Discorso della sen. Elena Cattaneo a proposito del PNRR in discussione al Senato (seduta pom. 31/03/2021)

domenica, 4 Aprile, 2021
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Pubblichiamo, quale documento su un tema sul quale va tenuta alta l’attenzione di tutti i membri della comunità scientifica e universitaria italiana, il discorso pronunciato dalla Senatrice a vita Elena Cattaneo nella seduta pomeridiana del Senato n. 309 del 31 marzo 2021, nell’ambito della discussione intorno alla Relazione delle Commissioni riunite 5ª e 14ª sulla proposta di «Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza».

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la senatrice Cattaneo. Ne ha facoltà.

CATTANEO (Aut (SVP-PATT, UV)). Signor Presidente, onorevoli colleghi, membri del Governo, in risposta alle conseguenze dell’emergenza pandemica sull’economia, l’Unione europea ha riconosciuto la ricerca scientifica tra le priorità di investimento pubblico per il rilancio. È in questo ambito che vorrei portare il mio contributo oggi. Vorrei farlo affrontando quattro aspetti essenziali per la ricerca, che toccano la bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza in discussione.

Il primo aspetto riguarda le risorse per la ricerca. Poter contare, grazie a Next generation EU, su una quota maggiore di risorse può permetterci di colmare quel divario sul numero di dottorati di ricerca l’anno (9.000 in Italia contro i 15.000 in Francia e i 28.000 in Germania), o quello sul numero di ricercatori pubblici (appena 75.000 in Italia contro 110.000 in Francia e 160.000 in Germania). Ebbene, questo è quanto proposto dagli studiosi firmatari del cosiddetto Piano Amaldi, in parte recepito nella relazione delle Commissioni che oggi esaminiamo.

Aumentare il numero dei ricercatori significa avere più idee in campo, più strade immaginate, un maggiore potenziale di innovazione a beneficio dell’economia nazionale e della competitività a livello internazionale. Attenzione però perché questi traguardi non si raggiungono in automatico, perciò, mirando ad aumentare il numero di studiosi, dobbiamo chiederci cosa vogliamo offrire loro, come pensiamo di sviluppare le loro migliori idee per trasformarle in valore aggiunto, con quali strumenti vogliamo intercettare e valorizzare i talenti.

Per quanto, al secondo punto del mio intervento, si trovano le misure per i giovani. Investire nei giovani significa una sola cosa: garantire loro libertà di accesso ai fondi pubblici attraverso procedure competitive e valutazioni competenti e indipendenti delle loro proposte. È perciò un bene che nella bozza del PNRR sia previsto un programma di finanziamento pubblico pluriennale, e quindi duraturo, almeno per cinque anni, per accendere nuovi laboratori di ricerca, per far nascere nuovi team di ricerca che studino tutto – mi verrebbe da dire – tutto ciò che è utile sapere e saper fare, in ogni ambito umanistico e scientifico, guidati da giovani ricercatori.

Dovrà essere un piano finalizzato a trovare e far emergere i talenti diffusi nel Paese e farne arrivare altri dall’estero, aprendo loro la strada per farli diventare le nuove eccellenze della ricerca internazionale del futuro. Un programma ambizioso, ispirato ai bandi del Consiglio europeo della ricerca, l’European research council (ERC), rivolti a ricercatori agli inizi della carriera. Un ERC italiano quindi a cui i giovani possano guardare con fiducia per collocarsi presso quegli enti pubblici che ne vorranno e sapranno accogliere progetto e indipendenza.

Passo ora al terzo punto, per esprimere invece una forte preoccupazione sulla bozza del PNRR. La preoccupazione è legata al fatto che non possiamo compiere sempre gli stessi errori che poi costringono a complesse e difficili modifiche in corso. Nella bozza del PNRR vi è l’intenzione di introdurre nel già diffuso, complesso e sottofinanziato sistema della ricerca pubblica del Paese, altri sette campioni nazionali di ricerca e sviluppo e altri venti campioni territoriali di ricerca e sviluppo – cioè altri 20 più sette centri di ricerca, o così si intende – verosimilmente iperfinanziati. Non se ne capisce la necessità o, meglio, non possiamo creare nuovi enti senza aver proceduto prima ad una approfondita analisi che dimostri la necessità di questi nuovi centri fisici che siano 20, 27 o solo sette nuove strutture, per capire anche come dovranno essere organizzati rispetto agli enti esistenti e ai tanti gruppi di ricerca teorica e applicata che nel Paese già svolgono esattamente le funzioni che verrebbero assegnate a questi nuovi enti. È un’analisi necessaria, colleghi, oggi assente; necessaria anche a comprendere e spiegare ai cittadini in che modo i centri ipotizzati possano essere sostenibili, compatibili e complementari con gli enti – ben 135 – che già si occupano di ricerca nei vari settori.

