L’illuminismo fenomenologico nella tradizione milanese

mercoledì, 16 Dicembre, 2020
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Vi sono vari modi di riprendere l’Illuminismo, e molto si gioca su come si struttura al suo interno il rapporto tra ragione e storia. Si può intendere la ragione come una struttura sovratemporale, e questo genera una sorta di universalismo astratto, non privo di complicazioni, poiché poi non si sa bene come dare ragione della storicità dei nostri pensieri, e proprio questo può generare, come reazione, una sorta di relativismo e di irrazionalismo che dissolve l’idea di ragione nella particolarità delle culture, e di conseguenza dissolve anche la nozione di Europa, intesa come unità spirituale guidata da un telos, in un mero caso empirico. Tutte queste problematiche si intrecciano, e convergono appunto attorno al rapporto tra ragione e storia.

Ed è a partire da questo che vale la pena di riflettere sulla tradizione della fenomenologica milanese e su quello che mi piacerebbe chiamare “illuminismo fenomenologico”, poiché in esso si apre la possibilità di pensare al di là di universalismo astratto e relativismo culturale.

Attorno a questo punto potremmo in effetti organizzare il modo in cui l’intera scuola di Milano riprende l’insegnamento della fenomenologia, riprendendo l’eredità. Così, già Banfi, nei Principi di una teoria della ragione, dopo avere ripreso considerazioni eidetiche e fenomenologiche e avere notato che queste non alludono a idee in senso platonico, avverte esplicitamente che il «sistema di Husserl è fondato in senso solamente trascendentale»[1], poiché «i concetti filosofici non rappresentano l’essere assoluto, ma sono i momenti dell’ordine trascendentale d’unità dell’esperienza. Se questa varietà e relatività complessa del reale si voglia chiamare vita, la filosofia è filosofia della vita, ma nel senso che la vita non è vita – non ha la propria unità – se non nel sistema dell’autonomia trascendentale della ragione, o, in altre parole, se non in quanto è più che vita o processo di relatività, e trascende se stessa, come libertà, nell’idea»[2].

Dunque, si tratta di comprendere che cosa dia ordine all’esperienza e che cosa significhi esperire. Proprio per questo, la nozione di ragione entra in tensione con quella di storia, poiché Banfi distingue l’essere dalla verità, intendendo così negare qualsiasi struttura realistica o atemporale della ragione, il che, nel suo linguaggio, significa rifiutare l’identificazione tra ciò che esiste e ciò che è vero, intendendo in questo modo fare valere una funzione critica della ragione nei confronti dell’esistente.

Il trascendentale appare, infatti, come un dinamismo interno all’esperienza, come un principio negativo che orienta tuttavia il tempo e la storia[3]. La ragione viene, infatti, vista come una potenza irreale che tuttavia interagisce dialetticamente con la realtà e l’esperienza concreta, rappresentandone, per così dire, l’interna dinamica.

In questo modo emerge già la centralità della nozione di esperienza che, più radicalmente, viene collegata da Enzo Paci a quella di mondo. A suo parere, infatti, riprendere l’insegnamento di Husserl «vuol dire non solo studiarlo e criticarlo, ma anche completare la sua opera. Accade allora fatalmente che si vada oltre Husserl»[4], e a questa impresa è dedicata l’opera teoreticamente più impegnativa di Paci, e cioè Funzione delle scienze e significato dell’uomo[5].

L’insegnamento fondamentale che Paci ritiene di poter trarre da Husserl consiste nell’idea secondo cui la verità agisce anche se è irreale, per cui essa è interna all’esperienza. Essa è un fine ideale che non potrà mai essere raggiunto e che tuttavia, fungendo da ideale regolativo, permette una costante critica del presente, impedendo in questo modo una cristallizzazione dei concetti e dei modi di pensare di una certa epoca.

Contrapponendosi a ogni interpretazione secondo cui la verità si è già realizzata, sia dal punto di vista conoscitivo, per esempio in certi risultati scientifici, sia da un punto di vista politico, per esempio in certi sistemi sociali esistenti, Paci nota che «la verità vive nel mondo, ma non appartiene a nessuno: non appartiene al mondo e non è del mondo»[6]. Essa eccede i mondi, e tuttavia li abita. Dire che la verità è reale, che si è realizzata, significherebbe arrestare il suo movimento. Proprio per questo, l’irrealtà della verità è ciò che, secondo Paci, anima il tempo e la storia.

