Perché noi italiani (non) ubbidiamo alle leggi? Un problema per la cultura giuridica. Di Tommaso Greco

lunedì, 10 Maggio, 2021
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Mentre cortine di fumo e palate di fango coprono il problema della Giustizia e della sua riforma, qualcuno prova a riflettere su “un problema  per la cultura giuridica”. L’articolo di Tommaso Greco (Docente di Filosofia del Diritto all’Università di Pisa), è uscito su “Paradoxa” n. 1/2021. Lo  riprendiamo qui sperando che possa suscitare qualche risposta altrettanto riflessiva. 

 

  1. Nel vorticoso succedersi degli eventi politici, propongo di fare una riflessione “di lungo periodo” che riguarda la nostra cultura giuridica. Più volte è stato notato in questi mesi che gli strumenti utilizzati dal Governo per regolare la situazione pandemica siano stati inappropriati, tra le altre cose, perché in molti passaggi utilizzavano un linguaggio poco (o nient’affatto) giuridico. Spesso, si è detto, le norme erano prive di adeguato supporto sanzionatorio, il che farebbe venire meno il loro status di norme giuridiche vere e proprie.

Non è il caso ovviamente di fare la storia di questa concezione, ma quando si esprimono opinioni come queste si dimentica che l’adempimento da parte dei cittadini, e il riconoscimento che ognuno mette in atto delle aspettative altrui, è parte costitutiva del diritto, non parte accessoria o eventuale. Il diritto, in altre parole, non è faccenda che riguardi essenzialmente i rapporti tra gli individui e lo Stato, che con la sua forza organizzata costringe i cittadini all’ubbidienza; esso è innanzi tutto regola dei comportamenti e misura delle relazioni sociali, nei diversi campi in cui queste si esplicano. Ecco perché si può arrivare a dire, nonostante ci siamo convinti del contrario, che il diritto ha a che fare più con la fiducia che con la sfiducia tra i soggetti. La fiducia nel fatto che i cittadini si comporteranno correttamente nei loro reciproci rapporti è un ingrediente di cui non possiamo — e soprattutto il diritto non può — fare a meno. Un sistema politico-giuridico che facesse poggiare la sua effettività innanzi tutto sulla coercizione, avrebbe perso per strada una delle sue parti costitutive e occorrerebbe domandarsi seriamente se sia ancora un ordinamento giuridico.

 

  1. In questa necessaria presa di coscienza, il primo compito spetta innanzi tutto a coloro che sembrano i più refrattari a realizzarla: cioè i giuristi e i teorici del diritto. Finché questi continueranno a far discendere l’obbligatorietà del diritto esclusivamente dalla messa in campo della coazione sarà difficile anche per i cittadini riconoscere che le cose stanno diversamente, e che il loro dovere non dipende dall’avere un poliziotto che bussa alla loro porta. Aver reso comune l’idea che il diritto sia vincolante solo in quanto dotato di sanzione ha fatto credere ai cittadini che, là dove la sanzione non ci sia, oppure dove la sanzione non giunga perché non riesce ad essere efficace, non esista alcun obbligo da rispettare.

Lo pensavano nell’antica Grecia alcuni sofisti (si pensi ad Antifonte), i quali affermavano che, quando si è sicuri di non essere visti, si può violare la legge della città, ma — forse inconsapevolmente, forse no — continuiamo a pensarlo anche noi. È questa infatti la convinzione che si nasconde nelle tesi di coloro che esprimono il timore assai diffuso, secondo cui, facendo arretrare la sanzione, ne derivi un indebolimento dello spirito del diritto. Un celebre personaggio della televisione pubblica, le cui trasmissioni hanno contribuito alla formazione delle opinioni scientifiche di intere generazioni di cittadini, ha scritto ad esempio che «il meccanismo “premi e punizioni” viene oggi completamente sottovalutato, e comunque non utilizzato in modo mirato, nel nostro paese, per indurre comportamenti civili». Per Piero Angela, infatti, «non basta promulgare leggi e regolamenti, bisogna farli rispettare, attraverso meccanismi efficaci», e questi meccanismi consistono essenzialmente nella predisposizione di un adeguato sistema sanzionatorio e coattivo: con una immagine significativa, Angela ricorda al legislatore il vecchio proverbio in base al quale «se vuoi acchiappare un topo, prepara una trappola» (A cosa serve la politica?, Mondadori, Milano 2011, pp. 121-122).

Questa idea di fondo, unita alla convinzione che «usando il meccanismo giusto si può modificare un comportamento», porta alla conclusione, coerente ma paradossale, che per garantire l’efficacia di una norma, come ad esempio quella che obbliga gli automobilisti ad allacciare la cintura di sicurezza — norma non adeguatamente ubbidita dai cittadini e soprattutto non sanzionata da chi avrebbe il dovere di farlo — occorra «mettere in giro delle pattuglie in borghese incaricate di multare i vigili che non [facciano] contravvenzioni». Si potrebbe facilmente obiettare, che per garantire ancor meglio l’efficacia ci sarebbe allora bisogno di un terzo gruppo di controllori che controlli l’operato dei secondi, che già controllavano l’operato dei primi…e così all’infinito. Ma è lo stesso Angela che, nel concludere il suo ragionamento sembra smentirne tutte le premesse. Alcune storie sulle quali egli si sofferma dimostrano infatti che ciò che conta per cambiare gli atteggiamenti non è affatto il sistema delle pene e delle ricompense (pur importantissimo e imprescindibile), ma è innanzi tutto la responsabilizzazione delle persone, il renderli consapevoli di ciò che è loro richiesto, e quindi il mettere in moto la loro coscienza di avere dei doveri.