Una volta accertato questo, andrà individuata una procedura competitiva, aperta a singoli enti e gruppi di ricerca, in cui presentare progetti dettagliati e motivati per la realizzazione di tali strutture, per capire dove collocarli nel Paese e perché, affinché possano essere selezionate le migliori proposte di contenuti di quei centri, dalle migliori cordate di studiosi, i più rispondenti alle esigenze del territorio e della comunità. Per esempio, rispetto a uno dei sette campioni nazionali di ricerca e sviluppo, il Centro nazionale per l’intelligenza artificiale, mi chiedo se sia stato valutato il rischio di una sovrapposizione con enti e attività già esistenti, il rischio di spendere i fondi europei per una moltiplicazione inutile di enti. Da alcuni autorevoli studiosi del settore mi è stato segnalato che non risulta sia stata mai fatta un’analisi e una consultazione preventiva. Mi chiedo anche se il Consorzio interuniversitario nazionale per l’informatica, che dal 2018 ha una specifica branca sull’intelligenza artificiale, sia stato interpellato: a me non risulta.

Guardate, di eccellenze e talenti diffusi in tutto il territorio il nostro Paese è già ricco. Vi sono, appunto, le centoquaranta istituzioni che fanno ricerca ogni giorno con l’obiettivo di creare nuove conoscenze utili alla crescita di imprese e territori, quindi del Paese, e che comprende università, ospedali di ricerca ed enti pubblici di ricerca, anche se il loro lavoro resta spesso sconosciuto a cittadini e rappresentanti politici. A guardare gli esiti dei lavori di questi studiosi, che già esistono, c’è di che essere orgogliosi; i nostri giovani si formano evidentemente bene, ma mi chiedo se tutto ciò sia noto. Mi chiedo ad esempio quanti, nelle istituzioni impegnate a disegnare il nostro futuro, siano a conoscenza del fatto che sono state le università di Modena e Reggio Emilia e il San Raffaele di Milano a sviluppare il primo farmaco nel mondo occidentale a base di staminali e che grazie alle staminali e a trent’anni di ricerca, sempre nei laboratori di Modena, si è riusciti a ricostruire la pelle di un bambino che ne aveva persa più dell’80 per cento a causa di una malattia rara, rendendogli una vita normale.

Mi chiedo quanti sappiano che gli studiosi del CNR di Cagliari e dell’Università di Sassari sono numero uno al mondo sulla genomica; che l’Università Federico II di Napoli è conosciuta in tutto il mondo per gli studi sul rischio e la storia delle eruzioni del Vesuvio, oltre che per la robotica; che i geologi italiani sono al secondo posto al mondo, dietro gli Stati Uniti e davanti alla Cina, per gli studi sulle frane e al primo posto in assoluto nello studio delle grandi estinzioni biologiche; che sono italiani i ricercatori di astrofisica che hanno descritto per la prima volta i vortici ciclonici di Giove, grandi come la terra, che stazionano ai due poli del pianeta, una scoperta valsa la copertina di «Nature»; che all’università di Bologna si studia l’origine della scrittura e la linguistica delle lingue scomparse; che l’Università La Sapienza di Roma, proprio quest’anno, ha raggiunto i vertici delle classifiche mondiali grazie agli studiosi delle scienze dell’antichità. Mi chiedo se non sia proprio questa mancanza di conoscenza di ciò che già abbiamo il motivo per cui ciclicamente viene proposta la creazione di centri e strutture ex novo. Ma, attenzione, l’ignoranza di questa realtà non libera dalla responsabilità di decisioni improvvisate.

