Una vita sognata. Spunti per un’etica della verticalità (parte terza). Attorno all’immaginazione nel pensiero di Simone Weil e Gaston Bachelard

giovedì, 29 Marzo, 2012
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Potenzialità (fotografia di Corrada Cardini)

Potenzialità (fotografia di Corrada Cardini)

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«I limiti esistono soltanto
nell’anima che è a corto di sogni.»

(Philippe Petit, Trattato di funambolismo)


(…) Le fiammelle dei ceri, naufragate
nello splendore del mattino,
dicono quel che sia
questo vanire
delle terrene cose
– dolce –,
questo tornare degli umani,
per aerei ponti
di cielo,
per candide creste di monti
sognati,
all’altra riva, ai prati
del sole.

(Antonia Pozzi, da Funerale senza tristezza)

ABSTRACT È un’osservazione banale che il nostro linguaggio etico, non meno di quello estetico, sia abitato da numerose immagini, molte – peraltro – comuni a entrambi gli ambiti della nostra vita di coscienza. Meno scontato è che esse debbano essere considerate qualcosa di più di semplici metafore. Tra di esse, in questo e altri due precedenti post, abbiamo deciso di soffermarci su immagini che hanno a che fare con la struttura spaziale della nostra esperienza, oltre che con il movimento e gli atteggiamenti pratici che possiamo assumere in essa. Si pensi alle distinzioni tra ascendere e discendere, salire e cadere; o alla contrapposizione tra superficie e profondità. Di qui l’idea di riflettere su quella che abbiamo chiamato etica della verticalità, ovvero, di impostare una descrizione fenomenologica di alcuni nuclei immaginativi raccolti attorno all’idea che l’azione morale possa, in taluni casi, mirare a qualcosa come un libero ma interiormente necessitato ascendere, elevarsi, sollevarsi. Anche un’etica dell’orizzontalità, beninteso, potrebbe essere svolta. I suoi nuclei immaginativi potrebbero raccogliersi attorno alla figura del viandante (come il tolstojano padre Sergij) o del navigatore (come l’Ulisse omerico). Qui, però, parleremo delle figure verticali della nostra vita morale. Quello che ci piacerebbe mostrare è che, ai fini di una compiuta teoria etica, oltre che la sfera della ragione ostensiva e discorsiva e degli atti emotivi, si dovrebbe indagare anche in direzione di una fenomenologia delle immagini etiche. L’immaginazione, questa almeno è la nostra convinzione, entra infatti nella costituzione del sostrato su cui si esercita il giudizio di valore, non solo estetico, ma etico, in modo indipendente e originario rispetto al pensiero e agli atti della sfera emotiva. Lungi dall’essere esornative o di mero pedagogico ausilio, infatti, le immagini ascensionali sono costitutive del senso stesso del nostro agire libero, ma interiormente necessitato, prima e indipendentemente dal fatto che un qualunque sentimento o una valutazione razionale di bellezza, bontà o giustizia intervengano a motivo delle nostre determinazioni pratiche. Per mettere alla prova questo giudizio, ripercorreremo in modo molto libero alcune pagine dedicate all’immaginazione da Gaston Bachelard, Roland Barthes e Simone Weil. Traendone, speriamo, qualche buona indicazione fenomenologica.

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Una vita sognata – Stefano Cardini 30/03/2012

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In questo terzo e ultimo post dedicato all’etica della verticalità, ci soffermeremo sull’immaginazione e sul suo eventuale ruolo costitutivo dei valori, oltre che estetici, morali.

Almeno in prima approssimazione, sembrerebbe abbastanza naturale ritenere che i valori estetici siano in una relazione in qualche modo essenziale con la nostra immaginazione. Meno ovvio è che lo siano anche i valori morali, e questo nonostante i molti tentativi, sorti soprattutto in epoca romantica, di costruire ponti fra queste dimensioni, se non di sovrapporle.

