Lettera a una giovane leader sulla sinistra, l’anima e l’infelicità

lunedì, 19 Dicembre, 2022
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Non dirò che speravo in una risposta – sarebbe stata una speranza surreale. E tuttavia, che proprio nessuno trovi che una risposta la meriti, anche solo stroncatoria o sarcastica, mi fa pensare che avesse ragione l’amico che mi disse un giorno: “tu scrivi lettere lunghe come quelle di San Paolo e non meno difficili”. Questa volta ne ho scritta una a quattro mani con Simone Weil. O forse io ci ho messo solo le mani, e lei la testa. L’avevo mandata idealmente a Elly Schlein, giovane più o meno come Simone quando scriveva da Londra. Almeno servisse da invito a leggerla.

E’ uscita su “domani” il 13 dicembre – scarica qui il pdf.

Bisogna scrivere di cose eterne perché siano di attualità. Restringendo l’orizzonte a un tema di (quasi) eterna attualità in Italia – come ricostruire una Sinistra – vorrei (con vera timidezza) proporre qualche considerazione alla giovane donna che molti sperano possa contribuire davvero al rinnovamento del suo maggiore partito, se ne diverrà segretaria. Stimabilissimi consiglieri, senza eccezione più esperti di chi scrive in cose di politica, immettono quotidianamente nel dibattito slogan che sento ripetere da che vivo: come ad esempio che la sinistra si salva solo se affronta sul serio la questione sociale, o la unisce con la questione ecologica, o ritrova radicamento territoriale e “di massa”. Ma siamo sicuri che siano “masse” e territori da un lato, povertà semplicemente materiale dall’altro, a sfuggire alle attuali dirigenze politiche progressiste? Siamo sicuri di non essere noi, ciascuno di noi individualmente, gli infelici che sfuggono allo sguardo di quelle dirigenze? Non potrebbe rivelarsi più illuminante per dei leader che non abbiano dimenticato la loro motivazione di fondo – e cioè la fame e sete di giustizia, supponiamo – indagare la nostra infelicità, almeno per quanto essa dipenda dall’essere la nostra una società ingiusta?

La sinistra e le parole proibite

A Londra, chiusa nell’ufficetto dove era stata relegata perché non disturbasse troppo i manovratori della storia intorno all’anno 1942, Simone Weil si interrogava sulle pietre angolari della nuova civiltà europea da ricostruire dalle rovine di quella presente. E scrutò a fondo l’infelicità umana. Vide il mondo sociale del Novecento a tal punto svuotato della sua polpa, che era il mondo morale della civiltà dei Lumi e dei diritti, da lasciare alla civiltà europea soltanto la sua buccia, tanto facilmente stracciata sotto i panzer nazisti (Parigi era occupata già da due anni). Lei preparava una Dichiarazione dei Doveri verso l’essere umano, che l’Età dei Diritti (come la chiamò più tardi Norberto Bobbio) aveva trascurato. Perché aveva trascurato la parte più importante dei bisogni umani ai quali i diritti rivendicano dovuta soddisfazione. Facile la banalizzazione in voga oggi come allora: certo, i diritti civili (oggi aggiungeremmo: anche quelli che riguardano le scelte di genere, la procreazione assistita, il fine vita) sono niente senza diritti sociali, come i fini senza i mezzi o l’anima senza il corpo. Ma separare l’anima dal corpo o il mondo sociale dal mondo morale è precisamente condannare il pensiero politico alla vacuità. Come curerete l’infelicità del maggior numero se non sapete dove ha veramente origine? E senza dubbio ha origine nell’anima, come ogni cosa umana.

