A proposito di Jobs Act, politiche di sinistra e tardivi pentimenti su precariato e bassi salari

giovedì, 8 Settembre, 2022
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In questi giorni abbiamo assistito all’improvviso pentimento del Partito Democratico (tra le altre cose, anche per il famigerato meccanismo elettorale del Rosatellum…) sul Jobs Act. Parimenti, abbiamo constatato la tendenza del M5S ad accreditarsi ed essere accreditato come partito che avrebbe a cuore i ceti meno abbienti, i cui interessi e valori la “sinistra di governo”, ossia ancora una volta il Partito Democratico e i suoi sottoprodotti, avrebbe ignorato. Sarebbero due buone notizie, perché il Jobs Act, l’ultimo atto di un lungo percorso di deregulation legislativa trasversale alle forze politiche volta a ridurre progressivamente fino ad annullare il potere di autodifesa negoziale dei lavoratori nella “lotta per la sopravvivenza economica” (Weber), ha sostanzialmente l’obiettivo di riconoscere e fare accettare come fatto “naturale e inevitabile” la rinuncia da parte delle politiche economiche pubbliche a perseguire qualunque obiettivo di piena, stabile e dignitosamente remunerata occupazione (mentre è il frutto di precise scelte di politica economica di lungo periodo a essa ostili per precisi interessi di classe) da sostituire con presunte virtuose “politiche attive del lavoro”, condizionate e comunque concesse solamente fino a un certo punto, per non “fiaccare” l’intraprendenza – ahimé, così si dice – delle persone. Vale la pena allora di ricordare alcuni passaggi storici che a partire dagli Anni 90 hanno visto protagoniste anche e a volte soprattutto le forze politiche che oggi cercano di riaccreditarsi con i lavoratori italiani, o meglio, con coloro che sono esposti in carne e ossa alla competizione nazionale e internazionale, perché privi di quelle rendite di posizione o privilegi che rendono psicologicamente e socialmente molto più agevole accettare il principio in base al quale il problema del lavoro debba essere considerato essenzialmente un problema di “adeguamento dell’offerta di lavoro (da parte dei lavoratori) alla domanda (da parte delle imprese) e solo fin dove possibile” e che pertanto, per ragioni di “efficienza” presentate come “tecniche”, il lavoratore debba essere reso scambiabile sul mercato come qualunque altra merce.

Ringraziamo Antonio Calafati, economista, per avercelo ricordato in questo post succinto, che riprendiamo dal suo blog.

1.

Escluso l’intermezzo del Governo Conte I (giugno 2018-agosto 2019), il Partito Democratico è stato costantemente al Governo dal 2013. Ha promosso il Jobs Act – la più recente delle forzature mercatiste che via via hanno trasformato le relazioni di lavoro in Italia dagli anni Novanta –, poi approvato nel 2015 durante il Governo Renzi. Ma per sette anni – lunghi e dolorosi per chi ha subito le conseguenze della legislazione introdotta con il Jobs Act – lo ha difeso.

Il Movimento 5 Stelle è stato costantemente al Governo dal 2018 – in una posizione dominante in Parlamento. Dal settembre 2019 al gennaio 2021 (Governo Conte II) lo è stato assieme al Partito Democratico. Non ha mai sollevato il tema del cambiamento dei fondamenti giuridici delle relazioni di lavoro – o proposto l’abolizione del Jobs Act.

La Sinistra italiana ha iniziato a modificare la legislazione sulle relazioni di lavoro in senso mercatista a metà degli anni Novanta, con il Governo Prodi. Ora si dovrebbe rivedere l’intera legislazione sulle relazioni di lavoro – e non solo abolire il Jobs Act. Ma nessuna coalizzazione, movimento o partito – e certo non il Partito democratico – ha intenzione di riaprire uno dei capitoli fondamentali della crisi sociale e morale dell’Italia: la spietata legislazione delle relazioni di lavoro.

2.

