L’Italia non è un Paese per giovani? Lettera aperta ai docenti italiani

mercoledì, 2 Dicembre, 2009
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La lettera accorata e quasi disperata di un uomo autorevole come il direttore generale della Luiss, Pier Luigi Celli, comparsa su Repubblica (30/11/09) a proposito del futuro dei nostri giovani migliori, e del complessivo destino di questo Paese – dove non hanno più valore “la lealtà, il rispetto, il riconoscimento dei meriti e dei risultati” – è di quelle che dovrebbero scuotere la coscienza di ogni persona che ne abbia una, che sia o no genitore, e a maggior ragione se è a qualche titolo (come chi scrive) impegnato nell’insegnamento e nell’educazione.

Non dovrebbe ciascuno di noi, precisamente a partire dai docenti universitari e da tutti gli altri insegnanti, fermarsi a riflettere su come dar voce – una sola grande unanime voce – a questo dolore di vedere infangati e distrutti tutti gli elementari presupposti etici o pre-politici di una società civile degna del nome? È possibile che sia già ora di ritirarsi, dichiarando fallimento? Al contrario, niente potrà giustificare, di fronte ai nostri figli e nipoti, il silenzio degli intellettuali (le beghe televisive non contano), che con pochissime eccezioni si sarà fatto complice del declino morale e civile che si consuma da decenni nel nostro Paese.

Almeno su questo punto – e forse questo solo – ha ragione Asor Rosa, quando in un suo recente libro intervista si chiede: “quale ‘catastrofe’ civile e culturale si nasconde nel nostro paese dietro il dissolvimento del ceto intellettuale, attore non innocente del declino più complessivo?”. Noi stiamo assistendo quasi muti alla minaccia che grava oggi sui fondamenti stessi di una moderna società civile – il principio di eguaglianza di fronte alla legge e il principio di autonomia della persona che attraversano la nostra Costituzione e ispirano la normativa penale e civile da un lato, e quella inerente ai diritti civili dall’altro. Cosa possiamo fare?

Possiamo ricordare, in primo luogo. Ricordarlo ai giovani, che il nostro è un Paese talmente avvezzo alle arti servili della sopravvivenza, da averne inciso il precetto disgustoso in purissima lingua toscana, già ai tempi di Francesco Guicciardini: “Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo”. Ma è anche un Paese di coscienze moralmente lucide, in cui l’amore delle belle lettere non basta a soffocare lo sdegno e il disprezzo per questo “codice fondato sul divorzio fra l’uomo e la coscienza”, come scrive Francesco De Sanctis commentando Guicciardini.

In secondo luogo possiamo partire dall’esame di coscienza che ciascuno deve farsi, in un Paese dove il conflitto di interessi domina tutte le istituzioni, dalla Presidenza del consiglio alla più scalcinata università. Mi occupo di ricerca: ma dò spazio ai talenti veri, o solo a quelli che ho cresciuto io? Mi occupo di cultura: e cosa resta della cultura, in un sistema dominato dalla videocrazia? Mi occupo di etica: e cosa resta dell’etica in un Paese dove la parola “moralismo” suona come un insulto? Mi occupo di fondamento delle norme, di giustizia e di rispetto della persona: e cosa debbo farne di questi pensieri in un Paese dove almeno tre regioni sono in grande parte fuori del controllo dello Stato, e dove, ciononostante, si azzerano i processi, anche quelli di mafia, o si aboliscono i reati, compresi quelli che consentono ai mafiosi di infiltrarsi nello Stato?

In terzo luogo possiamo ragionare e rispondere: perché dovremmo opporci al trionfo di una politica del “volgere il mondo a benefizio proprio”? Perché negare l’eguaglianza degli uomini di fronte alla legge è negare tutto ciò che la civiltà umana ha strappato alla violenza, all’ingiustizia, alla ferinità da cui proveniamo. Perché violentare le parole con la menzogna è peggio che storpiarle: è uccidere il pensiero di ognuno. Perché violentare il diritto è peggio che violarlo: è distruggere la giustizia dovuta a ciascuno. Perché oggi quello che il governo chiama “popolo” si illude di partecipare al privilegio “particulare”, e non si avvede che sta già vivendo in stato di servitù politica. Perché dove le regole non esistono più non esiste più neppure trasparenza, competizione leale e promozione del merito specifico. Ma solo promozione con i mezzi servili più antichi: dello scambio di favori, della raccomandazione, del ricatto. Perché dove il diritto è distrutto, là sopravvivono soltanto omertà, servilismo, viltà e prepotenza.

