciti ad abbozzare nel dopoguerra: il progetto di una Federazione degli Stati Uniti d’Europa. E le due cose oggi si tengono al punto da illuminare in profondità il senso della domanda di Husserl. Ma cos’è la “malattia dello spirito”? Per capirlo, dobbiamo allungare e alzare la nostra veduta, che resta nei dibattiti pubblici nazionali “più corta di una spanna”. Oggi il bicchiere della solidarietà europea, dopo l’accordo di massima sui fondi per la ricostruzione, viene presentato come mezzo pieno o mezzo vuoto. Ottimisti e pessimisti si fermano qui: per gli ottimisti tutta la grandezza del progetto europeo originario – e io intendo quello spinelliano – si risolverà anche per l’avvenire in un aumento di questa solidarietà; per i pessimisti l’insufficienza di questo aumento è la miccia che scatenerà ulteriormente i sovranisti.  Ma se vogliamo capire cosa si possa intendere per “malattia dello spirito” dobbiamo chiederci: quale concetto di “solidarietà” hanno in mente gli uni e gli altri? Fondamentalmente, trasferimenti di denaro dalle nazioni la cui economia girava e girerà molto meglio a quelle in cui andava e continuerà ad andare peggio. E nelle grida dei più, nei messaggi politici, quasi nessuno contesta l’assurdo antropomorfismo che ci presenta i paesi “virtuosi” come “egoisti”, e l’Europa come più o meno “altruista”; nessuno parimenti contesta la solita immagine del “battere i pugni”, più o meno vigorosamente, sul tavolo dell’Europa, come se noi stessi non fossimo parte di questo sgangherato intero, e dunque insieme pugno e tavolo. Che se poi si intende invece il tavolo tedesco o altri tavoli “nordici”, allora bisognerebbe pur dirlo: ma non si può, perché allora la “solidarietà”, che si baserebbe sull’appartenenza a una casa comune, cessa di essere un buon argomento, soprattutto se la si intende come un obbligo a una sola direzione, e neppure un obbligo di credito, ma un obbligo di dono.

Veniamo alla domanda di Husserl, allora. Cos’è la vita dello spirito, per la quale manca la medicina? E perché manca? Il confronto con la medicina per i corpi è fondamentale per capirlo. La clinica non è una praticaccia empirica: si basa sulla ricerca scientifica, in particolare sulla biologia. Ma la clinica, appunto, non potrebbe fondarsi sulla conoscenza dei fatti che la ricerca le offre senza un supplemento di conoscenza, questa volta non dei fatti ma dei valori. Perché la salute è un valore, il più fondamentale dei valori vitali. Cosa sia salute e cosa sia malattia non lo si può dire senza l’apporto di entrambi i tipi di conoscenza, dei fatti e dei valori. Come stanno le cose con la vita «dello spirito»? La vita dello spirito è la vita delle persone. E vivere una vita personale significa “vivere in quanto io e in quanto noi, accomunati da un orizzonte comune”, cioè entro comunità come “la famiglia, la nazione e la sovranazione”. Se una medicina manca, è perché manca la conoscenza di base. La vita delle nazioni e delle “sovranazioni” deve diventare oggetto delle scienze sociali (non ultime le scienze politiche) – ma evidentemente anche della conoscenza e della ricerca sui valori corrispondenti. Cominciamo dalla nazione, che sta a cuore ai sovranisti, ma che è anche la base della “sovranazione”.