La maggior parte di chi ha un lavoro oggi in Italia “non sta sul mercato del lavoro”. Non ci sta l’élite politica, giornalistica e accademica che governa la legislazione del mercato del lavoro, che partecipa e segna il dibattito pubblico su questo tema. Non ci sono anche i magistrati e i professori universitari, la burocrazia nazionale e locale, gli insegnanti, molti occupati nei servizi, nella manifattura e nell’agricoltura. Ed è giusto che sia così. Perché il lavoro non è una merce e non può essere scambiato sul mercato. E dopo la Seconda Guerra mondiale – dopo i drammi del “secolo degli estremi” (Eric Hobsbawm) – il ‘mercato del lavoro’ era stato lentamente cancellato come dispositivo che governa le relazioni di lavoro – mentre si consolidava il ‘capitalismo sociale’. Sostituito dalla contrattazione collettiva, che fissa salario e condizioni di lavoro – sulla base dei quali ogni persona presta il suo lavoro. Giusto così – ma, allora, nessuno dovrebbe essere costretto a stare sul mercato d lavoro.

Dopo il 1989, in Italia l’élite intellettuale e politica della Sinistra ha iniziato a credere negli effetti benefici di mettere sul mercato del lavoro, settore per settore, un sottoinsieme sempre più numeroso di lavoratori. Cambiamento normativo dopo cambiamento normativo, ha fatto aumentare il numero di persone costrette ad andare sul mercato del lavoro per sopravvivere – letteralmente per sopravvivere. Ma sono “gli altri” ad essere stati scaraventati sul mercato del lavoro, costretti a lavorare in condizioni di incertezza esistenziale ed economica che già all’inizio dell’Ottocento apparivano inaccettabili.

Il mercato del lavoro di cui parlano i leader politici e i disorganici intellettuali della Sinistra italiana è il mercato del lavoro “degli altri”. “Gli altri” devono stare sul mercato del lavoro.

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5 commenti a A proposito di Jobs Act, politiche di sinistra e tardivi pentimenti su precariato e bassi salari

  1. venerdì, 9 Settembre, 2022 at 19:05

    Dubbio filosofico: dovremmo abolire il “mercato del lavoro”? Giusto per capire: ma chi farebbe più impresa, allora? Le categorie di professionisti che tu dici sottratte al “mercato del lavoro” in effetti non lavorano per imprese (salvo eccezioni) private, ma per pubbliche “istituzioni” (Università, Magistratura). Quanto alla “contrattazione collettiva”: da quando in qua la piccola impresa, enormemente maggioritaria in Italia, è stata alla contrattazione collettiva? E’ stato detto mille volte che le protezioni cui tu fai riferimento proteggevano una parte dei lavoratori a esclusione di tutti gli altri. E’ un’obiezione priva di fondamento?