E infine, perché l’Italia non sprofondi nel fango, in questo fango delle mafie e delle consorterie che ci attanagliano, trascinandoci i sogni dei nostri Padri. No, non dobbiamo sperare soltanto che i nostri figli si salvino da questa barbarie: perché così facendo, continuiamo semplicemente a tradirli. È venuto il tempo di rompere il silenzio della ragione, e il suo cinico sonno che produce mostri.

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9 commenti a L’Italia non è un Paese per giovani? Lettera aperta ai docenti italiani

  1. mercoledì, 9 Dicembre, 2009 at 04:38

    «Papà, ci sarà ancora il mondo quando sarò grande?». «Piantala di rivangare il futuro». Recitava così una sapida vignetta di Altan della metà degli anni ’80. Mi è tornata in mente qualche giorno fa, quando un amico filosofo che insegna all’Università mi ha raccontato, davanti a una birra, una storia sorprendente. Veniva da una sessione di laurea dove due dei suoi migliori allievi avevano ottenuto l’agognato titolo. Data la qualità degli elaborati, nei giorni precedenti, li aveva esortati, pur nella consapevolezza delle ristrettezze vigenti, a proseguire nella carriera scientifica. Ma con suo, e poi mio, stupore e rammarico, entrambi gli avevano risposto con un secco “no, grazie”. Uno dei due, forse il più combattuto, lo aveva freddato dicendogli che, piuttosto, avrebbe preferito fare il pizzaiolo a Berlino, dove l’aspettava la sua fidanzata. Questa storiella è emblematica di qualcosa che è successo e che fatica a essere messo a fuoco dalla nostra memoria storica. Ci racconta di un cambiamento avvenuto sotto i nostri occhi senza che quasi ce ne siamo accorti, troppo occupati a ricercare in un remoto passato (troppo remoto) una crisi culturale e identitaria che ha radici molto, molto più recenti. Parlo di crisi culturale, perché è soprattutto di questo che si tratta. E perché è soprattutto di questo che porta una parte di responsabilità anche chi insegna, filosofia a maggior ragione. Infatti: «Che cos’è una Patria se non è un ambiente culturale?» si chiedeva il filologo, scrittore, partigiano, e infinite altre cose, Luigi Meneghello. «Cioè conoscere e capire le cose».

    Perché, in effetti, io e il mio amico docente e filosofo ci siamo stupiti? Perché noi due, che siamo nati sul finire degli anni ’60 e abbiamo frequentato l’Università tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, quella risposta, così amara e sfrontata allo stesso tempo, non saremmo mai stati in grado, allora, di concepirla. Nonostante tutto. Nonostante anche allora l’Università (e non solo) evocasse talvolta in noi le parole che Prezzolini, poi ripreso da Gramsci, aveva pronunciato nel 1920, sugli intellettuali italiani: «L’intellettuale da noi (…) si considera come l’uccellino fatto per la gabbietta d’oro che dev’essere mantenuto a pastone e a chicchini di miglio. Lo sdegno che c’è ancora per tutto quello che somiglia al lavoro, le carezze che si fanno sempre alla concezione romantica di un estro che bisogna aspettare dal cielo, come la Pizia aspettava i suoi invasamenti, sono dei sintomi piuttosto puzzolenti di marcia interiore». Ma un brivido correva ancora lungo le nostre giovani schiene al pensiero che lì, in quei corridoi dove si studiava non di rado anche sugli scalini, Rossana Rossanda aveva ascoltato le lezioni di Antonio Banfi (che le avrebbe cambiato la vita), ed Enzo Paci fondato Aut-Aut, sulle cui pagine, bravissimi e giovanissimi, si erano fatti le ossa Giovanni Piana, Carlo Sini e molti altri nostri professori.

