La bellezza di Prometeo. Spunti per un’etica della verticalità (parte seconda)

giovedì, 22 Dicembre, 2011
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Un animale smarrito e solo,
Morso nel ventre da un rovello incessante
Che lo fa correre, tremare di stanchezza,
Per fuggire la fame che solo morendo sfugge;
In cerca della vita per oscure selve;
Cieco quando la notte manda le sue ombre;
Colpito nel cuore della roccia da freddo mortale;
Pronto all’accoppiamento in casuali strette;
Preda di dèi, dei loro oltraggi che lo fanno urlare.
Tale saresti, uomo, senza Prometeo.

(Simone Weil, Prometeo)

(…)
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.

(…)

(Kostantinos Kavafis, Itaca)

La bellezza morale può essere considerata come la giustizia che si realizza prendendosi cura del “come” e del “quanto” non meno che del “che”. Proverò ad accostarmi alla questione interpretando liberamente il poema in prosa Prometeo ed Epimeteo dello svizzero Carl Spitteler, premio Nobel per la letteratura nel 1946, coetaneo di Nietzsche – e come lui soggiornante per un certo tempo a Basilea -, apprezzato e attentamente studiato in particolare dal padre della psicologia analitica, Carl Gustav Jung, nell’opera Tipi psicologici.

Prometeo ed Epimeteo, almeno nella traccia esiodea, sono due fratelli della stirpe dei Titani, i figli di Urano sconfitti da Zeus e dagli altri dèi olimpici nella lotta per succedere a Crono, ardito artefice dell’evirazione di Urano. Epimeteo, colui che pensa dopo, vede tardi lo sviluppo degli eventi, le loro annunciate conseguenze nefaste. Agisce senza sapere, convinto di sapere. Prometeo no. Agisce perché sa, con consapevole premonizione: pensando prima.

Che relazione si può trovare, allora, tra il pensare, prima o dopo, e l’agire per il bene o per il male, ovvero, riprendendo il nostro tema, tra il conoscere e il decidersi secondo giustizia e bellezza? Di primo acchito il nesso non appare infatti evidente.

Nel poema di Spitteler l’Angelo del Signore offre a Prometeo, che al fianco del fratello Epimeteo vive in solitudine nel folto della foresta, il potere di governare il creato in sua assenza, così che nulla possa accadere di male agli uomini nel caso in cui altre faccende chiamino l’Angelo lungi dalla Terra o una malattia lo colpisca, paralizzando le sue forze o frenando il suo volere. Prometeo è inizialmente il prescelto. Ma oppone un rifiuto, perché vivere con gli uomini e governarli, implicherebbe venir meno ai doveri verso sé in favore dei doveri verso gli altri, rinunciando alla propria anima. Il rifiuto di Prometeo è accolto con sdegno dall’Angelo. Prometeo è ingrato: mirabile per audacia, tempra e integrità, è incapace di rinunciare alla propria anima in cambio di una coscienza morale che gli mostri il “come” e il “quanto” del recto agire, e non solamente il “che”. Il vizio di Prometeo, d’altronde, è la hybris. E l’Angelo lo ammonisce con un presagio minaccioso: «Chi inorgoglisce tanto da disprezzare il mio comando e da erigere se stesso a norma, senza piegare l’anima sua davanti alle leggi eterne, sarà ripudiato, e inutile erbaccia diverrà per lui il copioso rigoglìo di tutte le sue forze». E ancora: «Se non riuscirai a liberarti dall’ingiusto modo d’essere della tua anima, accadrà che perderai il grande premio di tanti anni e la felicità del tuo cuore e tutti i frutti del tuo spirito multiforme. (…) Nel giorno della gloria sarai respinto a cagione dell’anima tua che non conosce alcun dio, che non rispetta alcuna legge e che nella sua superbia non riconosce nulla di sacro, né in cielo né in terra».

Prometeo, esiliato, è destinato a errare in disperata solitudine, confidando soltanto nella propria anima e nelle proprie forze.

La scelta dell’Angelo cade così su Epimeteo, il quale, smarrito e tremebondo a seguito della rottura del patto con il fratello, grazie alla coscienza della rettitudine che ricaverebbe adempiendo all’alto compito, trova la forza per assumersene la responsabilità. Il popolo plaude. Ed Epimeteo si rivela all’altezza, governando gli uomini con senso di giustizia e umanità.

