Vogliamo o non vogliamo gli Stati Uniti d’Europa?

giovedì, 11 Novembre, 2021
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La nuova fiammata del sovranismo polacco, i migranti alla frontiera con la Bielorussia respinti a colpi di fucile, e soprattutto la generale inconsapevolezza della questione cruciale della prevalenza del diritto europeo o di quelli nazionali, rischiano di bloccare lo slancio verso una vera Federazione Europea che la pandemia e la mutata situazione geopolitica avevano suscitato. Andrea Manzella sul “Corriere della Sera” (7 novembre) ha affrontato il tema (https://www.corriere.it/opinioni/21_novembre_06/10-cultura-eeecorriere-web-sezioni-ba1eb620-3f3c-11ec-962b-eeb23879ffbb.shtml); pubblichiamo qui una versione un po’ più estesa dell’analoga riflessione di R. De Monticelli uscita su “Domani” (7 novembre: https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/polonia-unione-europea-ruolo-ia9qygyz)

Il 19 ottobre scorso il premier polacco ha tenuto al Parlamento Europeo un discorso che ha giustamente suscitato lo sdegno, pur avvolto nel consueto garbo,  della Presidente della Commissione Europea, Ursula Van der Leyen. “L’Ue è una grande conquista dei paesi europei – ha detto Morawiecki – ed è una forte alleanza economica, politica e sociale ed è organizzazione più forte meglio sviluppata della storia, però la Ue non è uno Stato, lo sono invece gli stati membri della Ue. Gli stati sono quelli che rimangono sovrani al di sopra dei Trattati”.

Lo sfondo di questo diverbio è noto. Il 7 ottobre era stata presentata la sentenza del Tribunale Costituzionale polacco che contestava il primato del diritto dell’Unione su quello degli Stati membri, e stabiliva in particolare l’incompatibilità con la Carta Costituzionale polacca di alcune disposizioni UE in materia di diritti umani e rispetto delle minoranze (in particolare le minoranze Lgtb). Lo sfondo dello sfondo non va dimenticato: la tensione fra l’UE e il governo polacco guidato dal partito conservatore di destra Diritto e Giustizia (PiS) riguarda, oltre ai diritti delle minoranze, la libertà di informazione e la riforma del sistema giudiziario polacco, nel senso di una decisa riduzione dell’autonomia della magistratura. Che, in preparazione e parziale attuazione sotto i governi a maggioranza sovranista dal 2015, suscitò a Varsavia nel gennaio di quest’anno “la marcia delle mille toghe”: un lungo corteo aperto dai magistrati polacchi, seguiti da quelli venuti da una ventina di Paesi dell’Unione europea. Insomma, la più importante manifestazione a livello europeo per difendere l’indipendenza della magistratura.

La risposta dell’Unione Europea fu immediata – lo stesso 7 ottobre la Commissione ribadisce, in un documento facilmente reperibile in quel magnifico repertorio del diritto europeo che è il sito eur-lex.europa.eu/ lo spirito e la lettera delle leggi che dell’UE sono l’ossatura normativa: e cioè “i principi fondanti dell’ordinamento giuridico dell’Unione, ossia: il diritto dell’UE prevale sul diritto nazionale, anche sulle disposizioni costituzionali; tutte le sentenze della Corte di giustizia sono vincolanti per tutte le autorità degli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali”.