    Che cos’è successo, dunque? Vorrei contribuire a cercare una risposta, giacché siamo sotto le feste, invitando a regalarsi e a regalare un libro appena uscito da Donzelli Editore: Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale di Guido Crainz, da cui traggo gran parte delle citazioni di questo mio commento. È un brevissimo saggio, che però consente di cominciare almeno a cercare la risposta nel posto giusto, il che certo può far crescere non di poco le probabilità di trovarla. Da diversi anni, infatti, dalle colonne d’importanti mezzi d’informazione, e per la penna e le labbra di intellettuali di gran fama, si celebra una mortifera liturgia dell’Italia come Patria fallita, morta prima di nascere, abortita una, due, anche tre volte. Assassinata dall’atavico straccionismo, localismo, clientelismo, familismo delle nostre genti, nonché dall’irrimediabile faziosismo, trasformismo, opportunismo, doppiogiochismo delle nostre classi dirigenti e intellettuali, databile sin dal ‘500.

    Ha qualche merito, non c’è dubbio, questa tesi. E precedenti autorevoli sia a destra sia a sinistra. Ma possiede un vizio decisivo. Mira alla suggestione, al riassumere in una colonna di giornale (benché sia stata esposta anche in più di un volume, il più fortunato dei quali è La morte della Patria di Ernesto Galli Della Loggia) il senso plurisecolare di una nazione, il destino di un popolo, il pernicioso carattere, in definitiva, degli italiani. Troppo, per chi sia stato educato al gusto sottile e anche un po’ ossessivo per i dettagli della fenomenologia. Ma troppo anche per Crainz, che ci suggerisce semmai di cercare le risposte alla crisi attuale del nostro Paese prioritariamente nel catastrofico e rimosso quindicennio che dal rapimento Moro (1978) va sino alle stragi che hanno ucciso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (1992), gli anni in cui mentre si brindava al “nuovo miracolo italiano” e alla sconfitta dell’inflazione, il debito pubblico veniva lasciato crescere dal 57,7% al 125% del Pil, l’evasione dell’Iva arrivava al 50%, e la “cultura della tangente” si radicava a tal punto da far scrivere a Ferruccio De Bortoli, allora giornalista economico del Corriere della sera: «Una nomenklatura vorace, che in qualche caso potrebbe essere paragonata a un’associazione a delinquere, si è impadronita nei favolosi anni ’80 prima delle istituzioni poi delle imprese pubbliche, piegandole ai propri fini. La congiuntura dava loro ragione: il Paese cresceva (…), i bilanci erano ricchi, grassi, e quando erano in rosso niente paura, pagava il contribuente. Tutto sembrava sopportabile al sistema: l’incompetenza come l’ingordigia». Dopo che nel febbraio del 1992, a Milano, venne arrestato Mario Chiesa, presidente “socialista” del Pio Albergo Trivulzio, innescando la bolgia di Tangentopoli, Sergio Romano su La Stampa scrisse: «La realtà corrisponde al peggiore degli scenari, ma nulla di ciò che accade in questi giorni a Milano può stupirci». Non si trattava, quindi, del frutto del peccato originale degli italiani, nazione incompiuta, ma d’individui in carne e ossa, che nei partiti, nelle imprese, nei giornali, nelle televisioni, avevano scelto di fare di sé proprio quello che anche per loro precisa responsabilità si affermava come costume di massa. Con queste parole, in effetti, Carlo Freccero descrisse quel che saremmo di lì a poco, chi più e chi meno, diventati: popolo televisivo. «Il prato basso italiano, ignoto ma ricco e vitale: il prato di Portobello, degli spettacoli a premi, partecipati, della gente che parte in pullman dalla provincia per i suoi pellegrinaggi laici, non più ai santuari per chiedere grazia alla Madonna ma ai teatri televisivi dove si celebra il dio denaro». Il Censis, nel 1992, avrebbe stigmatizzato così il processo avvenuto: «La forza dirompente dei comportamenti è strettamente legata all’affermarsi di una sorta di “individualismo protetto”: da un lato si vuole la più ampia possibilità e libertà di esplicazione dei comportamenti individuali e collettivi, dall’altro si chiede una totale protezione pubblica (…) Il massimo dell’individualismo con il massimo della protezione, quasi una società della bisaccia, della borsa a due sacche, tutte e due comunque piene. Ma è accettabile una tale propensione senza rischiare di perdere il senso della responsabilità, nell’illusione che tutto sia comunque possibile?».

