La Corte penale internazionale ed il fantasma di Putin. Di Domenico Gallo

lunedì, 19 Giugno, 2023
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Riprendiamo qui per gentile concessione di Domenico Gallo (Consiglio di Presidenza di Libertà e giustizia; vedi una nota biobibliografica in calce all’articolo) questo saggio pubblicato sul n. 68 della Rivista Alternative per il socialismo, Castelvecchi editore. Molto illuminante per chi voglia riflettere sul ruolo della Corte Penale Internazionale oggi e sui mandati di cattura per crimini internazionali emessi in relazione ai crimini di guerra commessi nel corso del conflitto in Ucraina. 

 

Il 17 marzo scorso la Pre-Trial Chamber della Corte penale internazionale ha emesso due mandati di cattura in relazione ai crimini di guerra commessi nel corso del conflitto in Ucraina. Il primo riguarda il Presidente della Federazione russa Vladimir Putin, il secondo riguarda una sua collaboratrice, Maria Alekseyevna Lvova-Belova, Commissario per i diritti dei bambini. Entrambi sono accusati del crimine di deportazione illegale di bambini dai territori occupati dell’Ucraina.

La notizia dell’incriminazione di Putin è piombata come una bomba sugli attori del conflitto ed i loro alleati ed ha suscitato un’esplosione di opposti commenti, di entusiasmo, di riprovazione, di preoccupazione, di timore per gli ulteriori rischi.  Se è apparso subito scontato il plauso dei fanatici dell’Atlantismo e dei tifosi di Zelensky, molte perplessità si sono levate dal mondo dei giuristi, anche da coloro che avevano espresso apprezzamento per l’istituzione della Corte penale internazionale. Si veda in particolare Daniele Archibugi sul Manifesto del 18 marzo (“Putin, un’incriminazione con tante ambiguità”), Vladimiro Zagrebelsky sulla Stampa del 19 marzo (“I crimini di Putin e la credibilità della giustizia”), Franco Ippolito sul Manifesto del 23 marzo (“La guerra si ferma con la politica, non con il diritto penale”), Gaetano Azzariti sul Manifesto del 29 marzo (“I crimini di guerra vanno perseguiti tutti”). In particolare Azzariti punta il dito su “una «giustizia su misura» che si applica agli sconfitti ovvero ai nemici dell’occidente, mentre alcune potenze si sottraggono alla giurisdizione di tali tribunali e continuano a rivendicare l’impunità per le loro guerre di aggressione, svolte in nome dell’umanità.” Conclude Azzariti: “si dovrà ammettere cioè che il tribunale internazionale, che opera a nome di ben 123 Stati e a cui si affidano tante speranze per far prevalere le ragioni del diritto su quelle della forza barbarica dei carnefici non può però essere considerato espressione di un globalismo giuridico manifestazione della giustizia universale, conformandosi invece come «giustizia su misura». Un disastro per il diritto globale, un ostacolo per la pace”.

Il Tribunale di Norimberga

Prima di esprimere una valutazione più appropriata di questa vicenda, dei suoi contorni e dei possibili esiti, occorre riconsiderare il valore ed il significato dell’istituzione di una Corte penale internazionale con giurisdizione su quella triade di crimini internazionali (crimini di aggressione, crimini di guerra, crimini contro l’umanità), che trovò la sua prima formulazione nello Statuto del Tribunale di Norimberga istituito dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale in virtù dell’accordo di Londra dell’8 agosto 1945.

Il Tribunale di Norimberga ha rappresentato una grande novità dal punto di vista storico perché ha fatto emergere una maturazione dell’opinione pubblica sulla insostenibilità per la Comunità internazionale di quegli atti di barbarie supremi che si erano sviluppati nel corso della Seconda guerra mondiale. I principi dello Statuto e della sentenza di Norimberga furono confermati dalla Risoluzione dell’11 dicembre 1946 dell’Assemblea Generale dell’Onu, divenendo parte integrante del diritto internazionale in vigore.

Il limite di Norimberga è stato quello di essere un Tribunale dei vincitori che prendeva conoscenza soltanto dei reati commessi dai vinti ed ometteva del tutto di prendere in considerazione i crimini dei vincitori. La parzialità del Tribunale dei vincitori confliggeva col valore universale dei principi affermati. Come il valore universale dei principi del diritto umanitario, che poi sarebbero stati ribaditi nell’ambito dell’Onu, in una trama di Convenzioni internazionali sul diritto bellico e sui diritti umani, fra cui la Convenzione contro il Genocidio (9 dicembre 1948), le IV Convenzioni di Ginevra sui conflitti armati (12 agosto 1949) ed i due Protocolli aggiuntivi (8 giugno 1977), la Convenzione contro la tortura (10 dicembre 1984) e tante altre.

