Il paradosso di Kaliningrad e le stelle di Kant

martedì, 23 Agosto, 2022
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C’è una domanda che attraversa tutto questo lungo articolo uscito su Domani (19 agosto 2022). Ecco come viene riassunta nella versione pubblicata (scaricala qui, con la bellissima foto). 

A Kaliningrad, la Russia dispiega la sua flotta baltica e accresce i missili a portata nucleare. Proprio là, nell’antica Koenigsberg di Kant, sulla cui tomba sono incise le parole che definiscono la civiltà moderna. Perché non abbiamo saputo mantenere le sue più grandi promesse?

Qualcuno continua a deporre rose rosse sulla tomba di Kant, a Kaliningrad. Tutti lo sanno: Kalinigrad è la Koenigsberg devastata da due guerre mondiali, che sotto i nazisti vide lo sterminio di 200.000 ebrei lituani e dopo la liberazione ad opera dell’Armata Rossa nel 1945 condivise il destino di russificazione delle Repubbliche Baltiche, mentre dopo la loro scelta di indipendenza e lo sfascio dell’Unione Sovietica nel 1991 divenne una exclave russa che confina ora con due stati membri della Nato, Polonia e Lituania (dal 2004 membri anche dell’Unione europea). Ma intanto lì, a Kaliningrad, dove Mosca dal 1952 schiera la flotta del Baltico, ci sono i missili Iskander con capacità nucleare, mentre Putin annuncia di peggio per la fine dell’anno, il supermissile balistico intercontinentale Sarmat.

Mai come oggi una pietra tombale grava sulle parole che fanno da epitaffio alle ceneri del grande filosofo illuminista, le sole forse che tutti conoscono: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me».

Ci vorrebbe un grande drammaturgo tragico, capace di distillare l’essenza paradossale del fiume di storia e di sangue che scorre da quelle parti, ai confini delle terre baltiche, della Polonia, della Germania e della Russia. E un filosofo, ci vorrebbe, per sollevare con l’ampiezza necessaria di prospettiva, e insieme la necessaria esattezza, la grande domanda che s’annida in fondo alla nostra angoscia: perché?

Perché la nostra modernità non ha mantenuto alcuna delle sue promesse vere, le più grandi, le sole degne del senso ultimo di quella legge e di quelle stelle nelle cui immagini ci eravamo specchiati e definiti?

L’ANCIEN RÉGIME E IL REGNO DEI FINI

Una cosa hanno in comune quella legge e quelle stelle. E non è solo l’eternità, o meglio l’essere immuni dai relativismi e storicismi e sondaggismi di questo demi-monde di media e social: come la luce di una stella non varia al mutare delle cose illuminate, come la giustezza che ci vorrebbe non si riduce alle sue approssimazioni parziali nel fatto delle azioni, dei pensieri, delle risposte giuste.

Altro, c’è: e lo dico «in quella forma in cui i pensieri si presentano alla mente quando ancora sono vivi», quella delle vive conversazioni in cui eccellono i romanzi russi.

«In quel nuovo modo di esistere pensato dal cuore e in quel nuovo aspetto dei rapporti tra gli uomini che si chiama regno di Dio, non ci sono popoli, ma ci sono individui».  Questa è la voce di un grande illuminista russo del XX secolo, il dottor Živago.

Ecco: è la nostra individualità personale che si è finalmente riconosciuta e definita nell’eternità di quelle stelle e di quella legge. Lo ha detto Kant, questo, o lo ha detto il vangelo?

Oh, Kant l’ha solo sfiorata questa verità, ma ci ha aiutato a estrarla dal vangelo. Dire che nel regno di Dio non ci sono né elleni né giudei vuol dire solo che davanti a Dio tutti sono uguali? No, questo lo si sapeva fin da prima, dai filosofi greci, i moralisti romani…

Quando lo ha chiamato “regno dei fini”, quello che chiamavano il regno di Dio, Kant ha estratto questo strato più profondo di verità, piantando in terra la vigna futura di quel regno, che era già vivo nelle nostre città, nella civiltà che si liberava dall’ancien régime.