    Di certa pubblicistica e storiografia, oggi alquanto in voga, del risentimento contro di sé, quindi, dovremmo prendere al più presto commiato; non soltanto per il suo unilateralismo e sconfinamento mitico, ma perché pare compiacersi, aprendo le porte alla rassegnazione populista, di oscurare copiose pagine e uomini della nostra storia, che dobbiamo invece difendere e ripristinare come modelli per le generazioni future (i De Sanctis contro i Guicciardini). Non esiste storiografia oggettiva, anzi storiografia tout court, senza un progetto che orienti il nostro sguardo verso il passato in vista del futuro che vogliamo essere. E non esiste progetto che non debba scavare nei documenti del passato prendendo posizione in merito al valore o disvalore degli atti e delle prese di posizione di quanti, individui o collettività, precedono chi lo persegue. Tra luci e ombre, inevitabili in ogni esistenza, si può sempre afferrare il valore di un comportamento individuale o collettivo esemplare per pregnanza etica ed efficacia pratica. Ma soltanto a patto si sia deciso di fare qualcosa di buono di sé. Ha scritto Giorgio Bocca, nel 1991, a proposito della sua generazione uscita dalla guerra: «Eravamo divisi in fazioni, in un Paese distrutto. Ma uniti nel vivere (…) certi del nostro destino. Questa voglia di un’identità, di essere noi, nel bene e nel male, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo?».

    Altro che morte della Patria.

    C’è un passo di un altro libro che vale la pena regalarsi e regalare questo Natale. Riporta le parole lasciate alla moglie, prima di essere assassinato, dal primo “eroe borghese” caduto in quegli anni, ricchi di un’opulenza effimera e corrotta, che vanno dal rapimento Moro agli attentati di Via Capaci e D’Amelio. Chissà che leggendolo qualche pizzaiolo all’estero non torni a Milano.

    «Pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica per fare qualcosa di buono per il Paese (…) Dovrai tu allevare i ragazzi (…) abbiano coscienza dei loro doveri verso se stessi, verso la famiglia nel senso trascendente che io ho, verso il Paese, si chiami Italia o si chiami Europa» (brano tratto da Corrado Stajano, Un eroe borghese, Einaudi, Torino 1991; cfr. anche Umberto Ambrosoli, Qualunque cosa succeda. Storia di un uomo libero, Sironi 2009). Giorgio Ambrosoli, avvocato di Milano, fu incaricato dal governo italiano di liquidare la torbida Banca Privata Italiana di Michele Sindona, e assassinato nel 1979 da un killer venuto dagli Stati Uniti su ordine del finanziere.

  2. Andrea Zhok
    mercoledì, 9 Dicembre, 2009 at 11:55

    Commento di Stefano molto gustoso e pieno di ottimismo della volontà. Davvero una pagina da far leggere; anche quando non ci si crede troppo…
    E’ vero che la storiografia è sempre anche un atto morale non neutrale, è vero che, per dirla con un nostro classico e rimosso autore, la storia è sempre storia contemporanea, ed in questo senso è vero che i margini ideali per una rinascita culturale, a cercarli, ci sono. Purtroppo, però la crisi è, come quasi sempre, insieme etico-culturale ed economica (di modello economico, più che di PIL), e l’una rinforza l’altra in un modo che non consente facilmente di esercitare le virtù autolevitative del barone di Muenchausen, uscendo dalla palude tirandosi per i capelli. Il pizzaiolo cum laude di Berlino può anche avere nostalgia del suo paese e può anche pensare che esso è redimibile, ma se torna in Italia finisce a fare il telefonista con genuflessione quotidiana al suo ‘donatore di lavoro’.