Contestualmente al processo che ha portato allo sviluppo del diritto internazionale dei diritti umani, è sorta l’esigenza delle garanzie per rendere meno evanescenti i principi affidati alle Carte dei Diritti.

Il problema è tanto più acuto per quanto riguarda il diritto bellico o umanitario. E’ opinione comune, infatti, che, se il diritto internazionale è il punto di evanescenza del diritto pubblico, il diritto bellico è il punto di evanescenza del diritto internazionale. Nel sistema delle Nazioni Unite, al diritto è stato affidato il compito di tenere a freno la spada: una missione largamente fallita.

Il Tribunale penale per la ex Jugoslavia

Nel 1993, mentre infuriava la guerra civile nella ex Jugoslavia, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con la Risoluzione n. 808 del 22 febbraio 1993 decise di dare vita ad un Tribunale internazionale deputato a giudicare le persone responsabili di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale perpetrate nel territorio della ex Jugoslavia a partire dal 1991. Con la successiva Risoluzione n. 827 del 25 maggio 1993, il Consiglio di Sicurezza approvò lo Statuto del Tribunale attribuendogli la competenza a giudicare:

  1. Delle gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949;
  2. Della violazione delle leggi e degli usi di guerra;
  3. Del crimine di genocidio;
  4. Dei crimini contro l’umanità.

L’istituzione di un Tribunale ad hoc per i crimini commessi dai belligeranti nella ex Jugoslavia fu apprezzata come misura moderatrice della violenza del conflitto, ma suscitò dei dubbi circa l’imparzialità del Tribunale che ben presto si rivelarono fondati.[1]

La caduta di imparzialità del Tribunale per la Jugoslavia si verificò a seguito di un fatto nuovo che nel 1993 non poteva essere previsto: la guerra aerea condotta dalla Nato per 78 giorni contro la ex Jugoslavia, dal 24 marzo al 10 giugno 1999. Con questa operazione la Nato ed i suoi paesi membri entrarono nel raggio di azione della giurisdizione del Tribunale istituito dall’Onu. La difficoltà di fondo consisteva nel fatto che un’istituzione molto debole, come tutti gli organismi internazionali, avrebbe dovuto esercitare un potere di controllo nei confronti di un’articolazione (la Nato) di una superpotenza politica e militare come gli Stati Uniti, che non hanno mai accettato e non accettano limitazione alcuna alla loro sovranità.

La possibile frizione fra la Nato ed il Tribunale penale per la ex Jugoslavia si risolse facilmente perché il Procuratore del Tribunale penale internazionale dell’epoca, Carla Del Ponte, decise di chiudere un occhio, anzi tutti e due, di fronte ai crimini della Nato. Intervenendo ad una riunione del Consiglio di Sicurezza, il 2 giugno 2000, Carla Del Ponte comunicò che il suo ufficio non intendeva procedere in ordine alle numerose denunce presentate contro la Nato per i crimini commessi dall’alleanza durante il conflitto. Aggiunse di essere “molto soddisfatta” avendo verificato che, malgrado alcuni errori, la Nato non era ricorsa a metodi illegittimi di guerra.[2] In seguito la Nato si è arrogata la funzione di polizia giudiziaria del Tpi, pretendendo (ed ottenendo) dalla Serbia la consegna di Milosevic, che trasferiva all’Aja il 29 giugno 2001 per metterlo a disposizione del Tpi, di fronte al quale Milosevic doveva rispondere dei suoi crimini di guerra.

In questo modo il Tpi è diventato un’istituzione gregaria della Nato e la legittima esigenza di reprimere i crimini contro l’umanità, è diventata – ancora una volta – un’arma utilizzata dai vincitori contro i vinti.

Il progetto di una Corte penale internazionale nasceva proprio dall’esigenza di superare i limiti spaziali e ideologici dimostrati dai Tribunali ad hoc per riaffermare il carattere universale della giurisdizione relativa alle più gravi violazioni del diritto delle genti

Nascita e istituzione della Corte penale internazionale.

Gli Stati parti del presente Statuto; Consapevoli che tutti i popoli sono uniti da stretti vincoli e che le loro culture formano un patrimonio da tutti condiviso, un delicato mosaico che rischia in ogni momento di essere distrutto; Memori che nel corso di questo secolo, milioni di bambini, donne e uomini sono stati vittime di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità; Riconoscendo che crimini di tale gravità minacciano la pace, la sicurezza ed il benessere del mondo; Affermando che i delitti più gravi che riguardano l’insieme della comunità internazionale non possono rimanere impuniti….”