Per approfondire questo intreccio, metteremo a confronto come la questione sia stata affrontata, più o meno direttamente, da due pensatori, entrambi di lingua francese, tra loro molto distanti: Simone Weil e Gaston Bachelard, rispettivamente, ne L’ombra e la grazia (titolo originale: La Pesanteur et la Grâce) e in Psicoanalisi dell’aria (titolo originale: L’Air et les songes).

Esamineremo la posizione di Simone Weil, anzitutto, anche se soltanto limitatamente ai nostri scopi e pertanto in modo inevitabilmente succinto e parziale.

Essenzialmente, Simone Weil invita a guardarsi dall’immaginazione. L’immaginazione, infatti, spiega la filosofa, colma i vuoti: ciò che non siamo, non abbiamo, o non siamo o non abbiamo più, e che forse non possiamo (o non possiamo più) essere o avere. E colma anche il vuoto di ciò che non sappiamo e che forse non possiamo sapere. Ricorrervi, pertanto, significa schermarsi rispetto alla realtà, in una sorta di estremo, quasi automatico diremmo, tentativo di autodifesa dalla consapevolezza di quel che siamo e del nostro mondo. Il frutto che porta, quindi, è essenzialmente consolatorio. Ma il prezzo che ci costringe a pagare è alto. Perché impedisce l’accettazione della realtà, l’accettazione, cioè, del limite che la frustrazione del nostro desiderio rivela, limite che viene risospinto indietro, lontano, nella sfera dell’oblìo, dell’inconsapevolezza. L’immaginazione, dunque è nemica della grazia, senza la quale è impossibile non solo perdonare ma soprattutto perdonarsi. Di che cosa? Semplice: di esistere.

«Ogni vuoto (non accettato) produce odio, amarezza, rancore. Il male che si augura a ciò che si odia, e che s’immagina, ristabilisce l’equilibrio (…) L’immaginazione che colma i vuoti è essenzialmente menzognera. Essa esclude la terza dimensione, perché solo gli oggetti reali sono nella terza dimensione. (…) In qualsiasi situazione, se si ferma l’immaginazione si forma un vuoto (i poveri in ispirito). (…) Sospendere continuamente in se stessi il lavoro dell’immaginazione che colma i vuoti (…) ».

«L’energia liberata dalla sparizione di oggetti che costituivano dei moventi tende sempre ad andare più in basso. I sentimenti bassi (invidia, risentimento) sono energia degradata (…) Una persona amata che delude. Gli ho scritto. Impossibile che non mi risponda quel che ho detto a me stessa in nome suo. Gli uomini ci debbono quel che noi immaginiamo ci daranno. Rimettere loro questo debito. Accettare che essi siano diversi dalla nostra immaginazione (…) Anch’io sono altra da quella che m’immagino d’essere. Saperlo è il perdono».

«Non esercitare tutto il potere di cui si dispone, vuol dire sopportare il vuoto. Ciò è contrario a tutte le leggi della natura: solo la grazia può farlo. La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e quel vuoto, è essa a farlo».

Apparentemente, quindi, come mostrano i passi citati, l’immaginazione ci aiuta a consolarci del dubbio conoscitivo, del dilemma morale, della sofferenza. Ma nella realtà ci grava di illusioni, impedendoci di conoscere noi stessi e il mondo per come realmente sono. E di accettarlo.

Accettare è diverso, anzi opposto, a rassegnarsi. La rassegnazione lascia inevitabilmente una coda di risentimento, forse il sentimento in assoluto più profondamento nemico della grazia, e dunque della speranza. L’accettazione esclude invece qualunque risentimento, essendo una piena e totale assunzione di responsabilità del nostro limite, di quel che siamo e del nostro mondo, inclusi i dubbi, le contraddizioni, i dilemmi, i conflitti che lo attraversano, ovvero, tutto l’invincibile intreccio tra il bene e il male che appartiene costitutivamente a ogni cosa di questa nostra esistenza, intreccio sempre fortemente sentito e sottolineato da Simone Weil.