  3. giovedì, 10 Dicembre, 2009 at 13:24

    È difficile dare torto a Stefano quando si lamenta di una certa retorica del declino italiano. Anche quella è una piccola industria nazionale (sotto i 16 dipendenti!), con i suoi (magri) introiti, le sue rendite di posizione, i suoi leziosi manierismi. Avendo trascorso gran parte della mia vita di ricercatore nella condizione apparentemente senza scampo del precariato intellettuale, so per esperienza diretta che su chi vive quella realtà la retorica del declino esercita un ben scarso appeal. La tonalità emotiva fondamentale è il senso d’impotenza, e l’oscillazione tra collera e sconforto che sempre accompagna quello stato d’animo. Come dimostrano gli studi sugli animali, esiste un nesso causale evidente (e comprensibile) tra senso d’impotenza e depressione, e nel caso dei giovani ricercatori lo sconforto è l’effetto inevitabile della desolante scoperta che la qualità del proprio lavoro intellettuale non può essere l’arma su cui fare leva per costruire la propria carriera. Non può esserlo, anzitutto, perché il luogo in cui quell’eccellenza dovrebbe essere riconosciuta agonizza per assenza di entusiasmo e passione. La retorica del declino, in fondo, è il rifugio dei cinici che hanno conservato ancora qualche scrupolo.
    Nel quadro così elegantemente e acutamente dipinto da Stefano resta però un punto cieco: un vero e proprio enigma che chiama in causa me, Stefano e Andrea e tutti i quarantenni come noi che hanno assistito da adolescenti all’inizio della deriva italiana e che quella condizione di spettatori o, tutt’al più, di attori non protagonisti, non l’hanno sostanzialmente mai abbandonata. Come si spiega il nostro scarso protagonismo? La nostra invisibilità pubblica? Penso a me, a Stefano, ad Andrea e a molti altri e mi dico che non sono certo le energie o le doti intellettuali a mancarci, eppure è come se fossimo condannati a vivere eternamente secondo regole del gioco che non condividiamo, ma non sappiamo modificare. Se non vogliamo cedere al retrogusto stantio della retorica del declino, dobbiamo guardarci nello specchio e capire perché stiamo incidendo così poco. Può darsi che la colpa sia tutta di una sorte ria e beffarda e di un paese buono solo per vecchi scaltri, cinici e un po’ sporcaccioni, ma la domanda dobbiamo comunque porcela: perché?

  4. Stefano Cardini
    domenica, 13 Dicembre, 2009 at 17:01

    Naturalmente, rispondo ad Andrea, non era mia intenzione biasimare o moraleggiare sul nostro simpatico filosofo-pizzaiolo. C’è senz’altro più penuria di pizzaioli a Berlino che di fenomenologi in Italia: lì il mercato è effettivamente spietato. Fosse mio figlio, e ormai potrebbe anche esserlo, forse lo incoraggerei a comprare un biglietto di sola andata. Ma con quale pesante bagaglio di compiaciuta autocommiserazione gli zavorrerei di nascosto la valigia? C’è modo e modo anche di scegliere la via dell’esilio, come ci hanno insegnato molti italiani, migranti e perseguitati. Paolo chiede perché un’intera generazione, quella nata diciamo nell’intorno della strage di Piazza Fontana, non è riuscita, pur apparentemente volendolo, a cambiare le regole del gioco, anche quando non l’ha condiviso. Ci sarebbero molte possibili spiegazioni da tentare (ed è stato fatto più volte). Una di queste, però, riguarda anche un’inclinazione quasi patologica, da melo-psico-dramma generazionale autoprocurato, a ritorcere su se stessi domande che andrebbero, per la verità, rivolte direttamente alle cose stesse, tentando e praticando attivamente delle risposte. Mi viene in aiuto Antonio Pascale, un brillante e letto scrittore classe 1966 (esistono e sono pure bravi!), che ha appena mandato in libreria un pamphlet che fotografa in maniera ironica e implacabile al tempo stesso una condizione che accompagna la nostra generazione da sempre e che oggi ha contagiato l’Italia intera. Il titolo parla da sé: Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa? (Editori Laterza, 2009). Nonostante alcune tesi discutibili (non credo mi convinceranno mai ad accettare le centrali nucleari di quarta generazione promettendomi di mettere le ali alle loro scorie) e alcuni eccessi caricaturali (dai Antonio! Non tutti gli ecologisti di sinistra, e neppure i più, sono radical-chic da terrazza romana), pone un problema molto serio che ci riporta alla crisi culturale da cui eravamo partiti, e che nessuna crisi strutturale economica o altro ci assolve dalla responsabilità di risolvere: abbiamo bisogno di un metodo. Di un metodo che ci faccia passare dall’era della rivoluzione, attesa o rimpianta e sostituita dalla palingenesi, all’era della manutenzione. Anzitutto della manutenzione delle nostre idee e dei nostri sentimenti (sì, sentimenti). Quindi delle istituzioni, dell’economia, dell’ambiente, della comunicazione e così via. M’è sembrata una bellissima proposta, cogente, accessibile, pratica e con qualche probabilità di successo. Non vi risparmierò dell’onere della lettura, ma cito estesamente Pascale: « (…) c’è il forte sospetto che per essere moderni bisogna essere anche colti e intelligenti, cioè aperti al mondo, ma, cosa più importante, per essere felicemente moderni, oltre a studiare studiare studiare, è necessario avere una scala di misura, non solo culturale, ma soprattutto scientifica, dentro la quale muoversi e in funzione della quale poter misurare la distanza che ci separa dalle cose. (…) In assenza di questo metro, formalmente chiaro, poi si produce di nuovo il sapere nostalgico o quello religioso. (…) La passione per la misura, per il confronto, per la previsione (…) si perde. Ci riesce difficile comunicare questo sentimento del mondo alle nuove generazioni. E anche gli spettri notturni diventano poi fantasmi che fanno la voce grossa ma non spaventano nessuno. Anzi diventano di moda, vengono pagati per dire che l’apocalisse è domani (…) ». È “l’ideologia del tè verde”, conclude Pascale: provvidenziale e sanatutto, perché naturale; ideologia in grazia della quale, oscurata ogni storiografia problematica e rischiosa perché rigorosa, la storia è divenuta quel teatro del numinoso di cui parla un altro recente e interessante libretto (Mario Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi 2009), nel quale ogni azione e riflessione (che per dare senso alla storia, dalla storia cerca anzitutto di trarne uno), pare annichilita dal susseguirsi di traumi o miracoli (della scienza, della politica, della società…), che quotidianamente viene messo in scena con la complicità di giornalisti, uomini di lettere e di scienza. C’è qui, mi chiedo, uno spazio d’azione manutentiva delle idee e dei sentimenti, a partire dal rispetto e dalla cautela che esigono la verità e la decisione responsabile, che non sia vano esercizio retorico? O dobbiamo rassegnarci alla mitopoiesi pseudo-storiografica, alla palingenesi o all’apocalisse annunciata su basi pseudo-scientifiche e ai livorosi vaneggiamenti di declino o rinascita propagandati dalla pseudo-informazione? Con la scusa che “tanto la rivoluzione non si faceva più” (cito ancora da Crainz), negli ultimi vent’anni, un’intera (o quasi) generazione d’intellettuali engagés s’è divisa tra i molti che hanno abbandonato alla spicciolata la scena pubblica senza quasi una parola di spiegazione (e seria autocritica) e i pochi (meno di 16 appunto! con i loro quindicimila lettori di forcelliana memoria…) che ne hanno preso in via definitiva possesso in grazia di un esercizio d’abiura che tutto ha condannato affinché di tutto si potesse continuare ad essere assolti. Chissà che un compito più umile, paziente e discreto, come la manutenzione di Pascale, non possa essere indicato a noi e ai nostri ragazzi non solo come più utile ma anche come più entusiasmante delle rivoluzioni o delle palingenesi, democratiche o populistiche, quotidianamente in scena.