Così recita il preambolo dello Statuto che istituisce la Corte penale internazionale stipulato a Roma il 17 luglio 1998, entrato in vigore il 1° luglio 2002. La Corte penale internazionale è l’unica istituzione di garanzia volta a rafforzare i precetti del diritto internazionale che bandiscono il genocidio, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità (e dopo il 2010 anche il crimine di aggressione, ove ricorrano determinate condizioni), con la missione di intervenire laddove gli Stati nazionali non sono in grado di assicurare la repressione di tali crimini che offendono la coscienza morale dell’umanità.

A differenza della Corte di Norimberga, la Cpi non agisce nell’interesse dei vincitori ma è strumento – almeno astrattamente – della Comunità internazionale, rappresentata dai 123 Stati che hanno sottoscritto il suo Statuto. Proprio per questo suo carattere, svincolato dalla forza, l’azione della Cpi deve confrontarsi con difficoltà di ogni tipo quando si trova a giudicare crimini commessi da agenti di Stati che non sono stati sconfitti e generalmente godono di buona salute. E’ sintomatico che tre dei cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza (Usa, Cina e Russia) non abbiano aderito alla giurisdizione della Corte penale internazionale, assieme ad altri Stati più adusi a commettere crimini internazionali come Turchia, Israele, Arabia Saudita, Siria.

Se Cina e Russia si sono limitate a non aderire, gli Stati Uniti, fin dall’inizio, hanno manifestato un’aperta ostilità al lavoro della Corte, che hanno cercato di ostacolare in ogni modo. In questo quadro si devono ricordare i numerosi accordi bilaterali stretti dagli Usa con vari Stati che, per fatti potenzialmente rientranti nella competenza della Cpi, fanno divieto di consegnare alla Corte un cittadino americano ricercato o indagato da questa, prevedendo l’esclusiva competenza dello Stato di cittadinanza. A siffatta prassi veniva fornita una base legislativa di diritto interno, attraverso una legge del Congresso americano che autorizza il Presidente degli Stati Uniti ad utilizzare ogni mezzo utile per ottenere il rilascio dei cittadini americani che fossero detenuti a richiesta della Cpi (conosciuta come legge che autorizza l’invasione dell’Aia). Infine, nell’era Trump (settembre 2020) si è arrivati alle minacce ed alle sanzioni personali nei confronti degli organi della Corte, la Procuratrice dell’epoca Fatou Bensouda e il capo della giurisdizione del tribunale Phakiso Mochochoko, per impedire che venisse portata avanti l’inchiesta avviata dalla Corte sui crimini di guerra commessi dagli Usa in Afganistan. Le sanzioni sono state tardivamente ritirate da Biden, ma nel frattempo l’ufficio del Procuratore è stato assunto dall’inglese Karim Khan, sicuramente meno indigesto della Bensouda.

Non deve stupire quindi se nei suoi venti anni di vita, l’attività della CPI si sia concentrata sull’Africa su situazioni ai margini degli imperi. Finora sono stati iscritti 31 procedimenti dinanzi alla Corte. I casi pendenti, tranne quello di Putin, riguardano tutti ex governanti africani.

La Corte penale internazionale e l’Ucraina.

L’Ucraina, come la Russia, non ha mai aderito allo Statuto della Corte penale internazionale. In questo caso la competenza giurisdizionale della Cpi sui crimini commessi nel territorio ucraino nasce da due esplicite richieste dello Stato interessato, proposte ai sensi dell’art. 12, 3° comma, dello Statuto. Con una prima dichiarazione il governo dell’Ucraina ha accettato la giurisdizione della Cpi in relazione ai presunti crimini commessi sul territorio ucraino dal 21 novembre 2013 al 22 febbraio 2014, con una seconda dichiarazione la competenza è stata estesa dal 20 febbraio 2014 in avanti. Pertanto la Cpi ha piena competenza giurisdizionale per tutti i fatti criminosi da chiunque commessi nel territorio dell’Ucraina negli ultimi nove anni.

