J. Hersch, da Rischiarare l’oscuro | III – Le prime opere (BCD 2006)

sabato, 6 Marzo, 2010
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Copertina di Rischiarare l'Oscuro (BCD 2006)

Copertina di Rischiarare l'Oscuro (BCD 2006)

«G.D.K. – Gli anni di formazione da lei evocati sono sfociati in un libro, L’illusion philosophique, pubblicato nel 1936. Il suo primo scritto filosofico risale però al 1931, è il suo mémoire de licence, dedicato, curiosamente, a Henri Bergson.
J.H. – Posso spiegarlo. Dovevo presentare per la licence un mémoire di letteratura francese. Cercai una via che mi permettesse di fare un mémoire di letteratura francese il più vicino possibile alla filosofia. Potrei fare, mi dissi, uno studio sullo stile di Bergson. Già allora ero convinta che la forma nella quale una filosofia si esprime sia molto importante – molto più tardi, nella mia tesi, scrissi: «Il fondo del fondo è la forma». Mi concentrai dunque sulla forma, anzi su un suo aspetto particolarmente afferrabile nell’opera di Bergson e scrissi un mémoire sul suo stile. Allo scopo di rendere la mia indagine ancora più stringente, fissai l’attenzione sulle immagini¬ nella sua opera. Le immagini non dovevano essere una forma espressiva accidentale, bensì il solo modo di esprimere l’essenziale di ciò che lui voleva dire. Feci una ricerca sistematica. Fissai, attraversando l’intera opera di Bergson, una lista di immagini, che poi classificai, e di cui esaminai l’evoluzione nelle opere successive. Il mio mémoire piacque molto a François Grandjean, che conosceva bene Bergson e gli mostrò il mio lavoro. Bergson, all’epoca, era molto anziano, malato, immobilizzato su una poltrona a causa di reumatismi molto dolorosi. Chiese però di vedermi. Mi ricordo che il giorno in cui mi recai a casa sua, in Avenue Beauséjour, ebbi l’impressione, io che venivo dalla provincia, con i miei vent’anni, di entrare nella mecca della filosofia. Nel mio mémoire avevo osservato che quasi tutte le immagini che, a livello cosciente e deliberato, esprimevano un movimento ascendente erano in realtà immagini di ricaduta. Avevo collegato tale caratteristica al movimento profondo della sua filosofia, il movimento nascosto nel discorso, sottostante al dire. Pensavo che quelle immagini riflettessero uno sforzo costante per superare un originario abbandono al pessimismo, ogni volta recuperato eroicamente da una volontà positiva.
G.D.K. – Bergson era d’accordo con la sua interpretazione?
J.H. – Mi disse subito: «Lei ha ragione, nel fondo c’è quel pessimismo, è il mio primo movimento, ma non quello buono». Proprio ciò che avevo mostrato. In Bergson c’è un fondo schopenhaueriano, costantemente sconfitto dalla volontà positiva di libertà.
G.D.K. – Il bergsonismo è abbastanza estraneo al suo pensiero.
J.H. – In seguito mi allontanai dalla filosofia bergsoniana, ma non totalmente. Il problema che rimane centrale in essa è il problema del tempo, che ha continuato a essere essenziale anche per me. La mia concezione del tempo si è però trasformata completamente, non condivido più l’idea bergsoniana del tempo. Al contrario, sono d’accordo con la critica di Bachelard, che ha rimproverato a Bergson di aver dissolto, in qualche modo, l’istante nel Trend, il flusso puro. In seguito mi sono avvicinata a Kierkegaard. (continua) ».

Scarica in formato Pdf il capitolo III, Le prime opere, del volume Rischiarare l’oscuro, Autoritratto a viva voce, Conversazioni con Gabrielle e Alfred Dufour (Baldini Castoldi Dalai 2006)

Il libro Nel 1986 viene pubblicato questo autoritratto a viva voce ed esce la traduzione francese, opera della stessa Hersch, delle quasi 1000 pagine di Philosophie (1932) di Karl Jaspers, il cui secondo volume è intitolato Chiarificazione dell’esistenza. Il titolo dato a queste conversazioni «mima» dunque quello jaspersiano, ricreandolo al tempo stesso in una tonalità più pittorica, con un deciso effetto di chiaro-scuro. Nel 1985 Jeanne Hersch era una filosofa autorevole, ma anche discussa e non facilmente collocabile, a causa di alcune prese di posizione, di cui questo libro reca traccia, ben poco allineate alle ideologie dominanti negli anni Sessanta e Settanta. Intellettuale per nulla entusiasta del nuovo, fieramente ostile all’engagement, preoccupata di affermare le lontane radici delle «rivoluzioni» pedagogiche, intimamente persuasa della validità della lezione ex cathedra, nonché dell’opportunità di mantenere certi simboli della scuola del tempo che fu, Jeanne Hersch si presenta con uno stile che intreccia esistenzialismo e realismo, buonsenso femminile e umorismo ebraico. Jeanne Hersch manifestò in molti modi la sua avversione nei confronti dell’autobiografia, ma non disse di no a chi le chiese uno sguardo d’insieme sulla sua attività. Solo rispondendo ad altri vide disegnarsi la linea del suo pensiero e della sua esperienza, rendendo unico il testo di queste conversazioni, che vanno ben oltre la ricostruzione biografica e forniscono elementi essenziali per la conoscenza e l’approfondimento della sua opera.

Profilo dell’autrice Jeanne Hersch (1910-2000), nata a Ginevra, cresciuta in una famiglia di intellettuali ebrei dell’Est europeo, precocissima, a soli vent’anni pubblicò Le immagini nell’opera di Bergson, che suscitò l’interesse del filosofo francese. Fu allieva di Karl Jaspers, a Heidelberg negli anni Trenta, e nel 1933 si recò a Friburgo ad ascoltare i corsi di Martin Heidegger. Dal 1956 al 1977 insegnò all’Università di Ginevra e per tutta la vita si dedicò con passione a elaborare una filosofia dei diritti umani. Diresse anche la divisione di Filosofia dell’Unesco (1966-1968) e realizzò il monumentale volume Le droit d’être un homme (1969). Tra le sue opere più importanti: L’illusione della filosofia (1936); Essere e forma (1946); Idéologies et réalité (1956). Per Baldini Castoldi Dalai editore è uscito nel 2005 Primo amore (Temps alternés) – da lei definito «Esercizio di composizione» – che pubblicò a trentadue anni.

Quarta di copertina«Vorrei che la mia vita fosse un’unità, ma il mio sentimento profondo è che non posso conoscerla. A mio giudizio, essa ha avuto un’unità insufficiente. Ma è una dimensione di fronte alla quale ho assunto l’abitudine di aprire le mani, e di non fare i conti. Forse è questo ciò che ho acquisito nel corso dell’esistenza. A poco a poco la mia coscienza ha abdicato dal ruolo di ultima istanza. Essa non è l’ultima istanza. E allora, mi viene una certa frivolezza, forse più profonda della serietà, che mi fa dire: ebbene, basta, ho fatto come ho potuto e per il meglio nella vita che è stata la mia. Questa vita non mi soddisfa, ho probabilmente aiutato un po’ la gente – un po’, non molto: ho certamente fatto del male – sono stata davvero presente alla mia vita, mi sembra. Nell’orchestra del mondo, sono stata un piccolo strumento con il suo timbro particolare. Dopodiché, dico: è abbastanza! I miei conti non sono io che li faccio; mi rimetto…».

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