«L’attaccamento fabbrica illusioni; e chiunque vuole il reale dev’esser distaccato. (…) L’attaccamento non è altro che l’insufficienza nel sentimento della realtà. Si è legati al possesso di una cosa perché si crede che, se si cessa di possederla, quella non esista più. Molte persone non sentono con tutta la loro anima che c’è una totale differenza fra l’annientamento di una città e il loro esilio definitivo da quella medesima città (… ) Ogni dolore che non si distacca è un dolore perduto. Nulla di più orribile; deserto freddo, anima che si dissecca (…) Non pensare mai ad una cosa o ad un essere che si ama e che non si ha sotto gli occhi senza pensare che forse quella cosa è distrutta o quell’essere è morto. Far sì che un simile pensiero non dissolva il senso della realtà, ma lo renda più intenso».

È interessante notare, quindi, come il deficit epistemico sia premessa essenziale per il deficit morale: le illusioni dell’immaginazione, in quanto schermano la realtà, sono false consolazioni. L’unica vera consolazione può scendere su di noi in modo ineffabile, sorgendo dalla consapevolezza della nostra vulnerabilità irrimediabile: contingenza, malattia mortale, per riprendere il lessico di Søren Kierkegaard. Consapevolezza senza la quale non è possibile il distacco dall’io e dal mondo.

«Per raggiungere il distacco totale, non basta l’infelicità. È necessaria un’infelicità senza consolazione. Bisogna non avere consolazione. Nessuna consolazione rappresentabile. Scende allora la consolazione ineffabile».

«La vulnerabilità nelle cose preziose è bella perché la vulnerabilità è un segno di esistenza».

L’immaginazione, chiarisce pertanto Simone Weil, fabbricando illusioni, induce in noi attaccamento all’io che crediamo di essere e al suo mondo. Ma l’uno e l’altro non sono quel che sembrano se non contingentemente. Altrimenti nella nostra esistenza non vi sarebbero dubbio, dilemma, sofferenza, desiderio, anelito, amore. Noi non siamo realmente chi crediamo. E il mondo, di cui gli altri con il loro correlativo aspetto di mondo sono parte, non sono realmente ciò che sembrano, questo è il punto. È l’immaginazione a farcelo credere.

«Al presente, ci siamo legati. L’avvenire, lo fabbrichiamo nella nostra immaginazione. Solo il passato, quando non lo rifabbrichiamo, è realtà pura».

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Passiamo ora a una breve esposizione del ruolo che Gaston Bachelard, nella sua opera dedicata all’immaginario aereo, affida all’immaginazione.

Entrare nel merito complessivo della fenomenologia dell’immaginazione del matematico e filosofo francese sarebbe in questa sede impossibile. Per chi fosse interessato, Giovanni Piana nel libro La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell’immaginazione (Guerini e Associati, Milano, 1988), ne ha trattato in modo esteso e approfondito. Noi ci limiteremo a mostrare in che modo Bachelard, seguendo un filo conduttore molto lontano da quello di Simone Weil, diversamente da quest’ultima, anziché svalutarla sotto il profilo etico, arrivi esplicitamente a parlare di immaginazione morale, in particolare nel capitolo de L’Air et les songes dedicato al sogno guidato di Robert Desoille, una tecnica psichiatrica che, educando il paziente alla produzione di immagini ascensionali secondo un ordine definito, offre uno sbocco a determinati blocchi psichici, un destino felice a sentimenti altrimenti confusi e dolorosi.

Scrive Bachelard: «Sa volere, chi sa immaginare. All’immaginazione che illumina il volere si unisce una volontà d’immaginare, di vivere ciò che viene immaginato». Seguendo la linea verticale delle immagini di Desoille, ci abituiamo infatti a una sublimazione chiara, felice, agile, «a vantaggio di una vita cosciente che è in grado di perseverare nei propri atti e nei propri sentimenti, in quanto persevera nelle proprie immagini». Nella rêverie ascensionale guidata di Desoille, infatti, Bachelard ritrova un passaggio dell’energia onirica inconscia in energia morale cosciente analogo a quello che trasforma un calore confuso in movimento.

Niente di più lontano dalla svalutazione operata da Simone Weil.