Il 2 marzo del 2022 la situazione dell’Ucraina è stata sottoposta all’esame del Procuratore della Corte da parte di un gruppo congiunto di Stati parte, comprendente – fra gli altri – quasi tutti gli Stati europei. Lo stesso giorno il Procuratore ha annunciato di aver proceduto all’apertura di un’indagine sulla situazione in Ucraina relativa a tutte le accuse passate e presenti di crimini di guerra, crimini contro l’umanità o genocidio commessi in qualsiasi parte del territorio dell’Ucraina da qualsiasi persona dal 21 novembre 2013 in poi.

E’ bene precisare, pertanto, che l’ambito di indagine della Cpi non è limitato ai crimini commessi a partire dal 24 febbraio 2022, ma si estende anche ai fatti criminosi relativi al conflitto per l’indipendenza delle c.d. Repubbliche di Lugansk e di Donetsk, nei quali si sono distinti per crudeltà alcuni corpi armati ucraini di palese ispirazione nazista.

Non c’è dubbio che da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate della Federazione russa, l’esplosione del conflitto ha portato ad una valanga di oltraggi all’umanità che sono stati commessi dai belligeranti (non solo dalle truppe dell’invasore) e che – purtroppo – verranno commessi ancora fino a quando non si porrà fine al conflitto. Non dimentichiamo che “la guerra è un assassinio di massa”, così come l’ha definita crudamente Hans Kelsen nella prefazione al suo libro Peace Through Law (1944). La guerra è la madre di tutti i delitti, crea l’ambiente umano nel quale si possono sviluppare tutte le peggiori perversioni generate dal dolore, dalla paura, dall’odio e dalla “disumanizzazione” del nemico. E’ vero che gli atti più atroci sono vietati dal diritto bellico, che li bolla come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, però quella del diritto – come abbiamo visto – è una barriera molto fragile.

Nel mese di marzo è stato reso noto il rapporto di una Commissione internazionale indipendente sull’Ucraina, redatto da un gruppo di esperti nominati dall’Onu, che fa emergere una serie impressionante di crimini di guerra e contro l’umanità, che includono uccisioni volontarie di prigionieri di guerra, attacchi a civili, reclusione illegale, torture, stupri, trasferimenti forzati e deportazione di bambini. Si tratta di fatti atroci, non dissimili (esclusa la deportazione di bambini) da quelli compiuti dalle forze armate americane durante la seconda guerra del Golfo, come documentati, almeno in parte, da Julian Assange, che per questo “crimine di verità” rischia di essere sepolto vivo in un carcere americano. Non c’è dubbio che, a guerra finita, i tribunali nazionali e la Cpi avranno molto da lavorare per prendere conoscenza almeno dei fatti più gravi e di identificarne i responsabili.

I mandati di cattura emessi a conflitto in corso

Quello che colpisce, da un lato, è la decisione di emettere dei mandati di cattura mentre il conflitto è ancora in corso, con delle inevitabili ripercussioni di carattere politico, dall’altro lato è la scelta di orientare subito l’indagine penale verso un Capo di Stato, saltando tutta la catena delle responsabilità individuali per fatti specifici. Anche il tipo di incriminazione appare singolare: di fronte alla denuncia di atti orribili palesemente criminosi, si è scelto di colpire una condotta, la deportazione di bambini da Mariupol e da altre zone di guerra verso orfanotrofi e centri di raccolta, che presenta un certo tasso di ambiguità. Di solito le fazioni implicate in un conflitto denunciano gli orrori del nemico e negano i propri (fatta eccezione per il c.d. Stato islamico). Ma per la ricollocazione dei minori dalle aree di guerra – come ha osservato Daniele Archibugi –  è successo esattamente il contrario: “la Russia ha esplicitamente dichiarato di avere voluto ‘proteggere’ e ‘salvare’ i bambini, e i programmi di adozione sono stati addirittura magnificati dai mezzi di informazione. Si tratta, insomma, di un crimine di cui Putin e il suo entourage, a cominciare dalla sua collaboratrice Maria Alekseyevna Lvova-Belova si sono addirittura incredibilmente lodati di fronte alle tv.”

Occorre considerare inoltre che, se lo Statuto della Corte non riconosce la tradizionale immunità dei capi di Stato e di Governo (art. 27), è pur vero che, di fronte alla Cpi, non esiste il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, per cui la semplice conoscenza di fatti addebitabili alla responsabilità personale di un Capo di Stato o di Governo, non comporta l’obbligo di procedere.

Deve essere chiarito, inoltre, che davanti alla Cpi non è contemplato il processo in absentia per cui il mandato di cattura emesso nei confronti di Putin è destinato a restare senza nessun effetto. I fatti contestati a Putin non potranno essere oggetto di un processo, fatta salva l’ipotesi della completa disfatta militare della Federazione russa e dell’arresto dei suoi capi politici. In questa ipotesi estrema ed improbabile la giurisdizione della Corte diventerebbe uno strumento dei vincitori per punire i vinti.