In questa direzione, la nozione decisiva che Paci trae dalla fenomenologia husserliana è quella di teleologia, poiché la storia non è un accumularsi insensato di fatti. Essa può, al contrario, «apparire come il progressivo rivelarsi e realizzarsi di ciò che è nascosto. Nascosto è l’uomo autentico, originario: nascosti sono il suo senso e il telos»[7]. Pertanto, il telos è ciò che destabilizza ogni mondo, la sua inquietudine interna, e la fenomenologia è «la liberazione dal mondo già dato considerato come se in esso fosse già concluso e definitivo il suo senso. La riflessione ci libera perché ci permette di riconoscere il senso intenzionale del mondo, perché dà al mondo un nuovo senso teleologico»[8]. Pertanto, pensare significa fare emergere ciò che è latente nell’esperienza e che già la organizza in quanto latenza.

In questa ripresa della fenomenologia un ruolo centrale viene a giocare la nozione di mondo della vita. Attraverso la sua analisi risulta, infatti, che tutto ciò che si manifesta è sempre attorniato da un orizzonte vivente ma occultato di validità che collegano il soggetto a tutto ciò che è stato e che sarà. Proprio per questo, in un lungo passo che – per concludere – conviene riportare per intero, Paci può scrivere:

 

La fenomenologia è rivelazione di ciò che non è presente esplicitamente, di ciò che non è evidente: il suo compito è di portare il nascosto, l’occultato, il confuso, l’avviluppato nell’errore, alla luce e alla vita dell’evidenza e cioè della presenza razionale, compito che può essere svolto soltanto partendo da quell’evidenza che siamo noi: il soggetto, i soggetti nell’intersoggettività. Poiché ciò che circonda l’evidenza è ciò che in essa è implicito e l’implicito è infinito, il compito della fenomenologia è infinito nel tempo e nella storia: lo scopo della storia è di rendere presente, vero, razionale, l’orizzonte nascosto. Questa trasformazione infinita è sempre, insieme, trasformazione di me stesso, degli altri, del mondo. Il mio orizzonte e l’orizzonte intersoggettivo, l’orizzonte storico, si rivelano, alla fine, come lo stesso orizzonte intenzionale[9].

 

[1] A. Banfi, Principi di una teoria della ragione, Editori Riuniti, Roma 19673, p. 557.

[2] Ivi, p. 208.

[3] Ivi, pp. 585-587.

[4] Intervista a E. Paci, in Aa.Vv., La filosofia dal ’45 ad oggi, a cura di V. Verra, Torino 1976, p. 457.

[5] E. Paci, Funzione delle scienze e significato dell’uomo, Il Saggiatore, Milano 1963.

[6] E. Paci, Prefazione a E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano, 1985, p. 17.

[7] Ivi, pp. 22-23.

[8] Ivi, p. 82.

[9] Ivi, pp. 92-93.

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Un commento a L’illuminismo fenomenologico nella tradizione milanese

  1. Raoul Kirchmayr
    mercoledì, 16 Dicembre, 2020 at 16:15

    Quella tradizione illuministica, soprattutto agli inizi degli anni Sessanta si incanalò nella prospettiva neomarxista. Alle spalle c’era la mediazione tentata da Merleau-Ponty (ancora fino alla guerra di Corea) e soprattutto da Tran-Duc-Thao che si innestano sulla ripresa dell’interesse per lo Husserl della Crisi. Dal 61 per Paci l’interlocutore fu Sartre, che è la seconda gamba teoretica di Funzione delle scienze, con il conseguente problema di collocare la Critica sartriana in un orizzonte fenomenologico. In fondo è proprio la posta in gioco di Funzione delle scienze: l’ultimo Husserl + filosofia della prassi di Sartre. Così si dimostrava per Paci (anche contro Heidegger, ma questo è ancora un altro capitolo) la fecondità della fenomenologia come superamento dei suoi stessi esiti idealistici.

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