Ben presto, però, l’Angelo dovrà ricredersi. Come temuto, cade malato, ritrovandosi impossibilitato a curarsi della Terra e degli uomini. Ed Epimeteo, abbandonato alla sua sola coscienza morale, temendo angosciosamente le mire sul regno del signore degli inferi (Behemoth) e del suo consigliere e negoziatore (Leviatano), sottoscrive sventatamente con le schiere dei diavoli un patto scellerato, in forza del quale – contro il suo stesso volere – due dei figli del dio (Hieros, Mithos) vengono uccisi e il terzo (Messias) è sul punto di esserlo.

Il popolo si schiera con i diavoli contro Epimeteo, che in preda al panico ha ormai perso la sua regale gravità e solennità. Soltanto l’intervento di Prometeo, richiamato dall’Angelo – pentito d’aver affidato il regno al fratello – salva il dono del dio (il figlio Messias).

Nel poema non mancano, naturalmente, eco romantiche: da Schiller e Goethe, discussi da Jung, ad Adalbert Stifter, non citato. Ma non è di questo che c’interesseremo. Senza impegnarci sul piano dell’intepretazioni psicanalitiche offerte da Jung al poema, infatti, in merito per esempio alle nozioni di introversione ed estroversione, e alla complessa teoria della libido a esse correlata, vorremmo limitarci a riprendere alcuni passi da lui dedicati a Prometeo ed Epimeteo, intesi da noi esclusivamente come possibili figure del conflitto morale così come può manifestarsi nel singolo e nella comunità.

Prometeo, spiega Jung, respinge il regno offertogli dall’Angelo, perché scendere a compromesso con la realtà, ovvero, prendersi cura dei valori obbliganti verso gli altri, significherebbe rinunciare alla propria anima, ovvero, tradire i propri valori. «Egli sacrifica il presente e il suo rapporto con esso per creare con il suo pensiero anticipatore un lontano futuro». Così infatti risponde all’Angelo, che lo redarguisce per l’attaccamento alla propria anima: « (…) non sta a me giudicare l’aspetto della mia anima, poiché, vedi, essa è la mia signora e il mio dio nella gioia e nel dolore, e qualsiasi cosa io sia, a lei lo debbo. Perciò con lei voglio dividere la mia gloria; e se deve accadere, ebbene, posso rinunciare anche alla gloria».

All’opposto, Epimeteo, che si fa guidare dai valori del mondo e dagli obblighi verso gli altri, non coglie le possibilità di futuro che pullulano nel presente (Luzi), e lascia dipendere il proprio valore dal giudizio degli altri. «Ho sete di verità, e la mia anima, guarda, è nella tua mano», dice rivolto all’Angelo, «e dammi, se vuoi, una coscienza che m’insegni ogni cosa e ogni essenza di giustizia». La fede in sé che, prima di sciogliere il patto con il fratello, ricavava, al netto di ogni ricompensa, dalla fede nel proprio incondizionato valore, ora la riceve dalla consapevolezza del ruolo che ricopre, dagli obblighi cui adempie e che gli sono riconosciuti. «E così avvenne: quando Epimeteo si levò sentì più alta la sua statura e più saldo il suo coraggio e tutto il suo essere era compatto e si sentì pervaso da un’ondata di benessere sano e gagliardo. E così percorse con passo sicuro la valle, diritto come colui che non teme nessuno, lo sguardo franco di chi ha coscienza del proprio retto agire».

Nel conflitto tra il “che”, da un lato, e il “come” e il “quanto” dell’agire, incluso l’agire morale, quindi, sono in gioco due forme di conoscenza, le quali hanno di caratteristico, anzitutto, un diverso rapporto con l’orizzonte temporale in cui l’azione ambisce di dispiegare i suoi effetti. La prima, che potremmo definire prometeica, muove da una funzione intuitiva dell’io – non lontana dall’accezione che anche Jung offre del termine intuizione -, capace di cogliere in un solo sguardo le possibilità di accrescimento/detrimento del valore insite nel presente attuale per agire di conseguenza e realizzarle. Il suo medium è l’immaginazione. E il suo rapporto con il futuro la premonizione fantasiosa e audace. La seconda, epimeteica, ha invece la coscienza morale socialmente acquisita come guida, raffigurata da Spitteler come un animaletto guidato da istinto di sopravvivenza e calcolo utilitaristico, teso a trarre da ogni situazione il massimo beneficio o quantomeno il minimo danno. Il suo medium è il pensiero. E il suo rapporto al futuro è la previsione, la stima razionale degli optima raggiungibili.