Non fraintendete: occorre seguire fino in fondo lo sforzo supremo di una mente che ha fatto tesoro della sua breve ma bruciante esperienza del male sociale, fin nel cuore della catastrofe mondiale: e se usa parole proibite a sinistra è proprio per strapparle alla menzogna di chi le usa per sfruttare la nostra infelicità, e non per illuminarla. Simone vede nel bisogno d’ordine il primo dei bisogni ignorati dell’anima umana. O piuttosto, un meta-bisogno: la chiave per capire tutti gli altri. E’ il bisogno di equilibrio fra bisogni contrari. Avviene per l’anima come per il corpo: abbiamo bisogno di nutrimento, ma anche di un intervallo fra i pasti; abbiamo bisogno di caldo e di fresco, di riposo e di esercizio. Veniamo allora agli eterni principi (del 1789). Noi abbiamo bisogno di libertà e di obbedienza. Perché la libertà, per non far danno, deve esercitarsi nel libero consenso: alle leggi (pagare le tasse, non rubare etc.); all’autorità che mi guida (lo specialista alla sua scienza e tecnica, l’opera d’arte alla disciplina della sua fruizione, l’insegnante all’apprendimento della sua materia). C’è molto di più della distinzione fra la libertà liberale e quella repubblicana, coi vincoli che pone perché la libertà non produca dominanti e dominati (come ha ricordato Andrea Capussela su Domani il 9 dicembre:  https://www.editorialedomani.it/idee/commenti/la-costituzione-indica-una-strategia-per-battere-la-destra-xzbop85s). Perché questo equilibrio approfondisce anche il senso dell’eguaglianza, di cui abbiamo tanto bisogno quanto ne abbiamo – altra parola proibita –  di gerarchia. Infatti, è perché siamo certamente tutti eguali in dignità, che chi esercita qualche potere su di me deve essere competente a farlo, avere titolo a esercitarlo, e mostrarsene degno: il giudice deve essere più e non meno impeccabile del cittadino sanzionato, il Presidente di un Parlamento deve essere “all’altezza” del suo ruolo perché io non ne sia umiliato come cittadino. Il sentimento della nostra pari dignità e delle conseguenti pari opportunità di cui dobbiamo tutti godere è gravemente offeso se ai ruoli istituzionali non corrispondono i titoli di merito. Ma il concetto di gerarchia è più ampio di quello di meritocrazia, perché include anche la priorità dell’attenzione dovuta ai bambini, il peculiare rispetto dovuto agli anziani, l’ammirazione della bontà gratuita o della bellezza, il riconoscimento dei ruoli. E’ proprio questo non prescindere affatto dalle qualità individuali e sociali delle persone che diversifica questa teoria della giustizia da quelle di Kant e di Rawls, dove i soggetti che “scelgono” i principi di una società giusta sono in definitiva le persone solo in quanto soggetti morali, e non anche in quanto soggetti incarnati nella loro condizione vitale e sociale, dall’infanzia alla maturità: l’anima sta nel corpo, appunto.

Disordine e dolore rimosso

Liberté Egalité Fraternité: e il terzo dei grandi principi? Credo si debba intendere precisamente come la ragione degli opposti: libertà e uguaglianza sono bisogni da riconoscere, ma non a detrimento dei bisogni loro opposti. Senza questo riconoscimento l’altro è trattato con prepotenza e protervia, e non fraternamente. Già: quanti equivoci su “destra” e “sinistra”, quante confusioni o scimmiesche imitazioni, da un lato o dall’altro, di reciproche bandiere ci risparmieremmo se comprendessimo più a fondo la natura del disordine che vediamo intorno a noi, nei paesaggi stuprati, nei talenti dissipati, nelle scuole umiliate, negli abusi condonati, nella corruzione premiata, nella mediocrità incoronata, nell’ignoranza impunita. Quanta infelicità potremmo risparmiarci se attraverso questo disordine nel mondo sociale vedessimo quello dell’anima nostra azzoppata del suo bisogno d’ordine, zittita a forza di provvigioni o bonus.  E parlo della vita di ciascuno: perché i due poli dei bisogni dell’anima non sono l’opposizione fra “valori” o “interessi” di gruppi o soggetti contrapposti, in relazione alla quale i moderni giuristi parlano di “equilibrio” o “bilanciamento”: ad esempio, nella bioetica contemporanea, fra “esigenze della madre” ed “esigenze del nascituro”. E’ in ciascuna singola persona che l’un bisogno chiede il vincolo dell’altro, precisamente per non degenerare, prima nell’ideologia e poi nel male: libertarismo anomico ed egualitarismo populista, particolarismo delinquente e comunitarismo opprimente. La prova a contrario è nelle società private della libertà – cosa che rende servile l’obbedienza, e della pari dignità – cosa che rende avvilente la gerarchia. Somigliano a quella sognata dal Grande Inquisitore dostoevskiano, basate sul baratto fra libertà e “felicità”. Se potesse mai esistere per gli umani una felicità del genere: che consisterebbe nell’essere del tutto sollevati da uno dei poli, il polo inquietante, quello del rischio  – cosa che rende mortifera la sicurezza.