Il regno dei fini è quello che ogni ragazzo intravede in qualche pigro mattino dell’adolescenza, quando vede chi, forse, potrà essere nel mondo, e cosa potrà portargli di nuovo, che nessun altro potrebbe come lui.

Sono, l’ancien régime e il regno dei fini, due modi opposti di vivere insieme, in una società umana. Il primo è al massimo quando la personalità, l’autonomia morale, l’iniziativa creativa, la vocazione esistenziale, la libertà civile, la partecipazione politica degli individui sono a zero, e la coscienza collettiva è tutto.

Allora l’uniformità del pensare e dell’agire è massima, e massima è la coesione, la religio, il sacro. Essere diverso è sacrilegio, e l’individuo che lo perpetra merita il sacrificio. Le società che sono in guerra tendono a precipitare in questo regime, lo avete notato?

Il secondo tipo di civiltà invece cresce con il livello di consapevolezza che ciascuno ha dell’interdipendenza delle funzioni e degli atti propri e di tutti gli altri, cioè con la cultura di ciascuno. In questo «noi», la pressione sociale sulla coscienza individuale può essere ridotta al minimo, e l’individuazione delle persone è al massimo, massima la diversità dei fini, il contrasto di fedi e vocazioni: eppure può essere al massimo anche la solidarietà.

Non come spirito di corpo, ma come corpi dello spirito: le istituzioni e le norme, gli obblighi e i diritti, i poteri e le forze che le volontà possono attivare. Perché ciascuno conservi e accresca la dignità che gli spetta come persona unica, diversa da ogni altra, irripetibile. E’ questo, il regno dei fini.

DEMITIZZARE SENZA DECOSTRUIRE

Kant ne ha solo intravisto le lontane frontiere. Un altro paio di secoli ancora è durato il lavoro del pensiero serio dell’umano e della civiltà. C’è voluto il coraggio di guardare in faccia la faccia d’ombra della modernità, le facce dei dannati della terra, d’altre fattezze e colori.

C’è voluta ai filosofi l’umiltà di mettersi a scuola dagli antropologi – e pochissimi l’hanno veramente avuta. Non i francesi, ad esempio, che pure hanno tritato e fritto la filosofia in salsa di sociologia e antropologia culturale e su questa nouvelle cuisine hanno fondato le loro grandes écoles.

Non gli americani, che la filosofia l’hanno divisa in due: quella seria che di mestiere demolisce come fosse mitologia tutto quello che non è fisica, compresi la fatica della libertà e il disagio della civiltà, e quella chic, europeizzante, critica, esistenziale o post-coloniale, tanto felicemente postmoderna che quando entri nelle aule in cui si insegna ti par di entrare in un film di Woody Allen.

L’umiltà vera era quella di un pensiero capace di demitizzare l’idea di persona già nota a un Boezio (V-VI secolo) e tramandata attraverso tutti gli umanismi – senza decostruirla.

Anche Boezio l’aveva intravisto il regno dei fini, attraverso il vangelo. Sapeva che essere una persona è interpretare a modo proprio e inscenare nel mondo, insomma impersonare, la natura ragionevole: darle individualità, volto, mani e destino.

Cosa vuol dire demitizzare senza decostruire? Vuol dire che non c’è renovatio mentis senza renovatio civitatis.

Vuol dire che il ragazzo, la ragazza che si risveglia al senso possibile della sua vita non si vedrà concessa questa possibilità direttamente dalla mano di Dio, ma dalle opportunità, dalle esigenze, dalle interdipendenze, dalla differenziazione e dall’intreccio, entrambi miracolosi, delle funzioni professionali che una società democratica e prospera può offrire.

Vuol dire, soprattutto, che ben poca cosa è quella “natura ragionevole” che ci distingue dagli altri animali, e consiste solo nel fatto che siamo animali culturali: cioè non solo sociali, ma bisognosi e capaci di seguire regole.

Ci vuole un salto enorme o piuttosto una lenta maturazione per passare dallo stato di animale normativo a quello di persona: che le regole non le segue alla cieca o per tradizione o per religione, ma si chiede che senso hanno, e le segue a ragion veduta, o le cambia.