  5. lunedì, 14 Dicembre, 2009 at 11:51

    Stefano ha ovviamente ragione quando osserva che bisogna rifuggire l’“inclinazione quasi patologica, da melo-psico-dramma generazionale autoprocurato, a ritorcere su se stessi domande che andrebbero, per la verità, rivolte direttamente alle cose stesse, tentando e praticando attivamente delle risposte”. E Pascale ha trovato l’immagine giusta quando parla di “manutenzione”. Potrei sbagliarmi, ma secondo me Obama sta toccando un tasto generazionale tanto importante quanto trascurato quando, con un’innovazione retorica importante (e impensabile nell’Italia di oggi), batte e ribatte sulla fatica del vivere e sulla centralità dell’impegno personale. Nei miei momenti più ottimistici, in effetti, mi immagino i miei coetanei immersi nell’arte della manutenzione esistenziale, un lavoro oscuro ma essenziale. Ovviamente, non è vero per tutti (e forse neanche per la maggioranza), ma la percentuale degli “specialisti della cura” potrebbe essere statisticamente significativa tra i quarantenni.
    L’altro fatto ovvio – e sempre più evidente con il passare degli anni – è che siamo diventati adulti in un’epoca di transizione e molti di noi stanno (precariamente) a cavallo tra due epoche molto diverse. La cosa dovrebbe risultare particolarmente evidente per quanti di noi hanno scelto una professione intellettuale come quella del ricercatore, alla quale si sono avvicinati con in testa modelli, immagini ed esempi che sono diventati obsoleti e irrealistici in un lampo, proprio quando ne avremmo avuto più bisogno.
    Tutto ciò mi è tornato alla mente in questi mesi di commemorazione della caduta del Muro. Durante una bella conferenza, a me che lo incalzavo sul senso di disillusione prodotto dalla transizione tedesca, lo scrittore tedesco Ingo Schulze ha giustamente fatto notare che le grandi aspettative investite in quegli anni sulle rivoluzioni tranquille dei paesi dell’Est erano anche un enorme esercizio proiettivo e che in quelle società civili in subbuglio molti di noi cercavano il riflesso di un Occidente diverso e una consolazione per la nostra transizione fallita.
    A quel punto ho pensato all’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta e all’Italia di oggi. Certo, della prima si può anche provare nostalgia, ma non dobbiamo nasconderci che l’Italia attuale è (e non può che essere) il prodotto di quella Italia. E, certo, la spiegazione di quella transizione fallita sta con tutta probabilità proprio in un difetto di manutenzione.