 

  1. Se esiste davvero un sé civico, allora esso va coltivato e incentivato; ma per prima cosa dobbiamo evitare l’errore di pensare che esso possa essere costruito e mantenuto col timore della punizione, facendo passare l’idea che è solo quest’ultimo a portare il peso dell’esistenza dell’obbligo. Se è vero, come dice un noto studioso di linguistica, che «il modo in cui siamo, il modo in cui pensiamo e valutiamo, il modo in cui ci rappresentiamo il paese e noi stessi dipende per via diretta da quello in cui siamo trattati nella sfera pubblica» (R. Simone, Il Paese del pressappoco. Illazioni sull’Italia che non va, Garzanti, Milano 2005, p. 40), allora non può produrre i frutti sperati una più rigida e ferma cultura della punizione, come invece questo stesso autore sostiene in pagine assai critiche dedicate a denunciare per l’ennesima volta l’atavica mancanza di cultura civica nell’animo degli italiani.

Sia chiaro: non si vuole difendere qui nessuna tesi “lassista” né il “perdonismo” cui indulge chi, quasi sempre in maniera interessata, cerca argomenti per rifiutare o aggirare la punizione secondo la legge. Ha sicuramente ragione chi lamenta la mancanza di una cultura della legalità, e stigmatizza il fatto che spesso in Italia «l’eroe è l’astuto che sfugge la legge, o il potente che si pone al di sopra di essa», piuttosto che «il giudice inflessibile o il politico integerrimo» (sono parole di Maurizio Viroli in N. Bobbio-M. Viroli, Dialogo intorno alla repubblica, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 60). Così come è indubbiamente vero che nel nostro paese operi un «circolo vizioso delle regole», fatto di elusione delle regole e di (auto)giustificazione di questa stessa elusione (R. Abravanel-L. D’Agnese, Regole. Perché tutti gli italiani devono sviluppare quelle giuste e rispettarle per rilanciare il paese, Garzanti, Milano 2010). Si tratta di capire però che una cultura della legalità non potrà saldamente stabilirsi se continuiamo a credere e a sostenere che il diritto è obbligatorio solo in presenza di un efficace sistema sanzionatorio.

Nel 1964 Luigi Barzini si chiedeva come mai «una nazione in cui gli abitanti hanno innato il senso della giustizia, e molti di loro anche una spiccata vocazione giuridica, [sia] sempre stato così debolmente guidato dalle leggi» (Gli italiani, Mondadori, Milano 1978, p. 12). Per rispondere adeguatamente è forse urgente e necessario capire che è proprio la concezione coercitiva delle regole a farci concepire l’idea che, se possiamo eludere la punizione, siamo autorizzati ad eludere la norma. Se è così, una maggiore insistenza sul fatto che il diritto è obbligatorio prima e a prescindere dalla sanzione può favorire, e non distruggere, la spontanea ubbidienza alle norme. Si tratta di prendere sul serio quella che può essere chiamata “normatività orizzontale”, che a pensarci bene rappresenta peraltro l’unica giustificazione per quella “verticale” derivante dalla costrizione: è perché sono obbligato che, in mancanza di adempimento, posso (e devo) essere punito; e non viceversa.

Se è così, quello che è stato chiamato lo «spettacolare indebolimento del concetto di sanzione» (Raffaele Simone) non si risolve dando alla sanzione un posto che non le spetta, ma piuttosto riconducendola nell’alveo che le è proprio, anche sul piano teorico oltre che su quello pratico. Dobbiamo forse ripartire da qui se vogliamo affrontare il problema di una insufficiente cultura della legalità, problema enorme in un Paese, nel quale «per censurare una condotta occorre qualificarla come reato», e in cui l’«unica etica pubblica rimasta» sembra essere quella giuridica (M. Donini, Il diritto penale come etica pubblica, Mucchi, Modena 2014, p. 29 e 34).

 

  1. Certamente, col tempo, persino «gli italiani possono diventare disciplinati, ordinati, bene organizzati» (G. Fatelli, Il desiderio della legge, Meltemi, Roma 1999, p. 79), ma ciò non si otterrà se continueranno ad essere convinti di dover ubbidire alla legge solo perché altrimenti intervengono poliziotti e magistrati. Occorre che essi imparino a sentire il dovere di ubbidire alle regole, a prescindere dal fatto che avvertano il pericolo di andare incontro a conseguenze negative qualora non lo facciano. Un dovere che non è (necessariamente) derivante dalla morale, e che dunque non dobbiamo ricondurre a chissà quali ‘alti’ fondamenti, ma discende direttamente dalla semplice esistenza della norma giuridica. È del tutto ovvio che la sfida di una rinnovata etica pubblica non si gioca soltanto sul piano giuridico, e meno che mai su quello del diritto penale, venendo a coinvolgere quell’intreccio tra costume, morale e politica che si realizza sul piano della società civile; ma non bisogna dimenticare che in questo rinnovamento gioca un ruolo ineludibile la nostra cultura giuridica. Solo con un profondo ripensamento di quest’ultima si potrà creare quel circolo tra fiducia interpersonale e fiducia istituzionale, la cui assenza è uno dei punti deboli del sistema socio-politico della nostra penisola.

 

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