E con questo siamo tornati a Kant: al suo sapere aude, abbi il coraggio di pensare con la tua testa, ché la natura ragionevole è ben poco senza il divenir adulti, e l’età di ragione e responsabilità. E questa non è una svolta nella vita individuale o nella storia: è in entrambi un processo permanente, o non è.

O si rinnova ogni giorno, l’esercizio di ragione e spirito, o diventa l’inerzia atroce della lettera morta, dei testi sacri o dettati dai dittatori, anche per interposta riesumazione dei cadaveri della mistica fascista (vedi Il filosofo con cui Putin ha forgiato l’apparato russo, Domani 13 luglio).

Non c’è renovatio mentis senza renovatio civitatis, suggerisce il  paradosso di Kaliningrad, la Koenigsberg di Immanuel Kant, sulla cui tomba è incisa la formula della civiltà moderna, col il suo cielo stellato e la sua legge morale. Con le immense promesse che questa formula magica racchiude, come la bacchetta di Prospero.

Spezzata a Kaliningrad, dove si ammassano i missili a capacità nucleare della flotta russa del Baltico. Anche altrove, certo. Ma quella è la polveriera, è la punta del paradosso che può definitivamente affondare il sogno della ragione. Torniamo al punto interrogativo della domanda muta di ciascuno: perché quelle promesse non sono state mantenute?

L’INFANZIA DELLA DEMOCRAZIA MONDIALE

Anzitutto, cosa vuol dire che è la civiltà che si deve rinnovare con noi? Lo aveva capito un altro grande illuminista del XX secolo, Tomaš Masaryk, il fondatore di quella che fu la Repubblica Cecoslovacca indipendente, con il suo luminoso credo: che la democrazia mondiale sia solo nella sua infanzia, e ci sia una “politica sub specie aeterni”, che consiste nel costruirla.

Edmund Husserl, il più umile e il più grande dei filosofi del Novecento, fu in certo modo suo discepolo (oltre che suo conterraneo, nativo della Moravia): per rendersene conto basta leggere la grande raccolta di saggi attraversati dall’idea di rinnovamento, che scrisse nei primi anni ‘20 – a partire dall’esperienza della Grande Guerra: L’idea d’Europa (Cortina 1999).

Qui c’era un passo ulteriore da fare, che il gigante di Koenigsberg aveva pure intravisto come via verso il Regno dei fini: e Husserl lo fece. Un altro strato di verità e di spirito da strappare all’inerzia della lettera.

Non è indolore la politica dell’età di ragione, perché le abitudini e le regole in cui siamo cresciuti fanno tutt’uno con le nostre radici (culturali): vagliarle e rinunciarvi se non sono “giuste” è come cambiare pelle, “sradicarsi”.

«La radice non serve», scrive Husserl, l’ebreo sradicatore, che Dio lo benedica. E questa è l’idea di Europa: quella di una patria che rinuncia alle radici di sangue e di terra, perché ne ha di carta e pensiero, universalmente accessibili dall’interno di ogni identità culturale, e sa rinnovarle ogni giorno.

Quando leggete Altiero Spinelli, sembra che gli faccia eco: questa idea, lui la chiama «la civiltà della personalità», e la pensa come un salto ulteriore nel processo di individuazione, che sul vincolo etnico e nazionale della politica faccia prevalere una regolazione delle libere vite, e insieme una moltiplicazione delle opportunità loro offerte, proporzionata al livello sovranazionale della nostra interdipendenza, non solo economica. Che accresca oltre i limiti della propria nazione la sovranità politica dei cittadini, ma anche il loro orizzonte di vita. E di cultura.

UNA NUOVA DEFINIZIONE DI CULTURA

Perché la cultura non è altro che la prospettiva di prima persona sulla civiltà. E una definizione di cultura all’altezza di questa idea, una definizione che smitizza i fondamenti della civiltà, le idee di persona, di ragione e di libertà, dicevamo, senza decostruirle – gliela può offrire il fenomenologo, che dall’umiltà di Husserl e dall’esperienza della prosperità del secondo Novecento europeo discende.

