L’Europa che ha perduto il suo oriente

martedì, 11 Aprile, 2023
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Il 6 aprile scorso, prima che ulteriori fatti di sangue in Israele e Palestina rendessero ancora più drammatica l’incapacità della comunità internazionale, e in particolare dell’Unione europea, di operare per l’accertamento del vero e la difesa del giusto, senza cui non ci sarà pace, era uscito su Domani questo articolo. Che, a partire da un bellissimo saggio di Raniero La Valle sul fallimento dell’Unione europea riguardo alle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, vi ritrova profonde analogia, da un lato, con la  meditazione contro tutte le guerre dell’epoca atomica sdipanata da Edgar Morin, e dell’altro con  l’ultimo viaggio di scoperta esistenziale e spirituale di Paolo Rumiz attraversol’Europa benedettina. Il pensiero profetico di Simone Weil si fa largo attraverso questi testi.

“Ahi serva Europa”. Raniero La Valle ha pubblicato un articolo sull’Europa attuale (Il Fatto, 29 marzo) che non è solo un grido di dolore, è l’espressione di uno sguardo tanto lungo e profondo quanto la vita dall’alto della quale l’autore prende la parola. Somiglia – ma con più precisione affettiva, che in questioni di valore vuol dire esattezza cognitiva – alle recenti lucidissime pagine di Edgar Morin (Di guerra in guerra, Cortina 2023, recensito su questo giornale:https://www.phenomenologylab.eu/wp-admin/post.php?post=26098&action=edit ); e in questa coniugazione di ampiezza di visuale e di esprit de finesse somiglia anche alla poetica ricerca di un filo risalente nei secoli, capace di ricucire il tessuto stracciato della memoria spirituale europea, intrapresa da Paolo Rumiz (Il filo infinito, Feltrinelli 2022). Dove la precisione dell’anima sfiora il suo massimo, fino a raggiungere – forse – il lampo della profezia. Vedremo.

“Dimentica dei suoi ideali, sovversiva delle ragioni stesse per cui è nata”, l’Unione europea “ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in cui ne andava della sua identità culturale”. Constatazione di un’evidenza solare, al centro della riflessione di Raniero La Valle. Poteva fare altrimenti? Può ancora fare altrimenti?

Per provare a rispondere a questa domanda serve una riflessione preliminare su quello che accomuna le tre voci citate: quella dello scrittore e politico cattolico, quella del centenario filosofo francese, e quella del grande viaggiatore e poeta, che si sentiva orgogliosamente senza radici e si è messo a cercare la Prima Radice d’Europa – dell’Europa che rinasce dalle rovine della civiltà antica, nei secoli a cavallo dell’anno Mille, quando i monasteri benedettini riformano lo studio di Dio e il lavoro della terra irradiandosi dalla dorsale appenninica di Norcia fino all’Irlanda e alla Polonia.