  2. Stefano Cardini
    sabato, 10 Settembre, 2022 at 15:37

    All’espressione “abolire il mercato del lavoro” non saprei dare una connotazione precisa, a dire il vero. Il “mercato del lavoro”, come tutti i “mercati”, è una stratificata costruzione giuridica, cui corrispondono presupposti e obiettivi sociali e politici di volta in volta esplicitabili. Può variare, dunque, per ampiezza, tipologia, organizzazione, regolamentazione, finalità. Di questo ho scritto. Stare sul mercato del lavoro spontaneamente e certi di restare nel perimetro di piattaforme nazionali di contratto collettivamente negoziabili e settorialmente e individualmente eventualmente migliorabili è cosa ben diversa dall’esserne privi o dal potere in qualunque momento esserne privati contro la propria volontà per motivazioni per lo più insindacabili persino se illegittime, non impugnabili salvo – se sei fortunato – modesto e temporaneo risarcimento. È quello che sempre più persone da decenni sperimentano sulla loro pelle e che brucia sul serio quando non hai le spalle coperte (famiglia, una qualche rendita immobiliare o finanziaria, casa di proprietà, alta specializzazione e network professionale, ecc). Nella sua vaghezza retorica, l’opposizione di fatto e di diritto tra “garantiti” e “non garantiti” è stata deliberatamente costruita e incentivata con l’obiettivo non di offrire garanzie a chi non le aveva, bensì di ridurne a chi le aveva, come è da tempo attestabile (si veda per fare solo un esempio: Un paese in bilico. L’Italia tra crisi del lavoro e vincoli dell’Euro di V. Comito, N. Paci, G. Travaglini, 2014). L’Italia, chi lo nega?, è un Paese fortemente caratterizzato dalla cosiddetta “piccola e media impresa” territorialmente diffusa e – a macchia di leopardo – inserita in un tessuto produttivo che ne integra spesso per distretti la filiera. I contratti nazionali collettivi di lavoro non la coprono tutta, certo, ma ne coprono ancora nonostante tutto parte, perché dentro quel generico “piccola e media” stanno anche realtà che non sono microimprese isolate e facilmente vulnerabili a shock di mercato, ma nodi di reti strutturate di attività non facilmente mimetizzabili e che pertanto non possono restare agilmente fuori dal perimetro della contrattazione nazionale. Alla fine di marzo 2022, in definitiva, i 39 contratti collettivi nazionali di lavoro in vigore per la parte economica riguardavano il 44,6% dei dipendenti – circa 5,5 milioni – e corrispondono al 45,7% del monte retributivo complessivo, dipendenti sulle cui spalle (oltre che sui pensionati) grava il 75% dell’onere IRPEF via via deproporzionalizzato. Ovvio, nulla obbliga un’impresa, grande o piccola che sia, ad aderire a una piattaforma nazionale di contratto collettivo, che può anche non essere rinnovata o addirittura essere disdettate dalle imprese. E dunque molte, benché non tutte!, vivono per ragioni di sopravvivenza o avidità situazioni ibride, informali o addirittura illegali, peraltro sempre più diffuse a causa delle esternalizzazioni e delle cessioni vere e false di ramo d’azienda, soprattutto presso le grandi aziende, incluse quelle multinazionali. Ma è proprio verso questa direzione che è stato spinto a forza, in questi decenni, il nostro mercato del lavoro, sotto una pressione padronale dall’alto che da anni chiede non a caso la cancellazione o il drastico ridimensionamento proprio del livello nazionale della contrattazione collettiva, con progressivi successi anche dovuti al cedimento ideologico di accademici, intellettuali, giornalisti, partiti e persino sindacati ai miti della “competitività”, “efficienza”, “produttività”, “flessibilità”, parole mantriche di cui ormai neppure ci si preoccupa di conoscere e discutere il significato tecnico e scientifico, mentre si rivelano correlate a mancanza di investimenti, scarsa innovazione, scarsa formazione, crollo dei consumi. Anche il perimetro dei contratti nazionali di lavoro è stato pertanto reso, a partire dagli Anni 90, man mano sempre più flessibile, quindi poroso verso modalità più informali e irregolari, infine ristretto e negozialmente debole sotto la pressione dell’involuzione legislativa e della esposizione a shock globali, settoriali o generali. Questo ha significato aver ridotto progressivamente la capacità di contrasto degli interessi padronali sia sul fronte normativo sia sul fronte salariale DI TUTTI. I dati sono lì a dimostrarlo. Si è trattato di un processo sia informale (borderline o apertamente illegale) sia formalizzato. Gli interventi sulla disciplina del lavoro (es. Treu, Biagi, Fornero, ecc) hanno infine inclinato anche la giurisprudenza in direzione padronale, per esempio abolendo il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo (Fornero) per concederlo soltanto in caso di “discriminazione”, che automaticamente riporta la questione del diritto al lavoro nella sfera meramente individuale (sesso, razza, ecc). È di questa involuzione del “mercato del lavoro” che s’intendeva qui parlare, dei cui effetti economici, sociali, politici regressivi ora ipocritamente ci si stupisce. L’Italia non ha goduto né di una economia sociale di mercato (es. estremo Svezia) né di una economia di mercato puro (es. Stati Uniti), ma è transitata da formule intermedie tra questi poli, che tuttavia hanno subito dagli anni 90 a oggi un’involuzione tutta in direzione della seconda, non certo un’evoluzione verso la prima. Se ancora può avere un senso spendibile, ahimé, la parola “progressista”, quindi, deve anzitutto decidere da che parte intende fare pendere la bilancia nel gioco democratico. La perdita di consenso “a sinistra” di vastissimi strati sociali economicamente e socialmente più vulnerabili agli schock amplificati dai processi di globalizzazione, salariati e no, rispecchia esattamente questa involuzione. Ma i buoi sono stati fatti scappare, ormai. Il recinto è stato deliberatamente distrutto. Ne va ricostruito uno nuovo.

