Lettera a Pippo Lo Manto – un “piccolo maestro” che ci ha lasciati

sabato, 1 Agosto, 2020
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Intravedevamo un mondo di verità incorrotta,

una ricchezza di cui ci avevano finora truffati.

Luigi Meneghello, I piccoli maestri

Ne avesse come te di maestri, la Scuola italiana, l’infinita mediocrità di chi oggi la governa non farebbe tutto il male che fa. Ora che non ci sei più bisognerà rovistare i tuoi cassetti, e stanare sulla Rete tutte le tracce che di te saranno rimaste, in tutti questi anni. Ma so da cosa bisogna cominciare. Vorrei che tutti ascoltassero questa tua lezione, che apre il secondo giorno dell’ultima Settimana di Studi Danteschi, quella dell’ottobre 2019: https://www.youtube.com/watch?v=-5RGwDIdRkI. Ed è un privilegio per noi che sia stato così, perché eri tanto schivo che in vent’anni e più di vita di questa tua meravigliosa creazione, per cui convenivano a Palermo letterati, poeti, filosofi, studiosi da tutto il mondo, e soprattutto torme di ragazzi entusiasti delle scuole di Palermo e della Sicilia, non di frequente, se ben mi ricordo, prendevi tu stesso la parola – fuori dai meravigliosi convivi e dalle scintillanti conversazioni che offrivi ai tuoi ospiti. Ma qui, in questa tua splendida lezione sul titolo dell’ultima edizione del tuo Festival (ottbre 2019): “Ma misi me per l’alto mare aperto” (Inf. XXVI, 100) – e sul Canto di Ulisse, qui fin dalle prime, emozionanti parole sull’alto e il largo della conoscenza, la profondità del mare del conoscibile, e soprattutto l’aperto per cui il viaggio d’esplorazione si imbarca,  tu hai come dispiegato il filo d’oro di tutto il tuo insegnamento: la ricerca di conoscenza, e non solo dei fatti e delle leggi degli universi naturale e umano, ma dei valori. Vorrei provare a essere più precisa: la ricerca di conoscenza dei valori – del bene e del male, ma meglio sarebbe dire di tutti gli infiniti beni e mali che il vivere in ogni istante ci prodiga – come via di maturazione di ciascuno dalla selva oscura alla piena sovranità morale, e quindi esistenziale e civile, secondo uno dei passi a te più cari, quando Virgilio, “come nel Medioevo si facevano i cavalieri”, proclama invece Dante imperatore e papa di se stesso:

Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio.

(Purg. XXVII,  139-142)

Un verso, l’ultimo, che diede il titolo a una delle Settimane (2008): ma che, soprattutto, segna la prorompente novità del pensiero di Dante, fondatore dell’Umanesimo moderno. E tutta lungo questo filo si svolge la tua impeccabile lezione. Verrebbe da chiedersi: che cosa possiamo imparare, ancora, sul Canto di Ulisse, dopo secoli di commenti? Molto – tutto, come sempre nuova anche nel contenuto è la conoscenza che si rinnova, soprattutto quando nuova è la mente che l’accoglie – come erano le menti dei ragazzi che affollavano la tua platea, guardateli nel video con che attenzione, in che silenzio ti ascoltano. Il pellegrino celeste, e il grande viaggiatore antico, specchio uno dell’altro. Ulisse, questa invenzione dantesca. Che non è l’eroe di un Ritorno, ma di un viaggio di scoperta e di sfida. E perché, se no, Dante prega con tanta intensità Virgilio di incontrare “lo maggior corno della fiamma antica”, appena apprende che avvolge l’anima di Ulisse, e “prega” di potergli parlare, e chiede addirittura “che ‘l priego vaglia mille”, mentre tutto il suo corpo si piega nel desiderio dell’incontro. Ma tutto, nella precisione dei dettagli, riproduce questo specchio dell’analogia, dove il termine primo è il primo canto della Commedia. Come Ulisse, Dante si trova nell’oscurità della selva, e la situazione di partenza – simbolizzata dalle tre fiere – è quella del completo squilibrio (direbbe un fenomenologo) fra la sfera delle tendenze – pulsioni, aspirazioni, desideri – e quella della cognizione – della ricezione, dell’ascolto, dell’esplorazione. Si trova sotto la completa signoria degli “istinti”, in lingua piana e comune. Come Ulisse asservito a Circe, la maga che trasformava gli uomini in maiali. Ma è da lì che comincia il viaggio, “il folle volo”. Ulisse non ritorna a casa. Nessuno dei grandi amori – filiale, coniugale, paterno – racconta Ulisse