L’ampiezza di visuale

E’ l’ampiezza di visuale ciò che accomuna queste tre menti. Il pregio che ne deriva è proprio quello di non lasciarsi irretire nell’angustia mentale di chi non ha presente che il presente. Questa limitatezza dello sguardo è semplicemente il contrario della presenza di spirito, che imita un po’ – solo un po’, naturalmente – lo sguardo di Dio (semmai ci fosse), il cui oggi è l’eterno. Già lo abbiamo visto con Morin, come il primo vantaggio dell’intelligenza a lungo raggio sul passato e il futuro sia di liberarci dalla mitragliante coazione a ripetersi delle figure della coscienza bellica, con il suo corredo di isteria, menzogna e soprattutto criminalizzazione del dissenso (da entrambe le parti). Che è precisamente l’uccisione di tutta la residua possibile politica, cioè la sua trasformazione in guerra senza confini, guerra che dai fronti si estende alle menti e invade il pensiero umano, piantando brutalmente bandiere e trincee dov’erano i confini della logica e i paletti dell’etica. La Valle aggiunge alla lucidità di Morin la forza dell’immagine, evocando il personaggio che dovrebbe rappresentare il progetto di pace che è a fondamento dell’Unione, Ursula von der Leyen, “pavesata con i colori di un paese in guerra”. E puntando il dito contro chi prima dell’autocrate russo è arrivato “a promettere armi a componenti nucleari”: il premier del Regno Unito, senza che il mainstream mediatico sollevasse un sopracciglio, prima di levare onde altissime di indignazione sulla contropromessa scimmiesca di Putin. E ritroviamo La Valle in pieno accordo con Morin anche sull’alternativa possibile, in primo luogo nell’atteggiamento intellettuale e morale, e allora forse anche nelle strategie politiche e comunicative: se cerchi il vero, cercalo tutto. Non ignorare le ragioni di nessuna parte, e soprattutto non ignorare mai la parte di male che le tue scelte possono comportare. “Non è stando appesi alle labbra e al ‘Crimea o morte’ di Zelensky, non è dicendo ‘nazione’ per non dire ‘fascismo’, né incentivando le fabbriche a stipulare contratti pluriennali per la costruzione di armi, che avranno bisogno di altrettanti anni per essere consumate, ….che l’Europa potrà ritrovare la sua dignità, la nobiltà delle sue origini, gli ideali che l’hanno spinta a unirsi”. Perdonate se aggiungo io un’immagine che tutti oggi hanno negli occhi. Basta guardare la forma oscena, letteralmente, di un missile, nella sua eretta, orgogliosa protrusione, e pensare a come la carica di nichilismo demente che contiene farà deflagrare ancora innumerevoli città in un pulviscolo d’ossa, sangue e pietrame, inesorabile come il più stupido dei destini – per sentire un insulto allo stomaco quando i nostri governanti vantano gli accordi economici per la ricostruzione dell’Ucraina, già in stato avanzato di negoziazione. O non sarà un avanzato stato di decomposizione dell’umana sinderesi?

Un’idea luminosa

Ma infine, è su un ultimo e più nuovo, più luminoso aspetto della riflessione di Raniero La Valle che vorrei soffermarmi, dove la precisione del cuore aumenta e aumenta anche l’affinità – invece – con la ricerca di Paolo Rumiz che ho evocato sopra. Non per caso. La Valle cita i padri nobili di quell’Europa che ha smarrito le sue ragioni: Spinelli e Spaak, Schumann e Monnet, Ursula Hirschmann, Adenauer, De Gasperi… e naturalmente avrebbe potuto citare anche Eugenio Colorni, di cui Repubblica (28 marzo) ha pubblicato un articolo scritto per l’Avanti, allora foglio clandestino,  nel ’44, un necrologio del suo giovane collaboratore Giuseppe Lopresti, che pare un presentimento della sua stessa morte, avvenuta due mesi dopo per mano dei fascisti di una banda repubblichina, e non perché era italiano, ma perché era antifascista. Ma soprattutto era fra le menti che concepirono e svilupparono, a Ventotene, il pensiero della nuova Europa, democrazia sovranazionale e porta verso un mondo dove il diritto si incarni in istituzioni davvero capaci di governare la forza, invece di esserne governate.

Però è un’altra autrice che La Valle cita, accanto a questi fondatori dell’Europa che stiamo uccidendo: Simone Weil. E questo spiega l’idea luminosa su cui vorrei concludere. E’ una luce gettata sull’atlantismo europeo, sul quale spesso i discorsi divengono opachi quanto le passioni che li nutrono. C’è un aspetto critico che Raniero condivide con gli “esperti di geopolitica”, denunciando l’avvilente vassallaggio in cui sembra degenerata la relazione con gli Stati Uniti, o con una loro  politica di “bulimia militare” dichiaratamente dominata dall’obiettivo (alquanto primitivo, per non usare termini peggiori) “che non vi sia alcuna potenza al mondo che non solo superi, ma nemmeno eguagli la potenza americana”. E’ questo aspetto inquietante che, “se facesse una politica meno suicida”, l’Europa potrebbe correggere, diventando il vero competitor invece che il consenziente vassallo, “per costruire insieme ‘un mondo libero, aperto, prospero e sicuro’, come essi lo vogliono, aiutandoli a evitare gli errori, come quello che fanno, e che facevano ben prima dei crimini di Putin, col volere la fine della Russia”.