Cultura è consapevolezza del dono dei vincoli. Dei vincoli fattuali e normativi, economici, giuridici, costituzionali, etici, ecologici, estetici, linguistici e logici, all’interno dei quali soltanto la libertà, la novità, la personalità di ognuno possono fiorire.

Cultura è il sapere, per dirla con Durkheim, come «il noi viva in me», o in quali delicate e complesse relazioni di interdipendenza la società viva e agisca in ciascuno di noi, perché la cooperazione non solo sia possibile, ma soprattutto renda possibile a ciascuno lo sviluppo di una vera personalità individuale e indipendente, di una vera autonomia morale e di vere libere vocazioni.

Ma infine: non è, tutto questo di cui abbiamo parlato – l’evangelico Regno di Dio senza giudei né greci, il regno dei fini e le vocazioni personali, le società tradizionali e la civiltà della persona, l’animale normativo e il risveglio delle libertà, la crescita simultanea delle interdipendenze e delle differenze, l’orizzonte universalistico e cosmopolitico della democrazia – non è, tutto questo,  l’abc dell’umanesimo moderno, non è ciò che tutta Europa ha imparato sui banchi di scuola?

Che cosa dunque è successo perché qui, in Europa, a Vilnius e a Kaliningrad, a Kiev e a Mosca, ancora si debba parlare di “popoli” in guerra?

Io chiedo ancora aiuto a quell’illuminista russo, a Boris Pasternak che mi sussurra: «Posso ancora capire cosa significasse il termine ‘popolo’ all’epoca di Cesare, usato per i Galli, o per gli Svevi, o gli Illirici. Ma da allora non è stato altro che un’invenzione, che esisteva perché gli zar potessero parlarne nei loro discorsi, e con loro i politici, e i re: il popolo, il mio popolo».

LE STELLE DI KANT E L’ILLUMINISMO RUSSO

Qui il cerchio si chiude, e noi torniamo a Kaliningrad a portare rose sulla tomba di Kant, che scrisse il trattato Sulla pace perpetua e ne rinviò la realizzazione a quella Federazione Mondiale delle Repubbliche che nel secolo scorso, per terribilmente imperfetta che fosse, assunse un nome ancora più ambizioso: Onu, Nazioni Unite.

Kant il suo trattato lo scrisse forse sull’onda di quel felice allargamento di visuale che sollievo e speranza producono in noi: quando, commentando i Principi dell’89, scrisse che avrebbero indotto il più pessimista dei filosofi a ricredersi sul “legno storto” dell’umanità.

Fu allora forse che rialzò verso le stelle uno sguardo nuovo, diverso da quello con cui scrutava il cielo in giovinezza, quando con Laplace formulò l’ipotesi del determinismo, la legge dell’orologio cosmico. Diverso – come?

Ruberemo a un altro grande illuminista russo del XX secolo le parole per immaginarlo: sempre per via di quelle conversazioni senza fine dei romanzi russi, da cui i pensieri emergono “ancora vivi”.

Anzi, vivi come non furono mai in tedesco e nelle altre lingue occidentali d’Europa. Vivi di quella vita che presta ai concetti dei filosofi europei come una luminosa coda di cometa, grande come la pianura russa, e come dicono sia l’anima che vi abita.

Scrive dunque Michail Bulgakov alla fine del suo primo grande romanzo, La guardia bianca – e la scena che descrive oggi non ci è ignota: «Rimase soltanto l’irrigidito cadavere… presso l’entrata del ponte. (…) Restò a testimoniare che [tutto] c’era realmente stato (…). C’era stato, dunque. Ma perché? Pagherà mai qualcuno per il sangue versato?

No, nessuno.

Semplicemente la neve si scioglierà, ricrescerà la verde erba ucraina, rivestirà la terra… tremerà l’afa sui campi, e traccia non resterà del sangue versato. (….)

La spada sparirà, le stelle invece resteranno, e ci saranno, le stelle, anche quando dalla terra saranno scomparse le ombre persino dei nostri corpi e delle nostre opere. Non c’è uomo che non lo sappia. Ma perché allora non vogliamo rivolgere lo sguardo alle stelle? Perché?»

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