Entrambe le tipologie di conoscenza, d’altronde, hanno la propria forma di cecità.

Spiega Jung: «Prometeo, voltando le spalle all’umanità e alla sua coscienza codificata, cade in balìa della propria anima, padrona spietata, e del suo apparente arbitrio, pagando a caro prezzo la colpa d’aver trascurato il mondo. La saggia limitazione imposta da un’ineccepibile coscienza morale benda però gli occhi a Epimeteo in modo tale ch’egli è costretto a vivere ciecamente il suo mito, sempre convinto di agire rettamente, dato che è in perfetto e costante accordo con l’universale aspettativa, e sempre con successo, giacché soddisfa i desideri di tutti». Così, se Prometeo, teso all’affermazione del proprio essere (il “che”) in dispregio dell’apparire, vuole strafare e finisce per frustrare quanto fa, Epimeteo riduce interamente il proprio essere all’apparire (il “come” e il “quanto”). Per questo la sua azione s’accompagna in genere all’insegnamento e all’ammonimento morale e, se questi non sono sufficienti, deve cercare di impressionare per mezzo di gesti gravi e solenni gli altri, dando prova esemplare della loro bassezza. Prometeo, invece, è philantrophos: ama gli uomini, non il potere regale di Zeus su di loro; e dunque s’accontenta di ridurne lo svantaggio vitale nel cosmo ordinato degli dèi olimpici. Alla conoscenza e alla morale ordinarie di Epimeteo, pertanto, s’affiancano quelle straordinarie di Prometeo. Nessuna delle due, infatti, è di per sé sufficiente a dare compimento al nostro universo pratico, di cui quello morale non è che un caso particolare.

La bellezza entra esplicitamente in scena, invece, con Pandora, la prima donna nella mitologia esiodea. È la sposa che Zeus ha destinato a Epimeteo per punire gli uomini dopo che Prometeo ha rubato agli dèi la proto-techné del fuoco affinché potessero proteggersi dai rigori della vita nella natura, alla quale la solita imprevidente previdenza di Epimeteo li aveva condannati lasciandoli sforniti, diversamente dagli altri animali, di difese naturali. Pandora, scolpita in forme incredibilmente seducenti da Efesto, il fabbro degli dèi, è però mero artificio divino, non natura. Infatti il rapporto di Epimeteo con Pandora, di cui s’innamora, è dominato dall’apparire, mentre l’essere, ciò che racchiude il suo vaso – non altro che il suo ventre – è rappresentato dai mali del mondo, l’imponderabile minaccia sempre incombente nel cui orizzonte la vita e l’azione umana si dispiegano (Jean-Pierre Vernant, Pandora, la prima donna, Einaudi). Prometeo, nel mito, premonisce il pericolo e mette in guardia inutilmente Epimeteo. Nel poema di Spitteler, Pandora reca invece con sé un dono, un gioiello di cui né Epimeteo né i dotti cittadini né la comunità sulla quale regna, comprendono il valore. Il dono è un nuovo dio, spiega Jung, ovvero, una nuova norma, o regola d’azione, istituita la quale, si avrebbe un atteggiamento rinnovato di fronte alla realtà e un accrescimento del suo valore.