La vera tragedia e la verità dei colonialismi

Come? E’ qui che certamente La Valle si lascia ispirare da Simone Weil. L’Europa è nata “con la vocazione ad attraversare il Mediterraneo e a guardare a sud, a Israele e alla Palestina e al mondo arabo, all’Est, alla Russia e alla Turchia…”. Niente spiega questa tesi meglio di un prezioso libretto che raccoglie le riflessioni di Simone Weil Sul colonialismo-– Verso un incontro fra Occidente e Oriente, (a c. di D. Canciani, Medusa 2003), poi confluite nelle sue pagine sui compiti di una costituente per l’Europa, le ultime, scritte nell’imminenza della morte in esilio a Londra (1943), che insieme alla grandiosa opera sul Radicamento (e lo sradicamento di altre civiltà in cui il colonialismo consiste) individuano la condizione vera di una rinascita della civiltà europea. Una parte della tesi di Simone coincide con la critica spinelliana della fondazione nazionale delle democrazie: “L’esperienza degli ultimi anni insegna che un’Europa composta di nazioni grandi e piccole, ugualmente sovrane, non è possibile”. L’altra parte va oltre, e inserisce una coordinata temporale nell’orizzonte cosmopolitico di radice kantiana: la profondità del passato. E’ la perdita del passato la vera tragedia umana. Ed è questa la tragedia che incombe sull’Europa post-bellica. Nulla di più lontano da un tradizionalismo etnico-culturale in questa visione. Il passato è il deposito di “tutti i tesori spirituali” delle civiltà che l’Europa coloniale ha sradicato, a oriente, a sud, e anche entro se stessa. Contiene il miracolo greco, il cristianesimo evangelico, la filosofia arabo-musulmana, la spiritualità catara, la saggezza buddista e quella taoista…

E’ in Oriente la radice spirituale della civiltà europea: “La civiltà europea è una combinazione di spirito orientale con il suo contrario, combinazione in cui lo spirito d’Oriente deve entrare in una proporzione abbastanza considerevole. …Abbiamo bisogno di un’iniezione di spirito orientale”. Per questo una completa americanizzazione rappresenta un pericolo molto grave – la perdita del passato, l’avvitamento completo sul presente. Ossia – conclude assai profeticamente Simone- la ricaduta nell’idolatria che scrive i nomi di dio (“i nostri valori”) sulle bandiere e ne fa “parole assassine”, menzogne come quelle che hanno in effetti giustificato le disastrose guerre americane fino a ieri. La “perdita del soprannaturale” diventa l’idolatria della forza: la politica dell’egemonia mondiale.

Volete un modo più piano, più affabile di dire la stessa cosa? Paolo Rumiz si chiede come sia possibile “non lasciarsi contaminare dal nulla, dalla liquidazione dell’invisibile”. E nel momento in cui l’utopia dei nonni tracolla nel sovranismo dei nipoti, e la stessa Ue dimentica che l’Europa nasce come spazio di esodi continui, e insensatamente la blinda, lui riparte da Norcia, culla della prima contaminazione generativa di Oriente e Occidente: la Regola di San Benedetto, minuziosa disciplina ordinatrice dello spazio e del tempo, articolazione della forza normativa del suo  “ora et labora.  Riparte dai paesi distrutti dal terremoto del 2017. Anzi: non dal terremoto. Ma dalla “perdita della memoria”. L’idea è la stessa. A Norcia vede, intatta in mezzo alla distruzione, la statua di un uomo venerabile che indica col braccio teso qualcosa fra cielo e terra. Porta la scritta: SAN BENEDETTO, PATRONO D’EUROPA. Cosa indicava quel gesto diretto alle macerie circostanti? Non forse, “una terza catastrofe in cent’anni, necessaria a uscire dal tunnel autodistruttivo”? Come nel 1945.