La risposta del premier polacco avrebbe dovuto suscitare un dibattito vero, profondo e libero proprio sul principio che il leader sovranista enuncia con decisione: “la Ue non è uno Stato, lo sono invece gli stati membri della Ue. Gli stati sono quelli che rimangono sovrani al di sopra dei Trattati”. Avrebbe dovuto e dovrebbe, perché è qui il cuore della questione, ancora più che sui singoli diritti delle minoranze (si è visto anche in Italia che fine ha fatto la legge Zan) e sulle insopprimibili pulsioni degli esecutivi nazionali a limitare l’autonomia dell’ordine giudiziario (anche qui ne sappiamo qualcosa anche in Italia). E cioè: che tipo di entità politica è l’Unione Europea? Che cosa vogliamo che diventi? Dipende da noi, che siamo cittadini europei ancora prima che nazionali, eleggiamo un Parlamento, il quale esprime un esecutivo (la Commissione), possiamo appellarci a una Corte di giustizia anche contro sentenze degli organi giudiziari nazionali, e  assistiamo troppo spesso, sconcertati, all’impotenza dell’altro organo che, congiuntamente al parlamento, “esercita  la funzione legislativa e la funzione di bilancio” (Trattato di Lisbona, Titolo III, Art. 9 B): il Consiglio (dei capi di Stato e di Governo). Anche di questo sappiamo qualcosa: pensate al Trattato di Dublino, che affibbia la gestione dei migranti ai paesi di prima accoglienza invece di regolarne con equità e lungimiranza l’esame e la distribuzione fra i diversi paesi dell’Unione. Sono anni che il Parlamento preme verso una soluzione equa e razionale, e il Consiglio va in blocco. Pensate alle iniziative cruciali e delicate sulla necessaria costruzione di una vera presenza internazionale europea, nello scenario mondiale attuale, presenza già idealmente delineata nel Trattato di Lisbona in termini che riecheggiano alla lettera le pagine di Kant Sulla pace perpetua: Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà – con l’aggiunta evidentemente del principio di democrazia e del rispetto della Carta delle Nazioni Unite (Capo I delle Disposizioni Generali sull’azione esterna dell’Unione). Pensate anche all’istituzione di una Difesa Comune Europea, che risponda a questi principi invece che alle logiche della selva geopolitica: anche questa è predelineata dal Trattato di Lisbona, ma soggetta alla regola bloccante dell’unanimità in consiglio (basta il veto di uno e la decisione non si prende). Questa impotenza è radicata nell’inevitabile prevalere (a meno di modifiche della regola di unanimità) delle sovranità nazionali sugli interessi dell’Unione. Altiero Spinelli lo denunciò instancabilmente come radice dei fallimenti di tutte le grandi entità politiche sovranazionali, dalla Grecia antica in poi. Fino a quella Federazione degli Stati Uniti d’Europa che la chiarezza della sua mente e la forza delle sue azioni andavano plasmando, fino alla svolta grandiosa dell’approvazione da parte del Parlamento Europeo,  il 14 febbraio 1984, del Progetto di Trattato che istituisce l’Unione Europea, altrimenti detto Progetto Spinelli. Dove tutta l’architettura legislativa, esecutiva e giudiziaria dell’Unione, nonché i grandi ambiti valoriali che ne definiscono gli scopi, sono delineati con un’esattezza normativa e un respiro strategico che faranno – letteralmente – da modello al design dell’assetto istituzionale dell’UE, quando la situazione internazionale renderà possibile istituirla, a partire dalla caduta del Muro di Berlino. L’Art. 42 che definisce il primato del Diritto dell’Unione su quello degli Stati membri è passato quasi inalterato nello spirito, benché sminuzzato nelle parole, ai successivi trattati, da Maastricht a Lisbona. “Il diritto dell’Unione è direttamente applicabile negli Stati membri. Esso prevale sul diritto nazionale…”. Seguono indicazioni precise su come implementare normativamente questo primato.

Gianfranco Pasquino ha scritto il 2 novembre su Domani che senza ideologie trionfano i populismi, e che la forza dell’Unione Europea sta nel suo farsi portatrice di “un’ideologia democratica”. Come vorrei che si aprisse un dibattito che vada oltre questa parola ambigua, “ideologia”, e affronti il problema cruciale: vogliamo una democrazia sovranazionale, dunque a tutti gli effetti gli Stati Uniti d’Europa, o crediamo che i concetti di sovranità democratica e di nazione siano indissociabili? Quest’ultima è un’opinione che ha lungamente prevalso anche nella Sinistra. Pasquino cita giustamente la celebre tesi di Spinelli che i partiti europei non si sarebbero più distinti in destra e sinistra, ma fra quelli favorevoli e quelli contrari all’unificazione politica dell’Europa. Ma non certo perché non sia chiaro il carattere progressista, di “sinistra”, del progetto federalista. Per un’altra ragione: che è un progetto che pone vincoli normativi all’arbitrio dei “sovrani”, vincoli fondati in quei minimi comuni denominatori di un pluralismo sostenibile che sono alcuni valori universalmente accessibili alla ragione, alla sensibilità e alla buona volontà di ognuno. E non figure della coscienza “portate” da forze più o meno progressiste della storia: non “ideologie”. La storia non ha alcuna direzione, e resta gravida di tragedie.

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