  3. domenica, 11 Settembre, 2022 at 09:02

    Il mio mestiere non è riflettere sui dilemmi filosofici del pensiero liberale, bensì sui caratteri concreti – contingenti – dell’organizzazione economica, del capitalismo. L’economia come scienza sociale nasce con Adam Smith che fissa nel suo statuto disciplinare lo “sguardo etico”. Uno sguardo che è lo stesso che ha Alexis de Tocqueville mentre visita Manchester al culmine della Rivoluzione industriale – negli stessi mesi in cui lo fa Friedrich Engels, inconsapevoli l’uno dell’altro. E vacillano i suoi principi liberali difronte a quello che vede. Lo sguardo etico dell’economia che consolida e raffina non crea imbarazzi a John Stuart Mill, perché il suo liberalismo, per quanto elitario, già inclina al sociale, e crede nella capacità che ha la democrazia di regolare il capitalismo. Il seguito lo sappiano: abbandonare lo sguardo etico – come suggerisce Hayek – o smettere di guardare, perché la perfezione del capitalismo la puoi kantianamente dimostrare rimanendo seduto sulla poltrona filosofica, come suggerisce la ‘scolastica economica’? Questo è il dilemma dei liberali (filosofico? morale? politico?). Quello che io vedo, guardando con i miei occhi – o all’occorrenza attraverso gli obiettivi della mia macchina fotografica – è la materializzazione di ciò che racconta l’evidenza empirica che l’Istat – e molti altri centri di ricerca – mette quotidianamente sul tavolo (o sullo schermo) di chiunque sia interessato: una catastrofe sociale e morale. E quello che vedo mi fa dire che un capitalismo così – il capitalismo che la Sinistra italiana ha costruito con le sue mani dopo il 1989 – la democrazia italiana non lo regge. Seguo così Raymond Geuss (Not Thinking like a Liberal, The Belknap Press, 2022) nel pensare che l’intersezione tra democrazia, liberalismo e capitalismo che si presenta come una “anti-ideology par excellence” è in effetti una “total ideology”. Alla quale ha aderito, perdendosi, l’élite intellettuale e politica della Sinistra italiana.