  6. Gabriele Poeta Paccati
    mercoledì, 23 Dicembre, 2009 at 21:04

    Con ritardo incolpevole – ma pur sempre ritardo – rispondo ai commenti di Stefano e di Paolo. Prima che le batterie del portatile si scaricassero avevo abbozzato una replica (ormai persa) del tipo: ma come, saremmo noi gli adulti che hanno prodotto tutto questo?
    E’ fatto da me questo “mondo dei grandi” – per cui dovrei sentirmi in colpa verso i più giovani?
    In effetti non è fatto a modo mio, su mia misura: ho giocato con regole non mie, aspettando che prima o poi il bastone del comando passasse di mano. Solo dopo sarebbe possibile assumersi la responsabilità dell’esistente e dell’eventuale incapacità di modificarlo: “nessuna responsabilità senza comando”.
    Salvo poi scoprire che il passaggio del testimone non sarebbe avvenuto, e probabilmente non avverrà più. Almeno in termini quantitativamente rilevanti e almeno per gli attuali (non splendidi) quarantenni, perchè scavalcati dalla generazione successiva – quella dei giovani-giovani.
    E’ un dato della mia esperienza. Nelle organizzazioni la generazione gloriosa “che ha fatto il sessantotto” sta forse per uscire di scena, ma non a vantaggio di quarantenni senza esperienze forti, vissuti nell’ombra, al massimo funzionari competenti. Mai fatta una lotta significativa, mai esposti in prima persona. Sempre pronti a replicare gli ordini o l’ordine che si è ereditato. Meglio passare il comando a un brillante trentenne – inesperto ma motivato. Capace di generare discontinuità.

    Viviamo una transizione lunghissima, nel cono d’ombra degli ex, di cui non ci si è sbarazzati (nè mai sarà possibile): “ombre rosse”, post rivoluzionari che non hanno ancora detto tutto, o pretendono di aver ancora qualcosa da dire. O peggio: da rivelare.

    E’ il solito piagnisteo sulla “generazione degli anni perduti”?
    Si, ma con motivo. Una generazione di passaggio, che non lascerà un grande ricordo di sè. Va così: come dopo il 9 termidoro, per lungo tempo. Personaggi ingombranti che occupano la scena e nessuna missione da compiere.
    E’ qui che si apre lo spazio per la “manutenzione”. Per esercitare la responsabilità individuale di chi vorrebbe lasciar le cose un po’ meglio di come le ha trovate, rimuovendo la sporcizia di chi è passato prima.
    Esercizio paziente, da retrovia, per nulla accattivante. (Non ci fai nè una copertina nè un congresso…)
    In campo sociale, è quello di chi osa dire che non è bello battersi per una riforma del Welfare che investe 10 miliardi sulle future pensioni degli attuali cinquantenni (meglio: una frazione di essi) e non si occupa di chi andrà in pensione con tassi di sostituzione inferiori al 60 percento.
    In campo politico è quello di chi sa che non ci sono alternative a breve: che non ci sono soluzioni dietro l’angolo, a portata di mano.
    Che abbassare il volume serve. Che occorre una strategia durevole.
    Ognuno nel suo ambito. Come direbbe Stefano.