Nel saggio Rinnovamento, il primo degli scritti pubblicati su una rivista giapponese dall’omonimo nome nel ’23 (tradotti in italiano come L’idea d’Europa, Cortina 2000), leggiamo: “Una nazione, un’umanità, vive e opera nella pienezza delle forze soltanto se sorretta nel suo slancio da una fede in sé stessa e nella bellezza e bontà della vita della propria cultura; se dunque non si limita a vivere, ma…a realizzare valori genuini e sempre più elevati”. Cooperare a una tale cultura, scrive Husserl, “rappresenta la felicità di ogni uomo operoso e lo solleva dalle preoccupazioni e dalle sventure individuali”. Husserl ha letto avidamente Lévy-Bruhl, e la definizione di “cultura” che troviamo in questo stesso saggio deriva dalle scienze sociali che erano allora nella loro prima fioritura, l’antropologia culturale e la sociologia. Cultura è consapevolezza dei vincoli fattuali e normativi, economici, giuridici, costituzionali, etici, ecologici, estetici, linguistici e logici, all’interno dei quali soltanto la libertà, la novità, la personalità di ognuno possono fiorire. Cultura è il sapere, per dirla con Durkheim, come “il noi viva in me”, o in quali delicate e complesse relazioni di interdipendenza la società viva e agisca in ciascuno di noi, perché la cooperazione non solo sia possibile, ma soprattutto renda possibile a ciascuno lo sviluppo di una vera personalità individuale e indipendente, di una vera autonomia morale e di vere libere vocazioni. Una nazione è “sana” solo se l’attività di ciascuno è vissuta, proprio nella sua specializzazione e differenza, anche nella consapevolezza della sua interdipendenza vitale da quella di ogni altro. E questa è “cultura”. E’ la cultura, dunque, che consente a una società anche il lusso di disaccordi che sanno come non degenerare in discordia civile: di un vero pluralismo delle visioni del mondo e dei progetti di società, della bellezza e del bene, entro i vincoli di una democrazia.

Ora, vi pare che il modo in cui l’Italia sta trattando la cultura abbia qualche nesso con la “vita dello spirito” e la sua “salute”? Lo ha, ad esempio, la sanatoria universale che riguarda la Scuola e prosegue ovunque sia necessario (ri)edificare, ad esempio nell’edilizia, nell’urbanistica, nell’ecologia?

Ma anche i filosofi, sembra, non hanno sempre appreso questa lezione. Quanti hanno visto con chiarezza la distanza abissale che c’è fra la comunità radicata nelle identità di appartenenza, in cui ogni testa è la replica di ogni altra, e quella radicata nell’intreccio funzionale delle attività personali, fatta di “molte (diverse) teste, legate però fra loro” (Husserl)? Sono due modi antitetici di “vivere in quanto noi, accomunati da un orizzonte comune”. Il primo è al massimo quando la personalità, l’autonomia morale, l’iniziativa individuale, la specializzazione professionale sono a zero, e la coscienza collettiva è tutto. L’uniformità del pensare e dell’agire è massima, e massima è la coesione, la religio, il sacro. Essere diverso è sacrilegio, e l’individuo che lo perpetra merita il sacrificio.  Il secondo invece cresce con il livello di consapevolezza che ciascuno ha dell’interdipendenza delle funzioni e degli atti propri e di tutti gli altri, cioè con la cultura di ciascuno. In questo “noi”, la pressione sociale sulla coscienza individuale può essere ridotta al minimo, e l’individuazione delle persone è al massimo: eppure può essere al massimo anche la solidarietà. Non come spirito di corpo, ma come corpi dello spirito: le istituzioni e le norme, gli obblighi e i diritti, i poteri e le forze che le volontà possono attivare. Perché ciascuno conservi la dignità che gli spetta come persona unica, diversa da ogni altra, irripetibile. Dietro Husserl e Lévy-Bruhl occhieggia Durkheim e la sua contrapposizione fra la solidarietà di tipo tribale, il noi da cui l’individuo ancora non è emerso, e quella delle società moderne, basata sull’autonomia morale e vocazionale degli individui, che è direttamente proporzionale all’interdipendenza funzionale  delle loro vite.

E’ questo, credo, lo sfondo di una lettera che Spinelli scrisse a Wilhelm Röpke (più tardi ispiratore di Konrad Adenauer) il 24 novembre 1943:

“Quando sono andato in prigione io ero un marxista ortodosso, pieno di  fervore e intolleranza (…) In prigione ho avuto modo di studiare, di riflettere, di guardare con un certo distacco le cose degli uomini. Gli studi storici e gli avvenimenti contemporanei dell’Italia, della Germania, della Russia mi hanno fatto comprendere che vi era nella nostra civiltà qualcosa di molto importante che minacciava di crollare e che bisognava, al contrario, difendere e salvare a tutti i costi: quella che lei ha chiamato la “Persönlichkheitszivilisation”.