  4. Stefano Cardini
    giovedì, 15 Settembre, 2022 at 09:34

    SALARIO MINIMO R. Ciccarelli, dal Manifesto del 15.9
    L’approvazione della direttiva sul salario minimo da parte di una larga maggioranza del parlamento europeo a Strasburgo (505 voti favorevoli, 92 contrari e 44 astensioni) ha aperto ieri un altro fronte dello scontro elettorale in Italia e ha mostrato tutte le ragioni per cui non è stata varata una legge negli ultimi quattro anni. La direttiva non rende né automatica, né obbligatoria l’adozione di una misura che in Italia è rimasta nei cassetti.
    CON IL NUOVO governo, a maggioranza di estrema destra come vaticinato dai sondaggi, la remota possibilità di introdurre un salario minimo rischia di diventare una chimera. Lo ha confermato ieri la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che ieri a Genova ha detto: «Temo che il salario minimo non risolva il problema dei salari perché la maggioranza delle persone ha un contratto nazionale che prevede già un minimo salariale. Il problema è la tassazione sul lavoro. Se vuoi alzare i salari la prima cosa che devi fare è tagliare il cuneo fiscale. Questa è la priorità oggi. Questa e favorire e incentivare il lavoro».
    IL RAGIONAMENTO non è nuovo. Lo abbiamo sentito già durante l’agonia del governo Draghi. Allora la questione del salario minimo è stata contrapposta alla contrattazione che nel nostro paese supererebbe l’80 per cento del lavoro dipendente, una soglia richiesta dalla direttiva europea. Da parte dei sindacati confederali c’è, a tale proposito, il timore che un salario minimo fissato per legge sia usato dalle imprese per indebolire la contrattazione. Inoltre Meloni vincola la questione salariale al taglio del costo del lavoro, senza chiarire quale sarebbe l’entità del taglio per i lavoratori e quale per le imprese. E esclude una riforma progressiva del sistema fiscale che oggi penalizza il lavoro dipendente. Un’eventualità esclusa dalle destre thatcherian-reaganiane che straparlano di «flat tax». Così facendo è stato neutralizzato il problema dell’assenza del salario minimo in Italia che resta uno dei sei paesi europei su 27 a non averlo.
    COME SPESSO accade in Italia con tutti i diritti, sia quelli sociali che civili, anche sul salario minimo si sta giocando a scacchi a livello europeo e locale. A Strasburgo Lega e Fratelli d’Italia hanno votato a favore della norma. In Italia, invece, la pensano diversamente. Anche perché il dispositivo votato lascia per sua natura ampi margini di discrezionalità. «La direttiva non prevede alcun obbligo dal momento che la tutela è garantita dai contratti collettivi – dicono per esempio i leghisti – Ora si dovrà lavorare per contrastare i contratti pirata e quelli fonte di dumping salariale». Questioni più che note ma che non escludono l’introduzione di un salario minimo per chi, ad esempio, non rientra in un contratto nazionale, oppure per chi, pur avendolo, lavora al di sotto del minimo.
    NELL’EMISFERO politico-elettorale opposto ieri è stato un rivendicare i meriti politici. Il Pd, membro del gruppo dei socialisti e democratici, ha cantato vittoria. Ma non ha spiegato la ragione per cui la misura non è stata adottata in Italia. I Cinque Stelle lo stesso. Loro che parlano di «salario minimo» almeno dal 2018 non lo hanno portato a casa. È uno dei fallimenti del governo «Conte 2» quando avrebbero potuto vararlo insieme. E invece è stato impallinato dai veti incrociati politici e sindacali. Con Draghi a Palazzo Chigi il ministro del lavoro Andrea Orlando ha proposto la complicata categoria di «trattamento economico complessivo». È rimasta sul tavolo e da lì non si è più mossa. Il suo collega, il ministro dell’agricoltura Stefano Patuanelli (M5S), ieri si è espresso in maniera irridente: «Il salario minimo è legale (con una soglia fissata per legge) o non è salario minimo, ma semplicemente un artificio retorico: le persone non fanno la spesa con il “trattamento economico complessivo” ma con il netto in busta paga».

  5. Stefano Cardini
    giovedì, 15 Settembre, 2022 at 09:41

    REDDITO DI CITTADINANZA Il reddito di cittadinanza è stato molto criticato, spesso senza alcun riferimento a evidenze concrete. Questo rapporto Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) del 15/04/2022 consente di capire chi ne beneficia, chi no e perché e questa FAQ del 18/07/2022 ad apprenderne i criteri. Interessante, sui veri limiti del provvedimento, questa intervista a Chiara Saraceno, già docente di sociologia della famiglia presso l’università di Torino e successivamente professoressa di ricerca presso il Wissenshaftszentrum Berlin fuer Sozialforschung, attualmente è emerita presso quest’ultimo e honorary fellow al Collegio Carlo Alberto di Torino.

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