Riprendiamo dal “manifesto” (13/11/2025) questo articolo di Widad Tamimi, scrittrice e fondatrice di “Ioien” (un verso di Saffo che significa “Vorrei andare oltre”), associazione che lavora per creare borse di studio in Italia per ragazzi e ragazze della Palestina, in particolare di Gaza.
L’ASSOCIAZIONE SI PUO’ SOSTENERE CON DONAZIONI – IBAN IT26H0306909606100000410687.
Hamed ha ventiquattro anni, ma una vita sulle spalle che pesa come cento. Per due anni, Hamed è stato gli occhi del mondo. Con la sua videocamera ha attraversato i campi profughi, i vicoli bombardati, le notti senza elettricità. Ha raccontato la paura, la fame, i corpi sotto la polvere, ma anche la dignità e la resistenza. Non la propaganda, non l’odio: la verità, quella nuda, che non fa rumore ma resta.
Ha lavorato per Sky News, per canali francesi, per piattaforme internazionali. Ha filmato con coraggio quando tutti guardavano altrove e continua a farlo. La guerra gli ha portato via tutto: la casa, lo studio di registrazione in cui lavorava, il quartiere dove abitava, due settimane fa gli ha portato via il fratello che amava. Ha cancellato i luoghi e le persone, ma non la loro voce. C’è chi la porta avanti perchè Gaza non muoia, perchè il popolo palestinese continui a raccontarsi.
OGGI HAMED vive con la famiglia in un campo a Khan Younis. La sua tenda si alza e cade al ritmo del vento. L’acqua è poca, il cibo anche. Le medicine non arrivano. E lui è malato. Soffre della sindrome di Alport, una malattia renale rara e grave. Nel 2019, sua madre gli ha donato un rene. Ma la fame, l’assedio e la mancanza di cure hanno corroso tutto: la salute, il corpo, la speranza.
Eppure, un filo di luce era arrivato.
Una borsa di studio in Italia, alla Scuola Civica di Musica Claudio Abbado di Milano, come tecnico del suono. Un’occasione unica: poter studiare, lavorare, curarsi, ricominciare. Poter raccontare Gaza e il dramma palestinese anche fuori. Una nuova vita possibile. Ma la burocrazia si è messa in mezzo, fredda come il cemento che copre le rovine.
L’Italia ha firmato un accordo solo con i rettori universitari – come fossimo ripiombati al tempo dei baroni: la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane è l’unica legittimata a conferire borse di studio agli studenti di Gaza. Un dettaglio tecnico, un capriccio amministrativo, certamente un errore – che può essere corretto. L’Italia in questo ha una predisposizione innata: l’accoglienza è una magia mediterranea che ci contraddistingue e io che abito fuori dai confini della penisola da quasi quindici anni, ne sono testimone oculare.
Basterebbe dunque aggiustare il tiro, trovare il modo per trasformare un’iniziativa brillante – far studiare gli studenti palestinesi in Italia in vista di un futuro di ricostruzione della Palestina – in un progetto inclusivo, che non rischi di delegittimare l’arte in Italia, né tappare la bocca a chi potrebbe essere la voce del popolo palestinese nel mondo.
IL NOME di Hamed è rimasto, a ora, fuori dalle liste di evacuazione degli studenti diretti in Italia, nonostante abbia una borsa di studio con vito, alloggio, assicurazione sanitaria pagata, assegno mensile garantito per tre anni.
E poi c’è Jumana, violinista – anche lei con borsa di studio, che scrive: «Anche nei momenti più difficili, trovo rifugio nell’immaginazione: cavalco, nuoto, scrivo (…) reclamo il diritto di vivere davvero, di essere titolare anche io di libertà». Anche lei, giovane di talento con una borsa di studio non emessa da una delle Università della Conferenza dei Rettori, non può lasciare Gaza.
E poi c’è Areej, che ormai pesa 34 chili. I medici italiani che ne stanno seguendo il caso dall’Italia dicono che se non uscirà immediatamente, non sopravviverà. Areej ha dita sottili, che scorrono sui tasti del pianoforte come piume sull’acqua. Scrive, suona. Non ha la forza dei combattenti, ma ha un dono più raro: sa raccontare. Come Federico, il protagonista del libro di Leo Lionni, che mentre gli altri topolini raccolgono le scorte di cibo per l’inverno, si nutre di raggi di sole, colori e parole, diventando il «poeta» che salverà i suoi compagni durante il freddo, quando le provviste finiranno. Così gli artisti nutrono la speranza dei popoli quando sembra essere tramontata.
Areej ha vinto due borse di studio: una alla Scuola di scrittura Belleville di Milano, e una seconda presso la Civica Scuola di Musica Claudio Abbado, con la garanzia di vitto, alloggio, assicurazione sanitaria. Tutto. Ma anche lei è rimasta esclusa dal circuito delle borse “ufficiali”, perché non universitaria.
COME SE LA CULTURA, in Italia, potesse riconoscere solo i titoli accademici e non le voci, le mani, i sogni. Come se ci fosse una gerarchia anche nell’aiuto, anche nel diritto allo studio. L’Italia, che da secoli si racconta attraverso l’arte e la musica, sembra aver dimenticato la propria anima. Siamo il paese dei poeti che hanno trasformato il dolore in canto, dei registi che hanno insegnato al mondo la pietà e la bellezza anche nelle macerie. Siamo la terra che ha fatto della memoria una forma di salvezza.
Come possiamo allora chiudere la porta proprio a chi, nell’oscurità, tiene accesa una luce? Hamed, Jumana e Areej non sono solo tre nomi. Sono una possibilità.
Sono la prova che l’arte può ancora curare dove la politica distrugge, che la cultura può ancora unire dove le frontiere separano. Negare loro un visto, una borsa, un banco di scuola, significa negare un pezzo della nostra umanità. E per Areej, se non uscirà a questa evacuazione, sarà la morte certa. L’arte come resistenza. L’arte non accusa. L’arte non uccide. L’arte accompagna.
Eppure è fragile, ha bisogno del nostro sostegno per non morire tra le macerie di Gaza, come Areej, come Hamed, come Jumana, che non hanno corpi da combattenti, ma anime capaci di curare il mondo narrando l’orrore con la misericordia che solo l’arte sa esercitare, in una sorta di religione laica, di compassione e accoglienza delle fatiche umane.


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