Arrivo al mio quarto e ultimo punto con una riflessione, o meglio una proposta: credo che, oltre a non avventurarsi nella creazione di nuovi centri che non discendano da un’analisi della loro necessità, sia importante lavorare per valorizzare le eccellenze diffuse nel Paese. Esistono e sono intorno a noi, a partire dalle università e dagli enti di ricerca. Una strategia potrebbe prevedere azioni su base competitiva, riservate a università ed enti di ricerca, a partire da quelli delle zone più isolate del Paese, le cosiddette aree interne, fornendo un’arma in più contro fenomeni come il depauperamento demografico, sociale ed economico di quei territori. In concreto, si tratterebbe di emanare un bando, volto al finanziamento, ogni anno per cinque anni, di almeno 10-15 progetti, da 20 milioni di euro l’uno, sulla base di una valutazione aperta, competitiva e trasparente. Guardate che l’ordine di grandezza economico non è troppo dissimile da quanto ha fatto la Germania nel promuovere il programma della sua strategia di eccellenza. Non ha creato nuovi enti, ma ha aperto bandi e ha messo in competizione gli enti esistenti. Nella prima fase, per gli anni 2006-2011, prevedeva infatti un investimento di 1,9 miliardi di euro e nella seconda fase, per gli anni 2012-2017, visto l’esito positivo, ha messo in gioco 2,7 miliardi di euro. Si potrebbe veramente fare così. Inoltre, adesso è forse giunto il momento di consentire l’accesso alle nuove risorse, assegnate sempre su base competitiva, a tutti i ricercatori, a qualsiasi ente appartengano, a prescindere quindi dagli steccati amministrativi di provenienza: già questa sarebbe una riforma semplice e rivoluzionaria.

Innovare non significa per forza costruire da zero. L’innovazione più coraggiosa risiede spesso in un cambio di paradigma nella gestione delle risorse, in una riforma che serve a valorizzare ricchezze ed eccellenze sconosciute o sottovalutate. La competitività del Paese passa anche da un rilancio omogeneo degli investimenti in ricerca pubblica, umanistica e scientifica, e da procedure aperte e trasparenti, libere e competitive.

In conclusione, consapevole che il PNRR alla nostra attenzione è ancora in via di definizione, non posso che esprimere il mio giudizio positivo sul documento che il Senato sta licenziando, soprattutto quando afferma esplicitamente che debba essere prevista – e qui cito il documento – «una analisi preliminare dei bisogni, laddove nuove strutture», i centri di ricerca, «vadano ad integrare un contesto preesistente, così come si ritiene necessaria la definizione di criteri principi e metodi relativi alla gestione degli affidamenti, nonché l’individuazione del soggetto preposto alla selezione dei progetti da finanziare».

Si tratta di indicazioni frutto di una ragionevolezza, che dovrebbe presiedere alla definizione di ogni politica pubblica e che mi auguro sentitamente che il Governo vorrà impegnarsi a recepire, affinché il nostro Paese possa beneficiare appieno, per il presente e per il futuro, della competizione ad armi pari tra le migliori idee, da qualunque parte d’Italia provengano. (Applausi).

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Un commento a Discorso della sen. Elena Cattaneo a proposito del PNRR in discussione al Senato (seduta pom. 31/03/2021)

  1. Roberta De Monticelli
    domenica, 4 Aprile, 2021 at 18:37

    Come vorrei che chi decide fosse rimasto colpito quanto lo sono stata io dalla chiarezza con cui Elena Cattaneo ammonisce a non ripetere gli errori del passato! Ecco, queste righe non è inutile riprodurle. Spero che anche Roberto Cingolani, che oltre ad essere l’attuale Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (!) è stato dal 2005 al 2019 direttore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT) di Genova (di cui, dice wikipedia, è stato anche una sorta di amministratore delegato: cosa ben curiosa, non vi pare?) – le abbia ascoltate, o le possa leggere, queste parole. Ma soprattutto che le abbiano ben ascoltate coloro che vogliono ora moltiplicare per sette o per venti i ricercatori a nomina governativa, gestori delle finanze che li premiano, attraverso un sistema che tutto può dirsi – mi sembra, e se mi sbaglio qualcuno mi correggerà – fuorché indipendente dalla politica:

    “non possiamo compiere sempre gli stessi errori che poi costringono a complesse e difficili modifiche in corso. Nella bozza del PNRR vi è l’intenzione di introdurre nel già diffuso, complesso e sottofinanziato sistema della ricerca pubblica del Paese, altri sette campioni nazionali di ricerca e sviluppo e altri venti campioni territoriali di ricerca e sviluppo – cioè altri 20 più sette centri di ricerca, o così si intende – verosimilmente iperfinanziati. Non se ne capisce la necessità o, meglio, non possiamo creare nuovi enti senza aver proceduto prima ad una approfondita analisi che dimostri la necessità di questi nuovi centri fisici che siano 20, 27 o solo sette nuove strutture, per capire anche come dovranno essere organizzati rispetto agli enti esistenti e ai tanti gruppi di ricerca teorica e applicata che nel Paese già svolgono esattamente le funzioni che verrebbero assegnate a questi nuovi enti. È un’analisi necessaria, colleghi, oggi assente; necessaria anche a comprendere e spiegare ai cittadini in che modo i centri ipotizzati possano essere sostenibili, compatibili e complementari con gli enti – ben 135 – che già si occupano di ricerca nei vari settori”.

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