Possiamo trarre un’immagine efficace per questo contrasto, di nuovo, da una delle pagine di alpinismo estremo scritte da Walter Bonatti. Il racconto è quello della scalata in solitaria, del 1955, in sei giorni, del Pilastro sud-ovest del Dru, sul versante francese del Monte Bianco (in rete si trova un documentario sull’impresa). Per lo scalatore conquistare il Dru significa riscattarsi come alpinista e come uomo dopo le ombre gettate su di lui nella recente conquista del K2, dove i più anziani compagni di risalita, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, lo avevano ingiustamente accusato di non aver portato loro, come era compito del più giovane della spedizione, le bombole d’ossigeno per arrivare in vetta. Bonatti risale la cima con una tecnica denominata “pendolo”. Si lancia appeso alla corda, fino a raggiungere un punto, altrimenti inaccessibile, da dove può risalire verso la vetta. La tecnica è rischiosa, perché aleatoria: una volta richiamata la corda, non si può più tornare indietro. Ma Bonatti, che dai piedi della montagna ha studiato la via di risalita in tutte le sue parti visibili, è convinto di poter arrivare in cima. Eseguita una serie di pendoli, però, accade l’imprevisto: Bonatti si trova sbarrata la strada da una profonda svasatura nella roccia invalicabile. È in un vicolo cieco. Andare avanti è impossibile. Tornare indietro pure. Di conseguenza, si perde d’animo: « (…) mi sento svuotato e incapace di reagire. Resterò così per almeno un’ora, incollato all’unico chiodo che àncora me e lo zaino insieme, sopra un vuoto che in questo momento mi dà quasi la nausea. Ma piano piano ritrovo la forza per sottrarmi alla passività. Forse, a restituirmi l’energia è la consapevolezza che da cinque giorni lotto ai limiti del possibile per sciogliere il mio nodo interiore. E chi spontaneamente ha scelto il Dru per riconciliarsi con se stesso e con la vita, non può cedere all’inerzia e lasciarsi morire» (Walter Bonatti, Le mie montagne, Mondadori). Ripresosi dallo stato di prostrazione fisica e disperazione morale iniziale, Bonatti scorge, molto sopra al punto in cui si trova, alcuni spunzoni di roccia, una fragile e precaria increspatura sulla quale, pensa, potrebbe forse far presa un reticolo di fortuna formato di cordini, chiodi, ganci e altro che, al modo di bolas argentine, si aggrappasse a quelle fragili lame di granito in modo da distribuire il peso dell’alpinista su una superficie abbastanza estesa da sostenerlo in un pendolo che lo porti in un punto della parete da cui ripartire. I primi lanci falliscono: il reticolo non tiene. Ma dopo una quindicina di tentativi, la corda pare sostenerlo. Bonatti la strattona più volte. Ma i dubbi sulla solidità di quel grappolo di chiodi restano: non c’è modo di sapere se terrà anche quando il pendolo arriverà in verticale e ancor meno quando l’oscillazione porterà l’alpinista nel punto sulla parete simmetrico all’attuale. Deve decidersi: o resta lì, nell’attesa aleatoria che qualcuno lo soccorra, pregiudicando il senso di riscatto della propria impresa; o inibisce l’istinto di sopravvivenza che alimenta la sua inerzia, e accetta di abbandonarsi nel vuoto. È quello che farà, tralasciando di raziocinare sull’avere, poco prima, udito un aereo sorvolare la montagna, forse alla sua ricerca: «Un’ultima snervante esitazione, e quando “un certo che” sta per intaccare il mio autocontrollo, chiudo gli occhi, trattengo il respiro e scivolo nel vuoto appeso alla fune. Per qualche secondo ho la sensazione di precipitare, poi il volo in avanti si smorza e quasi subito avverto che sto oscillando all’indietro. L’ancoraggio ha tenuto!». Le difficoltà per Bonatti non saranno certo finite lì. Altri ostacoli, imprevisti, momenti di disperazione in una stanchezza senza fine, le mani sanguinanti. Ma quel salto nel vuoto gli ha ormai dischiuso una consapevolezza nuova di sé e dei propri mezzi: ora nulla gli sembra più impossibile.

«È quasi buio quando arrivo su un buon terrazzino per passarvi il quinto bivacco. Improvvisamente avverto di essere tornato alla vita, dopo esserne stato tanto lontano. In concreto nulla è mutato materialmente: il dolore alle mani, la sete bruciante, l’ombra nera dei profili severi. Eppure dentro di me sento rinascere l’uomo, con il quale in questi giorni non ho avuto più rapporti. Ma ora lo sto ritrovando questo rapporto, e tanto basta a farmi capire l’intensità di quanto ho appena vissuto. Fino a poche ore fa, la mia misura era quella della montagna, i cui elementi, roccia, gelo, vuoto, staticità, durata, avevo assorbito fino a diventare parte di essa. Adesso sento di avere in pugno il Pilastro del Dru. Ma sento soprattutto di aver varcato ben più lontani e invisibili confini. So di aver superato la barriera che mi separava dall’anima, e ancora sento, finalmente, di aver sciolto il mio nodo interiore, un trauma che viene dal K2. Nell’emozione di questo momento mi accorgo di avere gli occhi bagnati di lacrime». (Walter Bonatti, I miei ricordi, Mondadori, corsivi nostri).

Non c’è descrizione più chiara della possibilità e, anzi, in certi contesti, della necessità morale che l’azione coincida con una eraclitea enantiodromia: una corsa verso l’opposto, dall’atteggiamento di Epimeteo a quello di Prometeo. E il fatto che sia un alpinista e non un filosofo a illustrarla così efficacemente, non dovrebbe stupire più di tanto se, come è vero, persino Sant’Ambrogio esortava i cristiani a farsi “atleti dello spirito”. Lo diciamo senza ironia.