La civiltà delle persone. Spinelli la pensò come un salto ulteriore nel processo di individuazione dello “spirito”, che sul residuo etnico dei vincoli sociali – la nazione – facesse prevalere una regolazione delle libere vite, e insieme una moltiplicazione delle opportunità loro offerte, proporzionata al livello sovranazionale dell’interdipendenza, non solo economica. Che accrescesse oltre i limiti della propria nazione la sovranità politica dei cittadini. Una democrazia veramente sovranazionale, appunto, con tutte le sue istituzioni – a partire dall’unione fiscale.  Ecco la sola “solidarietà” che avrà senso accrescere fra le nazioni, se la “sovranazione Europa” deve esistere. Ma torneranno fra noi, dei leaders dalla veduta più lunga di una spanna?

 

* Una versione ridotta di questo articolo è uscita su “Il Manifesto”, 10/05/2020, col titolo “Anche allo spirito serve una medicina”

 

 

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Un commento a Sull’Europa e la solidarietà – X lettera da Parigi

  1. Stefano Cardini
    martedì, 12 Maggio, 2020 at 00:19

    Cara Roberta, ho speso già molte energie per togliere dai tuoi occhi quello che secondo me è un velo di retorica che in un modo che fatico a spiegarmi ti impedisce di entrare nel merito delle ragioni per le quali alcuni, come te, sarebbero ottimisti, mentre altri, come me, che certo sovranista non sono, non sono mai stato e mai sarò, sarebbero pessimisti. È curioso che proprio tu, che da sempre rivendichi il modello socratico che offre e chiede ragioni, in questo caso le dia per “chiare” senza tuttavia “chiarirle”. Che cosa ti rende tanto ottimista? E che cosa rende più “assurdo” l’antropomorfismo per cui i Paesi “virtuosi” sarebbero “egoisti” di quello uguale e contrario che definisce “prepotenti” i Paesi “viziosi”? Virtuosi e viziosi in che senso non antropomorfico esattamente? Con quale metro li stai misurando? Quello del bilancio in pareggio? Sarebbe questo il metro “ideale” che invera lo spirito dell’Europa di Altiero Spinelli? Non ricordo un solo passaggio del Manifesto in cui si decidesse del ruolo della Banca Centrale Europea o del Bilancio Europeo in caso di crisi di liquidità o peggio, come ora sta avvenendo, di crisi industriale indotta da una crisi sanitaria a sua volta largamente influenzata da quelle stesse politiche di bilancio che una schiera innumerevole di economisti oggi dichiara quanto meno discutibili se non apertamente ideologiche e deleterie. O che si pronunciasse contro o a favore del ricorso a spesa in deficit da parte dello Stato per sostenere il denominatore del rapporto debito/Pil onde evitare l’aggravamento del debito di un Paese già da 30 anni in avanzo primario anno dopo anno senza che questo abbia avuto effetti diversi dal declino economico. Ma immagino che arrivata qui tu ti senta già infastidita dalla prosaicità di queste mie considerazioni, così poco spiritualmente elevate. Evidentemente io, come certi leader in circolazione, ho una veduta non “più lunga di una spanna”. Quale strana situazione. È esattamente l’impressione che io ricevo di te quando scrivi certe cose, sostenendole non si capisce su quali argomenti che non siano in un qualche modo “espiatori” di una misteriosa “colpa nazionale”. L’Italia dovrebbe smettere di “battere i pugni sul tavolo” perché quel tavolo “è anche suo”? Bene, sono d’accordo. È quello che andrebbe detto anche ai nostri partner a proposito dei vantaggi competitivi incrementali che hanno avuto e temono di perdere accettando politiche espansive realmente efficaci da parte della BCE. È quello che andrebbe detto ai loro leader dalla veduta non “più lunga di una spanna” elettorale dopo che per anni hanno meschinamente coltivato il ben meno che antropomorfico immaginario sui PIGS. Il tavolo europeo è il tavolo di tutti. Ma a quel tavolo siamo seduti a eque condizioni? A condizioni “giuste”? Abbiamo avuto e abbiamo “pari opportunità” come anche il socialismo liberale di Spinelli auspicava? E se non le abbiamo, come mi pare evidente anche soltanto confrontando il numero di terapie intensive per numero di abitanti nostre e dei nostri partner tedeschi, fino a che punto questo è frutto dei nostri “vizi” nazionali, che