Qui l’esercizio attivo dell’immaginazione è l’originario propellente dell’azione volta al bello, al buono, al giusto, più importante di ogni considerazione e volizione razionale. «I moralisti amano parlare di invenzione morale, come se la vita morale fosse opera dell’intelligenza! Si dovrebbe invece parlare della potenza primitiva, ovvero dell’immaginazione morale». È proprio l’immaginazione, infatti, per il filosofo, a «fornire la linea delle belle immagini lungo la quale si è sviluppato lo schema dinamico dell’eroismo. L’esempio è la causalità stessa in morale; e l’esempio fornito dalla natura è ancora più pregnante di quelli forniti dagli uomini. La causa esemplare diventa causa sostanziale quando l’essere umano immagina se stesso in sintonia con le forze del mondo. Chi tenterà di far coincidere la propria vita con la sua immaginazione sentirà crescere dentro un senso di nobiltà, quando immaginerà la sostanza che sale, quando vivrà l’elemento aereo nell’atto della sua ascensione» (corsivi nostri).

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Fermiamo qui i nostri compiti espositivi, per il momento, e proviamo a tirare un poco le fila di questa lettura parallela dei rapporti tra immaginazione e morale in questi Autori.

In prima approssimazione, ci troviamo di fronte a due posizioni inconciliabili.

Per Simone Weil, l’immaginazione fa schermo alla realtà, induce attaccamento, offre illusoria consolazione e dunque, riempiendo ogni vuoto in cui la consapevolezza della propria irrimediabile vulnerabilità possa espandersi, impedisce che la grazia scenda su di noi. Perdonarsi e perdonare diviene così impossibile. Accettare se stessi, il mondo, gli altri per quelli che sono, nel loro intreccio di bene e di male, anche. Così, si sprofonda nel risentimento, nella paura, nel desiderio di rivalsa, nell’odio. In Bachelard, invece, è proprio l’immaginazione la via per l’ascensione morale. Essa, infatti, domina la vita sentimentale, che soffre di una vera propria «fame d’immagini». La nostra vita emotiva, infatti, scrive il filosofo, è animata da complessi di immagini sentimentali: «si tratta di immagini normative, che mirano a una vita morale». C’è un tratto di pensiero, però, che i due Autori condividono. Per entrambi, l’immaginazione è estranea se non addirittura nemica della conoscenza, se per conoscenza s’intende un processo che metta capo a giudizi di carattere razionale su ciò che è davvero reale, buono, giusto. Per Simone Weil, infatti, l’immaginazione genera illusioni, serie di moventi fittizi per le persone, per i loro atti e gesti espressivi. Ma per Bachelard le cose non stanno molto diversamente. La rêverie ascensionale, che, placando i nostri affanni, ci dispone dapprima all’esercizio della nostra libertà, per poi elevarci nelle dimensioni aeree dell’azione eroica, nobile, iridescente, ha inizio soltanto quando il «pensiero attivo e utilitarista, il pensiero descrittivo», è a riposo. In entrambi, quindi, l’immaginazione si trova al di fuori delle attività razionali tramite le quali conosciamo e valutiamo il mondo. Nella sfera della vita sognata.

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Evidenziate nelle loro linee generali le opzioni in gioco, chiediamoci ora, in modo più puntuale: di quali tipi d’atti immaginativi parlano i due filosofi? Ne parlano nello stesso senso e secondo un senso che definiremmo proprio? È possibile che l’immaginazione, rispetto all’esperienza del reale, del bello e del bene, giochi ruoli diversi? E quali ragioni abbiamo, infine, per considerarla estranea o addirittura nemica della conoscenza razionale di ciò che è reale, bello, buono, giusto?