vincer potero dentro me l’ardore

ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto

e delli vizi umani e del valore.

E tutte le terre infatti conosce, con i suoi, Ulisse, dalle rive del Mediterraneo fino alle Colonne d’Ercole. Si fa esperto “delli vizi umani e del valore”. Ma poi – ecco profilarsi tutt’un’altra esperienza:

di retro al sol, del mondo sanza gente.

E qui la tua voce dà finalmente consistenza piena ad alcuni fra i più famosi versi danteschi: “Considerate la vostra semenza/fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza”. Il mondo sanza gente, il mondo che sta oltre il sole del visibile, è il mondo delle essenze, il mondo della conoscenza dell’intelletto – quella che trasgredisce i limiti, dei sensi e della tradizione, il pensiero, che è libero e non ha padrone. E’ qui, che comincia “l’alto passo” – il “passaggio” che può essere mortale. E tu ricordi il canto I, il punto dove l’animo di Dante

Si volse a retro a rimirar lo passo

che non lasciò già mai persona viva.

A entrambi i viaggiatori era apparso un monte – una montagna bruna, a Ulisse, un dilettoso monte, perché “vestito già dei raggi” del sole, a Dante. Entrambi, all’inizio del “folle volo”, precipitano. Ulisse per sempre, sepolto “come altrui piacque”, nell’abisso marino. Ma anche Dante, che le tre fiere riempiono di paura e fanno ruzzolare all’ingiù, fino a che di se stesso dice

Io perdei la speranza dell’altezza.

Dov’è la differenza? Beatrice che assiste Dante, certo, che manda Virgilio, che illumina il dilettoso monte. Ma chi è Beatrice?

Raramente un’idea e una vocazione hanno trovato, come in te, una fusione così perfetta. Beatrice non è la teologia – in questo tu segui il nostro grande Bruno Nardi, che per cercare un “mondo di verità incorrotta” lasciò la tonaca di frate e seguì le orme di Ulisse e di Dante – ma la luce stessa dell’intelletto agente, quella misteriosa disposizione della mente ad accendersi o risvegliarsi, ad essere “iniziata” e a dare inizio a “conoscenza nuova” (“Ma conoscenza nuova, che l’amore/piangendo mette in lui, pur su lo tira”: l’intelletto che Beatrice ha risvegliato alle sue vere altezze, nella Vita Nuova). Tu giustamente lo dici: di questo la filosofia aveva fatto una vera sostanza, come il sole che illumina la vista. Ma ciascuno può averne l’esperienza, di questo “nuovo inizio”, cui pure tanto pochi fra noi imparano a credere, e ad affidarglisi fiduciosi: e fa la differenza fra il genio e la normalità umana, fra l’innovazione e la ripetizione, fra l’osare e il rinunciare – direbbe Kafka – a “entrare nella porta della legge” che a ciascuno era destinata. Questo genio è in ciascuno di noi – perché è la scintilla viva di quell’humanitas, di quella sovranità libera ma giusta che ciascuno di noi dovrebbe raggiungere, perché vivano giuste le repubbliche. E tu per questo insegnavi, questo “scrivevi nelle anime”. Di ciascuno, nessuno escluso. Lo si vede, sui social, dalle innumerevoli voci di allievi che ti rimpiangono.  Di questo “nuovo inizio”, che tanto somiglia all’innamoramento, tu sei stato il Socrate e il Virgilio: tutta la tua vita di docente e di ispiratore di convivi fu servizio dell’intelletto agente, risveglio delle menti – vera filosofia.

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