nessuno nega, ma quanto meno si sente socraticamente obbligato e “ben ponderare”. Mi dirai quelle condizioni le abbiamo accettate! Abbiamo firmato i Trattati! E sia. Ma “noi” chi? È accaduto trent’anni fa. Nessuno dei protagonisti di quella stagione, praticamente, è vivo. È possibile che nel frattempo sia noi sia altri partner europei ci si possa essere resi conto che qualcosa in quei Trattati abbia girato un tantino a rovescio? Possa avere diviso gli interessi vitali dei contraenti, anziché averli uniti, nonostante non pochi economisti ci avessero messo in guardia circa la vulnerabilità del sistema? O pensi convintamente che l’ideale della “liberaldemocrazia” si possa esaurire in un’alzata di mano a opera di organismi sovranazionali di seconda istanza dominati da vincoli di unanimità? O che le dinamiche economiche non siano attraversate da tensioni ideali, ordini di valori? È così inaccettabile che una generazione come la mia, divenuta adulta di crisi economica in crisi economica via via più grave, pretenda dai propri leader quella limpidezza e fermezza costituzionale che altri (tutte, sovranisti inclusi) non dimostrarono quando decisero addirittura di inserire il pareggio di bilancio in Costituzione sotto la spinta della speculazione finanziaria e dei “lungimiranti” consigli della BCE, così “lungimiranti” che ora nonostante il suo Whatever it takes siamo lì a pietire un piatto di lenticchie dal Mes mentre la Germania inonda di miliardi banche tecnicamente fallite? Lo sai che le nostre banche, incommensurabilmente più sane delle loro, non hanno il coraggio di concedere credito alle imprese neppure se lo Stato offre loro il 100% di garanzie? Quando vantaggi incrementali determinano svantaggi incrementali, se non ci si vuole separare, bisogna rendersi disponibili a pagare il conto in misura proporzionale ai vantaggi ottenuti e a spiegarlo bene. Non il contrario. Perché a fare parti uguali tra diversi già si fa ingiustizia. Figurati a ritagliare la fetta più grande di torta a chi ha già il piatto pieno. Il problema è che tu continui antropomorficamente a dare per scontato, sorda a qualunque competente appello contrario, che quel piatto sia pieno semplicemente per le “angeliche virtù” altrui contrapposte ai nostri “diabolici vizi”. Eppure di questo non offri ragione, se non quel quozientino: 130%, che finisci per trasformare nell’espressione dell’autentico spirito europeo che dovrebbe sostenere il nostro ottimismo, anche se siamo già perfettamente in grado di dire che rebus sic stantibus salirebbe almeno al 160%, il che significa altri 3/5 anni di tagli alla spesa pubblica, o meglio a quel che ne rimane, in piena recessione questa volta: centinaia di imprese che chiudono o vengono scalate o vengono spinte a delocalizzare, decine di migliaia di persone che perdono il lavoro, salute, istruzione, ricerca, patrimonio artistico e culturale, tutti i nostri diritti/doveri costituzionali messi radicalmente in pericolo. È questo il patto che i sedicenti “europeisti” vogliono difendere? Sono queste le “regole” per cambiare i patti che vogliono difendere? Hai riflettuto seriamente sul significato “spiritualmente incarnato” di questa difesa dello status quo che chiami con tanta scioltezza “ottimismo”?

    POST SCRIPTUM

    Intervista a Wolfgang Streeck, direttore emerito del Max Planck Institute, apparsa sulla Frankfurter Algemeine Zeitung.

    Il parere di un illustre studioso tedesco, insomma, certamente affezionato al suo Paese ed anche alla UE, destinata al pubblico di uno dei più importanti quotidiani di Germania.

    La descrizione di ciò che è la Ue, delle diseguaglianze costitutive dei trattati e della loro continua implementazione, nonché delle politiche di austerità, ecc, sembra scritta da feroci “anti-europeisti”. E invece è una pacata fotografia concettuale di un mostro che divora tutto ciò che incontra per garantire a un manipolo di capitali di crescere a dismisura. Anche nelle attuali condizioni.

    Forse sarebbe il caso di aprire gli occhi e guardare in faccia la Gorgone.

    https://observatoriocrisis.com/2020/05/10/la-bomba-es-italia-la-crisis-de-la-ue-es-inminente/

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