In effetti, rileggendo le pagine di Simone Weil, per esempio, non è poi così chiaro in che senso l’immaginazione possa produrre un io e un mondo illusori in forza dei quali, quasi cadessimo in uno stato allucinatorio od onirico, l’accesso alla realtà di noi stessi, degli altri, del mondo, ci sarebbe conoscitivamente e quindi anche moralmente preclusa. L’immaginazione non è forse la facoltà del come se? Non è forse implicito, quindi, nel suo stesso senso, che in essa sia sospesa qualsiasi posizione d’essere, qualsiasi pretesa di realtà? Quale criterio di verità potrebbe assisterci, nel giudizio d’illusorietà, mettendo a paragone un fantasma con qualcosa di reale? Il fantasma, è chiaro, dovrebbe dapprima darsi, fino a un certo punto, secondo le stesse modalità della cosa reale, salvo poi smentire le nostre aspettative in merito a un qualche decisivo aspetto implicito nel senso di un decorso esperienziale coerente e continuo della sua possibile realtà. Un po’ come quando ci s’imbatte, sciogliendo poi il dubbio che può insorgere, in un’illusione percettiva o in un miraggio; oppure, ci si accorge, al risveglio, che sì, stavamo solo sognando: nulla di quel che abbiamo vissuto esiste realmente. La stessa Weil, d’altronde, pare invitarci a un approfondimento fenomenologico in questo senso, laddove sottolinea – e non crediamo soltanto in senso metaforico – come l’immaginazione manchi della terza dimensione, di profondità, e come la conoscenza della realtà che sulla sua base può istituirsi sia illusoria anche nel senso di superficiale: incapace di superare un esame più attento, approfondito, distaccato.

Per dare uno sviluppo più analitico alle interessanti ma scarne considerazioni della filosofa sull’immaginazione e il suo rapporto con il conoscere e l’agire volto al bene, vorremmo rileggerla alla luce di un’opera nata in un contesto intellettuale e culturale molto diverso da La Pesanteur et la Grâce, e tuttavia al riguardo illuminante: ci riferiamo al fortunato Frammenti di un discorso amoroso (titolo originale: Fragments d’un discours amoureux) di Roland Barthes.

Leggendo certe pagine de La Pesanteur et la Grâce, in effetti, è difficile sfuggire alla sensazione che nel descrivere le dinamiche dell’attaccamento che può sprofondarci, complice l’immaginazione, nei dolorosi meandri della concupiscenza, ci si riferisca anzitutto ai tormenti della passione amorosa, ovvero, all’esperienza limite dell’innamoramento non ricambiato, non più ricambiato o non più così saldamente. All’angoscia d’amore, insomma: quella sorta di timor panico innescato e alimentato dall’ansia d’essere abbandonati definitivamente.

Quel che vorremmo mostrare, è che il lavorìo dell’immaginazione qui in gioco andrebbe piuttosto inteso come un lavorìo del pensiero discorsivo, di un linguaggio parossisticamente teso a dar conto di una realtà che il trauma dell’abbandono o del minacciato abbandono rende via via più insicura e ambigua nei suoi profili di senso. In un processo del genere, certamente, anche l’immaginazione interviene, ma in una funzione diremmo ancillare al pensiero, ovvero, semplicemente innescandolo e coadiuvandolo nel fabulare e ri-fabulare di continuo il teatro amoroso, sempre oscillanti tra la tendenza all’oblazione di sé e quella alla tirannia sull’altro.

Caratteristico di ogni amour passion, infatti, riguardi esso una persona, un ideale o altro, è l’incontenibile piena, non semplicemente dei sensi – peraltro coinvolti allo stremo – ma del senso. La piena ci investe insieme al nostro mondo, di cui l’oggetto d’amore, con i suoi gesti, è divenuto centro di pullulazione continua di moventi. E questi ultimi, nell’ansia dell’abbandono, si fanno sempre più polivalenti, contraddittori: quasi-ossessione, quasi-allucinazione.

Scrive ancora Barthes:

«L’episodio è trascurabile (esso è sempre trascurabile) ma attirerà tutto il mio linguaggio. Io lo trasformo subito in un avvenimento importante, pensato da qualcosa che assomiglia a un destino. È una cappa che mi cade addosso e che trascina con sé tutto. Innumerevoli e vaghe circostanze finiscono così col tessere il velo nero della Maya, la tappezzeria delle illusioni, dei significati, delle parole. Io mi metto a classificare quello che mi sta capitando. L’episodio formerà a questo punto un’increspatura, come il pisello sotto i venti materassi della principessa; come un’immagine diurna che entra poi a far parte del sogno, esso sarà l’imprenditore del discorso amoroso, il quale frutterà grazie al capitale dell’Immaginario».