Simone Weil fu profetica quanto al bagno di sangue che sarebbe costata una decolonizzazione lacerante, rivolta solo all’avvenire, senza il tentativo di “rientrare in comunicazione con il nostro passato millenario”, attraverso l’amicizia reale “con tutto ciò che in Oriente ha ancora radici”. Non ci resta che sperare che non si avveri la profezia di San Benedetto e di Rumiz. O pregare. O agire perché non si avveri.

 

 

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2 commenti a L’Europa che ha perduto il suo oriente

  1. Marco di Feo
    mercoledì, 12 Aprile, 2023 at 15:01

    Salvati dall’apocalisse nazista, ci siamo consegnati al colonialismo americano, perchè, purtroppo, anche l’Oriente a noi più prossimo, quello Sovietico, si era smarrito nell’ennesimo “ismo” della storia. In quel comunismo di Stato in cui i valori più importanti e preziosi della storia culturale e sacra di Oriente venivano bruciati in nome di un’uguaglianza svuotata di valori. Mentre i due eserciti avanzavano su Berlino, mettendo finalmente alle strette l’oscurità del regime nazional socialista, in quella morsa ci ritrovammo inghiottiti anche noi europei e il resto del mondo. Forse fummo salvati dal baratro, ma non fummo certamente liberati, se liberare qualcuno significa riconsegnarlo alla sua piena possibilità di autodeterminarsi. Così, nei decenni che seguirono (e in un certo qual modo ancora oggi, visto i discorsi obsoleti che si sentono ancora pronunciare da certi idioti della classe politica) la ricostruzione della nostra identità non fece più capo al principio di autodeterminazione – radicato in un’autentica ricerca delle nostre radici da cui si potesse trarre ispirazione per nuovi orizzonti di progresso (ad eccezione di alcune coscienze illuminate)- ma alla necessità di determinare da quale parte del muro stare, tertium non datur. Perchè l’Occidente europeo possa liberarsi da tale catena, provando a rigenerarsi da radici più remote e profonde (greche, cristiane e illuministe?), occorrerebbe che anche l’Oriente facesse lo stesso, rilanciando un dialogo fecondo tra polarità autentiche. Quello che mi pare stia accadendo è invece tutt’altro: Occidente e Oriente si combattono in nome delle stesse logiche idolatriche, in una omologazione tecnicistica delle categorie del pensiero, in cui il potere economico e militare rappresentano il vertice delle aspirazioni umane. Quel tanto auspicato abbattimento del muro di Berlino, che fu giustamente salutato dal mondo come l’auspicio di un tempo nuovo, oggi sembra piuttosto il presagio di questa omologazione verso il basso. Svincolarsi da questa presa non è allora solo una mossa politica, economica, etc., ma è prima di tutto una mossa culturale di orientamento etico, che deve tradursi in nuove prassi di trasformazione sociale. Non mi illudo però che tali prassi possano avere una matrice top-down, perchè coloro che ci rappresentano politicamente non hanno le categorie per concepire un simile cambiamento o, se le hanno, non hanno le possibilità per metterle in atto. Per quale ragione? Per i vincoli che il loro stesso ruolo impone, al di là dei quali essi sono destinati a perdere quelle comode poltrone su cui coltivano il nichilismo imperante. L’unica strada che rimane è quella dal basso, attraverso la proliferazione di pratiche sociali, economiche e culturali che siano capaci di infestare quest’epoca malata, per riconsegnarla a un orizzonte altrimenti impensato.

  2. De Monticelli Roberta
    venerdì, 14 Aprile, 2023 at 22:48

    Grazie a Marco di Feo di questa riflessione che fa molto più che far eco alla mia: prova a darle un orizzonte pratico. Io vorrei offrire le braccia ad ogni impresa che vada nella direzione da Marco auspicata: le braccia più che la testa, perché davvero di parole non ne ho più. Studio cosa potesse intendere il nostro Aldo Capitini quando spiegava che la nonviolenza non è mai passiva, ma supremamente attiva anzi di più: “attuale”, nel senso che traduce in atto la pace che cerca, qui e ora, dovesse pur costare molto o anche la vita. Come ci fosse dal nichilismo un’uscita che è qui ed ora, oppure è eterna, ma in ogni caso è pratica. Ma studio e studio, ancora…

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