Il passo falso del Procuratore Khan.

Fiat Justitia et pereat mundus (si faccia Giustizia e perisca il mondo) oppure Fiat Justitia ne pereat mundus (si faccia Giustizia affinché non perisca il mondo), è questo il dilemma di fronte al quale ci pone la notizia che la Corte penale internazionale, su richiesta del Procuratore Karim Khan, ha spiccato un mandato di cattura contro il presidente russo Vladimir Putin.

Abbiamo visto che l’incriminazione di Putin non avrà nessuna conseguenza giurisdizionale perché non ci potrà mai essere un processo a suo carico (salva l’ipotesi estrema di cui abbiamo detto). Si tratta di un atto discrezionale del Procuratore destinato a produrre soltanto sviluppi politici, cioè a complicare non poco il percorso verso una soluzione negoziale del conflitto in corso. Il rischio rilevante – come ha osservato Franco Ippolito – è che questo astratto esercizio di potere giurisdizionale aumenti l’indisponibilità di Putin verso qualsiasi negoziato e irrigidisca lo spirito bellicoso dell’altra parte.

Non vi è chi non veda come il mandato di arresto spiccato contro Putin sia un formidabile atout nelle mani della Santa Alleanza occidentale per delegittimare l’avversario e rafforzare la lettura del conflitto come una sorta di guerra contro il male, secondo la vulgata di Zelensky. Una guerra che, nelle intenzioni di Usa e Gb, dovrà proseguire fino alla “vittoria”, cioè alla sconfitta della Federazione Russa e all’arresto dei suoi capi.

Qui emerge una sorta di fondamentalismo giudiziario che mal si concilia con gli scopi per cui sono state istituite le giurisdizioni internazionali e mette in rilievo una contraddizione già emersa nell’esperienza del Tribunale penale per la ex Jugoslavia. Nel corso del 1995, mentre infuriavano i combattimenti in Bosnia il Tpi emise un ordine di cattura contro il leader della fazione serbo-bosniaca Radovan Karadzic, Presidente della autoproclamata Repubblica serba di Bosnia. A fronte delle perplessità sollevate da più parti Antonio Cassese, all’epoca presidente del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia in un’intervista all’Unità del 26 luglio 1995 dichiarò: “mi sembra difficile per un ministro degli affari esteri di un paese occidentale sedersi al tavolo negoziale e firmare un trattato con una persona già incriminata per azioni contro l’umanità e genocidio. Qualcuno mi chiedeva giorni fa se l’incriminazione di Karadzic non poteva essere un ostacolo ad un accordo di pace. Si, mi chiedo, ma a quale pace? Che senso ha un trattato di pace che non rispetti i diritti dei popoli che, raggiunto con Karadzic, significherebbe operare un colpo di spugna su crimini orribili?”

Per fortuna la diplomazia internazionale aggirò il problema chiamando a negoziare il Ministro degli esteri della Repubblica Serba di Bosnia, Alexsandar Buha, ed il Presidente della Serbia, Slobodan Milosevic, non ancora incriminato dal Tpi, che firmarono con le controparti l’Accordo di Dayton (novembre 1995) che pose fine alla guerra in Bosnia. Oggi difficilmente, di fronte al conflitto ucraino si potrebbe ricorrere allo stesso escamotage attuato nei Balcani.

L’incriminazione di Putin è quindi un passo falso compiuto dal Procuratore della Cpi perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica nel corso di un conflitto. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della Cpi deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace.   Incriminando Putin, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi.

In questo modo è stato compiuto un altro passo nel girone infernale della guerra e le lancette dell’orologio atomico, il Doomsday Clock, si sono avvicinate ancora di più alla mezzanotte. Noi continuiamo a pensare che la giustizia non deve avvicinare la fine del mondo, al contrario, auspichiamo che si faccia giustizia per evitare che il mondo perisca.


[1] Per il dibattito si veda: Fondazione internazionale Lelio Basso, i crimini contro l’umanità ed il Tribunale internazionale delle Nazioni Unite secondo la Risoluzione 808 del Consiglio di Sicurezza (Nova cultura editrice, 1993)

[2] Cfr. AA.VV. Se dici guerra umanitaria, Besa editrice , 2005, pag. 35

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Autore: Domenico Gallo

Nato ad Avellino l’1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all’Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell’arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

 

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