«La potenza dell’Immaginario è immediata: io non cerco l’Immagine, essa mi viene da sola, all’improvviso. Solo dopo io ci ritorno sopra e solo dopo cerco di decifrare, interminabilmente, ora il segno favorevole, ora quello sfavorevole: ‘che vogliono dire queste quattro parole: No, avete tutta la mia stima’? Si può immaginare espressione più fredda? È forse un vero ritorno alla nostra vecchia intimità? O è soltanto il mezzo per tagliar corto a una spiegazione che le fa pena?” Come l’Octave di Stendhal, io non so mai che cosa è normale; privato (lo so) di qualsiasi ragione, per decidere come devo interpretare un segno io mi affido al senso comune; ma il senso comune mi fornisce solo evidenze contraddittorie».

«Una forza precisa trascina il mio linguaggio verso il male che io posso fare a me stesso: il regime del mio linguaggio è la ruota libera: il linguaggio si morula, senza nessuna idea tattica della realtà. Io cerco di farmi del male, mi espello da solo dal mio paradiso, affannandomi di suscitare in me stesso le immagini (di gelosia, di abbandono, di umiliazione) che possono ferirmi; e quando la ferita è aperta, cerchi di mantenerla tale, la alimento con altre immagini, fino a che un’altra ferita non venga a distogliermi da quella».

La piena del desiderio, quindi, è piena del significato, che perduta ogni sicura presa, si fa reiterata e compulsiva applicazione del principio di ragion sufficiente (perché?!), in un orizzonte di senso continuamente cangiante nel quale tutto appare saliente e dunque nulla permane tale; inoltre: ridondanza parossistica del linguaggio, risonanza estenuante del segno, trionfo di un’espressività enflata, il cui fine diviene null’altro che dichiararsi per ottenere dichiarazioni, all’infinito. Il giovane Werther di Johann Wolfgang Goethe è il suo eroe: «Werther non è pervertito, ma innamorato: egli dà un senso, sempre, ovunque, a proposito di niente, ed è proprio il senso che lo fa fremere: egli si trova nel braciere del senso» (corsivi nostri).

«Nel languore amoroso, qualcosa se ne va senza fine; è come se il desiderio non fosse nient’altro che questa emorragia. La fatica amorosa è questo: una fame che non viene saziata, un amore che rimane aperto».

A fronte dell’angoscia ingenerata da questa condizione estenuante di inesausta ansia d’appagamento del desiderio, Simone Weil avanza la necessità del distacco, preludio all’accettazione di quel vuoto che solo la grazia può, nello stesso tempo, creare e colmare.

Il suo itinerario, però, non è nuovo. Appare simile a quello che altri mistici hanno intrapreso in vista dell’amore spirituale, del puro dono di sé; e Barthes mostra di non ignorarlo. L’esperienza dell’innamoramento frustrato, così prossima all’angoscia di fronte alla possibilità di un annientamento totale – alla morte stessa – ricorda infatti la loquela di Ignazio da Loyola, dove «i segni girano a ruota libera». Mentre Juan de la Cruz è evocato riprendendo la contrapposizione tra estas en tinieblas (essere nelle tenebre) ed estas a oscuras (essere nell’oscurità).

