Tra cronaca e storia. Il Legacy Project è un «lascito» o un «mandato»?

lunedì, 24 Maggio, 2010
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Per chiunque sia stato abituato a studiare filosofia sui solenni ma anche un po’ irrigiditi volumi delle biblioteche universitarie la proposta avanzata in questi giorni dallo Hildebrand Legacy Project va decisamente controcorrente.

Certo, in un qualche modo le consuetudini accademiche – che sono anche consuetudini del ben leggere, del ben citare, del ben padroneggiare la lettura critica – sembrano essere tutte onorate. Eppure si nota da subito qualche cosa di più  e di diverso, che trapela già dai tempi e dai modi in cui l’iniziativa è stata organizzata: un’iniziativa di rilevanza accademica, e ospitata da un’Università essa stessa. Ma anche un’idea che deve la propria nascita – in modo del tutto unico nel panorama internazionale – all’iniziativa del figlio di uno tra gli allievi americani di von Hildebrand. Di John Henry Crosby, che decide di dar vita a un progetto che abbia per finalità il recupero, lo studio e la diffusione del pensiero di un autore ancora troppo poco letto e conosciuto nella sua seconda patria: l’America. Dunque di dar vita a un progetto che attesta una Legacy, intesa certo letteralmente come «lasciato», ma forse ancora di più come «mandato» che da questo lascito tragga spunto e indirizzo.

Pare del resto questo il senso di alcune parole pronunciate più volte dalla stessa Alice von Hildebrand, per la quale – intervista concessa a una radio americana nell’autunno 2009 alla mano – è risultato essere «of the greatest joy» seguire i primi passi di una realtà capace allo stesso tempo di interfacciarsi con l’accademia e di trarre materia di ulteriore dibattito da una rosa di contatti non necessariamente universitari.

E’ chiaro però che se di questo punto di partenza nel caso del Legacy Project si è trattato, anche l’approccio a von Hildebrand risulta ben diverso – e sicuramente provocatorio – rispetto a ogni altro approccio “classico” a lui e agli altri fenomenologi della prima generazione. Più che partire da un insieme di concetti tanto ben delineati quanto alla lunga “sterili”, per attribuirli poi con un’equivalenza tanto irrigidente quanto forse falsata al loro autore, si parte dall’autore stesso, colto nel vivo del suo essere e del suo operare. Si parte dalla vita, in modo non troppo distante da quel «primum vivere deinde…» di antica memoria. E si risale alla filosofia, tanto più coerente, anche nei suoi snodi argomentativo-retorici, quanto più calata nel vivo di una Stellungnahme in prima persona.

Un compito tanto affascinante quanto impegnativo, per il quale il “già conseguito” non può e non deve essere che tappa intermedia. Sia per una sempre più coerente contestualizzazione del pensiero di von Hildebrand nel pensiero della sua epoca, esso stesso ancora troppo poco conosciuto e capito. Sia per una riattualizzazione del suo messaggio, così che esso possa parlare agli «uomini del tempo presente» (Husserl docet) nella piena fedeltà «alle intenzioni delle origini».

«Fenomenologia continente sommerso?», si chiedeva nel 2000 Roberta De Monticelli firmando insieme a Francesca De Vecchi e a Roberta Guccinelli un’Antologia di passi fenomenologici allora inediti in Italia (La persona: apparenza e realtà, Cortina ed.) – da Moriz Geiger a Edith Stein allo stesso Dietrich von Hildebrand? A distanza di qualche anno, la risposta sembra essere ancora un “sì”: capace di provocare e perciò stesso di smuovere.

Lodovica Maria Zanet

Leggi gli altri articoli del nostro speciale sulla Hildebrand Rome Spring Conference.

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