La bellezza dell’agire di Epimeteo, che si cura del “come” e del “quanto”, segue le vie razionalmente pre-viste nel senso per cui esse, nelle loro linee essenziali, sono in fondo già note. Quando il passo appare sbarrato, però, delle vie note la nostra volontà raziocinante può rimanere prigioniera, generando immaginari scenari consolatori che paralizzano l’azione (l’aereo in volo…). Prometeo interviene in forza del potere motivante del “che”, il quale esige, quando in gioco è la nostra anima più ancora della nostra vita, di correre il rischio mortale di aprire una via nuova. E questa, non corrispondendo ad alcun preciso modello già visto, appare certo più “brutta”, “sporca”, “tortuosa”, socialmente ben poco condivisibile rispetto a quella originaria; inoltre, più insidiosa, consegnata com’è all’incertezza di mezzi di fortuna resi visibili soltanto ora dalla straordinarietà delle circostanze. Eppure è innegabile, come gran parte dei romantici ha messo ampiamente in luce, il valore estetico dell’impresa prometeica.

Jung riassume efficacemente il concetto di rinnovamento insito nel soccorso prestato da Prometeo al fratello, che pieno della hybris eguale e contraria originata dall’esercizio del potere e dal pubblico riconoscimento della sua statura morale, lo aveva precedentemente umiliato: «L’uomo dimentica sempre che ciò che va bene una volta non va bene eternamente. Egli continua a battere le vecchie vie, un tempo buone, anche quando da lunga pezza esse hanno cessato di esserlo, e solo a prezzo dei più grandi sacrifici e di fatiche inaudite riesce a liberarsi dall’illusione che ciò che era buono una volta è forse invecchiato e buono non è più».

Alla conoscenza morale ordinaria socialmente condivisa di Epimeteo, quindi, nelle situazioni in cui l’informazione è scarsa o nulla, e pertanto l’incertezza sugli esiti della nostra azione è massima, viene in soccorso la premonizione creatrice straordinaria di Prometeo, il quale tuttavia, abbandonato a se stesso, è destinato a vivere spogliato di tutto, lontano dal consesso umano e dalla civiltà.

Benito Cereno, il capitano del veliero ostaggio dagli schiavi ammutinati di cui narra Herman Melville nell’omonimo racconto, dopo avere a lungo dissimulato, per sopravvivere, condiscendenza di fronte al servo carceriere Babo, rompe gli indugi e salta spericolatamente dalla nave mettendo in salvo la propria anima. Subito dopo, però, consegna la propria esistenza alla quiete di un monastero. Don Benito, agli occhi benevoli e interrogativi del suo salvatore Delano, porta fin da principio ben visibili i segni della sua condizione epimeteica ormai allo stremo: voce bassa e roca, volto febbricitante, estrema suscettibilità dovuta a un orgoglio ferito, fare confuso e contraddittorio, sguardo perso in un continuo risentito rimuginare. Il suo aspetto macilento, spiega Melville, è caratteristico della condizione colpevolmente innocente di chi è in lotta con se stesso per salvare, insieme, la vita e l’onore, la propria reputazione e la propria anima. Guadagnata la fuga, il ritiro in monastero è una convalescenza dalla malattia patita. Ma una convalescenza, quand’anche protratta fino alla santità, non è uno stato di salute.

In chiusura, giacché il tema da cui avevamo preso le mosse era il nesso tra moralità e bellezza, spendiamo due righe ancora su Pandora, figura che riassume il complesso gioco tra apparenza e realtà, bellezza e giustizia del nostro agire. Sul fondo della sua anfora improvvidamente scoperchiata, una volta fuorusciti i mali del mondo, resta solamente Elpis, l’attesa, che sempre riserva un intreccio di bene e di male. Elpis, quindi, è speranza, fede. Ma insieme angoscia, timore (Vernant). Ed è in questa fessura, in questo solco fertile, che l’uomo viene al mondo.

Questo post segue a quello dal titolo Sulla bellezza dell’agire per il bene. Spunti per un’etica della verticalità. Entrambi traggono ispirazione dalla discussione sorta attorno alla recensione di Gustavo Zagrebelsky al libro di Roberta De Monticelli La questione civile (Cortina Editore).

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