Non separate la pancia e la virtù – o seminerete barbarie.

Prima la pancia e poi vien la virtù, cantano il banchiere e il filibustiere di Brecht, e hanno torto. E’ il vecchio modo di stabilire l’agenda politica della sinistra, e non sarà una sfumatura di ecologia a svecchiarlo. La pancia è triste quando è vuota, ma l’anima è triste anche se la pancia è piena, quando le manca la “virtù”: il talento e le qualità, il valore che ciascuno sperava di poter mostrare, per essere riconosciuto e amato. Ma come si fa senza mondo morale. Quello della pancia che viene prima è il modo sbagliato di “radicare” la politica. Nel territorio? Fra le masse? Ma perché non vedete che siamo noi, semmai, quelli sradicati dai tempi che cambiano, come i lavori, le abitudini, i paesaggi. “Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana” – così Weil continua la sua esplorazione dell’infelicità. E anche uno dei più difficili da definire, dei più facili da fraintendere: in senso identitario, nazionalista, tribalista. Le tragedie del Novecento, ma anche quelle presenti, lo insegnano. E’ tragedia distruggere il tesoro del passato in cui affonda la mia vita, ma è tragedia distruggere anche tutto l’altro di cui vivo: comunità e paesi nuovi, nuove professioni, la speranza, il futuro. Le vere Origini, secondo il bellissimo titolo del libro del bosniaco-tedesco Saša Stanišić presentato da Lisa di Giuseppe (Domani, 9 dicembre: https://www.editorialedomani.it/idee/cultura/origini-stanisic-libro-balcani-germania-vf2trq2q). Fino al paradosso della guerra: che afferma un’identità collettiva distruggendo tutte le fonti di vita degli individui. Quando il cosiddetto Occidente inalbera le bandiere dei diritti umani e della democrazia, questi universali strumenti di senso inventati per abolire le guerre, mentre costruisce i caccia dell’avvenire, nel nome di un “noi” sempre più simile al loro profilo di squali.

Forse è questo il mistero di una sinistra europea che sta finendo di divorare se stessa. Per aver separato la pancia e la virtù ha perduto l’una e l’altra, e alternativamente, schizofrenicamente, insegue fuori di se stessa il polo ignorato, o quello degenerato, dei bisogni dell’anima. Non risorgerà finché non saremo noi a scendere fin nel fondo della nostra infelicità per conoscerla: per riscoprirvi il più rimosso dei bisogni dell’anima umana, “il più sacro”: il bisogno di verità.

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2 commenti a Lettera a una giovane leader sulla sinistra, l’anima e l’infelicità

  1. martedì, 20 Dicembre, 2022 at 10:44

    Forse bisognava dire in che cosa consiste la virtù nella politica in un mondo in cui il quadro di potere reale non è più quello nazionale. Qualcuno, giusto negli stessi anni di Simone Weil, l’aveva indicato a chiare lettere: la divisione tra il progresso e la conservazione non passa più lungo le strade della ideologie di un tempo, ma lungo la nuovissima linea di chi vuole costruire istituzioni democratiche sovrannazionali e chi resta invece barricato dentro la logica del potere nazionale.

  2. Maurizio Baldino
    lunedì, 16 Gennaio, 2023 at 18:17

    E’ sempre interessante per la ricchezza culturale che offre e piacevole per la chiarezza espressiva leggere gli articoli della prof.ssa Roberta De Monticelli. Il presente articolo, nel quale è stato posto il dito sulla piaga dolorante della sinistra, mi ha fatto ripercorrere tutte le fasi della mia vita, ormai quasi giunta agli 80 anni, rivivendo esattamente le delusioni che ho provato nella mia piccola esperienza di partito e di vita sindacale, ma uguale delusione ho provato nella vita ecclesiale. E’ proprio vero “la pancia è solo triste quando è vuota”, ma “l’anima è triste anche quando la pancia è piena”. La persona non è solo materia ed occorre considerarla nella sua integralità. Mi sembra di poter concludere che gli articoli 2, 3, e 4 della nostra Costituzione abbiano ricevuto da parte della sinistra solo farisaici apprezzamenti e nessuna concreta considerazione.

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