Uno degli ultimi “rivoluzionari di professione”. Un addio e una riflessione sulla nobiltà dello spirito

sabato, 19 Giugno, 2021
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Se ne è andato Franco Calamida, “un ricercatore dell’unità, protagonista delle lotte del ’68-69”. Leggi qui il ricordo dedicatogli da “Il Manifesto”, 16 giugno 2021

Non ho conosciuto davvero Franco Calamida, l’ho solo incontrato – credo a casa di Piero Basso e attraverso l’Associazione Costituzione Beni Comuni. E non ho mai dedicato una lettera d’addio se non a persone che avevo nella vita almeno per qualche aspetto conosciuto bene. Ma il ricordo che ne ha pubblicato il Manifesto del 16 giugno scorso, a firma dei principali esponenti di questa Associazione, non è solo toccante. Almeno in me, ha smosso strati e strati di questioni dolenti, le risposte alle quali molti di noi da molto tempo vanno cercando, senza (che io sappia) trovare risposte vere, risposte profonde se non definitive. Già: uno degli ultimi “rivoluzionari di professione” … “la parola aveva un senso nobile allora, e non evocava violenza, ma il coraggio di rischiare, di pensare di cambiare il mondo e misurare le proprie idee tra le persone con cui lavoravi o studiavi”. Ecco: “nobile” è l’aggettivo che più mi ha colpito. “Nobile” è quello che meglio si attaglia al tono di quella rievocazione, come ai suoi stessi autori, i compagni di strada: a coloro che sono rimasti fedeli agli ideali di giovinezza, senza (che io sappia) irrigidirli in un’ideologia. E scrivo con incertezza, eppure li ho visti cercare nuovi modi di incarnare quegli ideali, modi attenti alle esigenze dell’ora, spesso drammatico: alle sofferenze vere del presente, nel suo orizzonte più largo come in quello più vicino, quasi evangelici Samaritani. Dai convegni sull’emigrazione e il mondo globale alla resistenza alle fiumane fangose di opacità e corruzione sempre rovesciate anche qui, in questa loro e nostra Milano, da uno sviluppo mai sostenibile, nell’intreccio mai sciolto fra affari e politica. Come un “ricercatore” – anche di unità, nel mondo tanto diviso delle sinistre “alternative” –gli amici ricordano Franco Calamida; e anche, in questa ricerca (“cinquant’anni di vita politica e di passaggi sofferti fra unificazioni e divisioni nella sinistra rivoluzionaria”), come un uomo “gentile, tollerante, portatore di dubbi, conviviale”. Ogni anima che si alza e accenna a un ideale, anche se questo la costringesse a lasciare incompiute le sue frasi, come accade al gran Pieter Peeperkorn de La montagna incantata, è in un senso “rivoluzionaria” in faccia al conformismo della realtà e degli ingranaggi macinatori di tutto quello che assomiglia alla vela di un’idea, o allo skyline del Regno dei Fini, o al sogno di vera gloria di un ventenne. Ogni anche impotente sconcerto di fronte al conformismo della coscienza cinica è “rivoluzionario”, piaccia o no ai Walter Siti che alla meditazione manniana sulla nobiltà preferiscono Céline e i suoi epigoni. Tanto più “rivoluzionaria” la solitudine di uno che rinuncia a una brillante carriera di ingegnere per uno stipendio da operaio, e per di più nel “rispetto per le istituzioni, dal Consiglio comunale al Parlamento”. Ma molto migliore aggettivo, meno indeterminato e ambiguo che “rivoluzionario”, per anime come questa, è “nobile”. Nobiltà dello spirito, appunto: perché cos’altro è una fede che è sola “sostanza di cose sperate”, fede senza più dogmi, quando tenta di trattenere l’idea del mondo come dovrebbe essere, in faccia al mondo com’è, e che ti ride in faccia?

E allora, le questioni dolenti? Appunto. E’ solo sostanza di cose sperate, quella fede? O non vuol anche farsi “argomento delle non parventi”, prova delle cose che non si vedono, non si vedono ancora, non si vedono mai – un po’ più di giustizia, i beni di questo mondo un po’ meglio condivisi? Eccolo il nodo dolente, che i filosofi non hanno saputo sciogliere – ancora. Per forza chi crede nella giustizia deve trovare argomenti alla speranza di realizzarle almeno un po’ queste cose invisibili, una vita che valga la pena di vivere per tutti e non solo per pochi, una chance di felicità anche per i ventenni. Argomenti a riprova che è possibile veramente trasformare l’ideale in reale e i valori in beni di questo mondo – almeno un po’. Avere argomenti a riprova di una verità – fino a prova contraria – è ciò che più si avvicina ad avere conoscenza. La fede deve farsi conoscenza. Ma appena ci prova, rischia di farsi lei stessa argomento di cose invisibili. E così diventa mera petizione di principio: ideologia. Facciamo un esempio. Vogliamo tradurre la giustizia (un valore) in un bene che ne realizzi un po’: ad esempio l’acqua bene comune, ossia la gestione pubblica dell’acqua. Bene: mentre non dubitiamo l’acqua, così preziosa per la vita, debba in una città giusta essere accessibile a ciascuno nella misura necessaria senza sprechi e senza latrocini (verità di principio o verità assiologica, che ci pare evidente), non è affatto evidente che la realizzazione di questo valore stia nella gestione pubblica, e non privata, dell’acqua. A volte sembra vero il contrario, purtroppo (se si pensa allo stato disperante degli acquedotti nazionali). Ma è solo un povero piccolo esempio della relazione fra i valori e i beni che in parte li realizzano. Già: quello che eleva una fede non terrena, che altra prova non ha che esser vissuta, alla sua ineffabile purezza (il divino è inconoscibile e non sopporta dottrine, dogmi), abbassa e appiattisce una fede terrena in una specie di idolatria di dubbie verità. E’ questo il paradosso dei valori, che duole irrisolto da tutta la modernità – e su ben più drammatiche questioni ha perduto la Sinistra. Ma in fondo lo conosciamo tutti bene: è il problema dell’anima e del cacciavite, così icasticamente riassunto da Enrico Letta. Ovvero: certo che la fede dell’anima deve farsi conoscenza, ma per evitare l’idolatria – prendere un bene per un valore – deve capire la natura limitata e strumentale dei beni, la loro natura di mezzi. Importantissimi, e da discutere con la ragionevolezza che unisce, non coi dogmi che dividono.

E questo non vuol dire che le questioni serie siano solo questioni tecniche. Vuol dire che il maggior peccato della Sinistra è stato proprio cercare fondamento non nei valori universali che voleva difendere, ma in strane divinità, dubbie e feroci, per colmo di stranezza credute Forze della Realtà. La Storia, ad esempio, quando non la Necessità o lo Sviluppo. Ma così si è barattata l’etica con la pseudoscienza, e si è perduta l’anima. Questo, io credo, Franco Calamida lo aveva capito benissimo.

 

 

 

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