  7. venerdì, 8 Gennaio, 2010 at 11:32

    Mi è consentito aggiungere soltanto che Gabriele ha ragione su tutto? Con una piccola chiosa da inguaribile ottimista: c’è qualcosa di virtuoso e a suo modo poetico nell’appartenere a una generazione di transizione, destinata a rimanere nell’ombra. Tra l’altro consente un punto di vista sulle cose che non saprei come definire se non… più esatto! Ma questo l’aveva già notato Hannah Arendt quando parlava dei paradossali privilegi dei paria…
    🙂

  8. Stefano Cardini
    sabato, 9 Gennaio, 2010 at 11:09

    Concordo con le cose scritte da Gabriele. Con una puntualizzazione sulla nuova generazione. Sì, in effetti quel che scrivi è quello che si dice (e un po’, mi si perdoni, ci si racconta). Tra i requisiti di brillantezza della nuova generazione, in realtà, non ha parte secondaria il costo, a seconda degli ambiti, anche di molto inferiore, e la rinuncia pressochè totale non soltanto a una qualche garanzia di stabilità (alla quale rinunciarono per primi già i quarantenni), ma a qualunque aspirazione alla stabilizzazione (della professionalità, del lavoro, del reddito, dello status). I quarantenni, se non hanno perso di recente il posto, sono spesso dei sopravvissuti, dopo lunghe fatiche e logoranti e precarie anticamere, al processo di progressiva liquefazione del lavoro; i trentenni nascono liquidi e tendono spesso a fare, comprensibilmente, della loro precarietà anche una virtù. È una contesa che trascina tutti giù, purtroppo. E con i ventenni (disperatamente senza lavoro) già alle porte! Qualche mese fa, a proposito di nuove iniziative nell’ambito dell’editoria digitale, ho sentito pronunciare a un alto dirigente cinquantenne la sequente frase: “un 35 enne è già troppo vecchio, qui non dovrebbe lavorare nessuno con più di trent’anni…”. Da una “brillante” generazione all’altra. Generazioni, da notare, sempre più precocemente invecchiate.

  9. Corrada Cardini
    lunedì, 26 Aprile, 2010 at 22:36

    Per quel che vale, una nota personale. Ho 60 anni e sono della generazione degli ex, come simpaticamente avete definito i “protagonisti” della stagione dei “ribelli”… avrei molto da dire su quei giorni, sulla confusione, sulla passione iconoclasta che tuttora non mi abbandona… sulla rabbia, l’orgoglio di sentirsi “contro”, la dialettica feroce fra gruppi e partiti della sedicente sinistra nella quale si è forgiato e affinato il gusto per il dibattito politico, per l’analisi e la critica delle “cose”. Va detto che io non stavo troppo a mio agio con la gran parte dei miei coetanei, studenti in genere. Ero anche io ribelle e “contro”, ma alla fine avevo trovato la mia strada tra gli odiati traditori, i revisionisti, e preferivo rapportarmi ai vecchi compagni delle sezioni del PCI, che trovavo a volte patetici e spesso ingenui, ma che rispettavo enormemente per la loro qualità morale, per le loro storie personali, fatte di coerenza e rigore… Tuttora ho fra i miei più cari ricordi una meravigliosa galleria di uomini e donne appassionati e fiduciosi, fanaticamente onesti e orgogliosi del proprio lavoro. Non erano solo operai, erano professionisti, artigiani, commercianti… Mi hanno dato molto, il piacere e la volontà di salvare il possibile di ciò che restava dei loro sogni. Ora mi sento sconfitta oltre ogni pessimistica previsione ma sono ancora “contro”, incazzata e in cerca di risposte, e di spazi d’azione… Mio figlio neanche vota e sogna l’America… mio figlio… va verso i trenta ed è intelligente e capace… Non vuol saperne di scommettere su questo paese. Con una madre diversa, forse, sarebbe più fiducioso? Più impegnato nel dare un contributo costruttivo? Difficile a dirsi. Lui, e i suoi amici a quel che so, si sentono vittime della ns. generazione che ha creato privilegi e inefficienze, che li ha sacrificati alle lobbies dei garantiti, che ha permesso l’avvento di un satrapo che sta scardinando ogni regola e ogni sicurezza… contro cui non serve lottare, perché lui è e sarà comunque l’interprete dell’italiano medio e del futuro del sistema post capitalista… Sentiamo la stessa musica, abbiamo gli stessi nemici, ma loro si sentono in qualche modo disadattati e destinati ad essere discriminati… vivono il loro disagio come uno svantaggio oggettivo… e voi, i quarantenni? Date fondo alle provviste e vi chiamate fuori? Immersi nella quotidianità, coltivate le arti liberali, vi scaldate al calore della amicizia e cercate stili di vita salutisti, vi difendete dallo stress come potete e aspettate per vedere che succede? Che dire? Difficile darvi torto.

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