«Nella loquela niente viene a impedire il rimuginamento. Nell’istante in cui, casualmente, prende corpo in me una “riuscita” (nella quale io credo di scoprire l’esatta espressione di una verità), questa frase diventa una formula che io ripeto in proporzione del grado di acquietamento che essa mi dà (trovare la parola giusta rende euforici); io la rimastico, me ne nutro; come i bambini o i dementi affetti da mericismo, io inghiottisco e rigurgito continuamente la mia ferita d’amore. Io avvolgo, dipano, tramo il dossier amoroso e poi ricomincio da capo (…) Mi scelgo una parte: io sono quello che piange; recito questa parte davanti a me stesso, ed essa mi fa piangere: io sono il teatro di me stesso. E vedendomi piangere così, io piango ancora di più; e se i pianti diminuiscono, subito mi ripeto la parola sferzante che li scatena nuovamente». (corsivi nostri)

«Il più delle volte, mi trovo ad essere nell’oscurità del mio stesso desiderio; io non so che cosa vuole, lo stesso bene risulta essere per me un male, tutto si ripercuote, io vivo a sussulti: estoy en tinieblas. Ma altre volte si tratta di una notte diversa: solo, in posizione meditativa (…), penso all’altro con calma, lo guardo così com’è; tralascio ogni interpretazione; entro nella notte del non-senso; il desiderio continua a vibrare (l’oscurità è transluminosa), ma io non voglio cogliere niente; è la Notte del non-profitto, del dispendio sottile, invisibile: estoy a oscuras: io sono lì seduto semplicemente e tranquillamente nell’interno nero dell’amore». (corsivi nostri)

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La rilettura delle pagine de La Pesanteur et la Grâce attraverso Roland Barthes, ci permette di trarre qualche prima conclusione. Innanzitutto, scopriamo che laddove la filosofa svaluta l’immaginazione come facoltà che, alimentando l’attaccamento, scherma la nostra conoscenza della realtà impedendoci la consapevolezza che ci eleverebbe a più alti valori morali, è piuttosto del nostro pensiero discorsivo che procede a ruota libera che pare preoccuparsi. Il venir meno, nell’angoscia d’amore, degli usuali accenti valoriali che offrono al nostro pensiero uno sfondo coerente e stabile di significati, preclude al nostro interrogare ogni fermo ancoraggio, consegnandoci a un vissuto – più che immaginativo, virtuale – che si ostina in una pretesa di realtà al contempo continuamente smentita dal carattere cangiante e incoerente del suo decorso.

L’immaginazione, invece, e specialmente l’immaginazione aerea ben educata, di cui parla Bachelard, sembrerebbe svolgere un ruolo essenziale proprio per raggiungere quel distacco che la filosofa ritiene preliminare e indispensabile per accogliere la grazia. Un’anima afflitta, piegata, non ha tanto bisogno di interpretazioni, raccomandazioni, consigli, imperativi. Essa ha prima di tutto bisogno di immagini: immagini anonime che guariscano dal tumulto di ricordi e proiezioni personali che gravano sul presente e sul futuro. Per liberarsi delle proprie preoccupazioni, essa deve pertanto cominciare con lo spazzarle via. «Sono preoccupazioni oppure scrupoli? In ciascuno dei due casi non spazzerete nello stesso modo. Nel muovervi dall’uno all’altro, percepite in atto una dialettica della minuziosità e della decisione. Non sono forse le rose di un amore appassito che rendono fiacca l’anima? Agite allora con un gesto lento, prendete coscienza di un sogno concluso. Come si conclude bene, la malinconia che si esaurisce! Come passa bene, il passato! Presto, concluso il compito, con l’anima raccolta, tranquilla, un po’ serena, un po’ vuota, un po’ libera, tornerete a respirare!». (corsivi nostri)

Soltanto ora che lo spirito è stato un po’ preparato alla libertà, che s’è un po’ scaricato dalle sue cure terrene, può finalmente iniziare l’esercizio dell’ascensione immaginaria. E Bachelard, sulla scorta di Desoille, riporta un’intera gamma di immagini proposte al sognatore sveglio, a seconda del suo stato psichico: dolci pendii da percorrere, alberi, uccelli, vette, nevai, nuvole, il ritmico e calmo incedere del cammino che sale, un piede indietro a sprofondare nel passato, l’altro in avanti proteso verso il futuro, il battere e il levare del respiro; infine, per limitarci alla sfera sensoriale della vista, gamme di azzurri, di rosa, di oro, e la luce, la luce sopra ogni cosa.

La gioia, infatti, è un’emozione che assume una precisa curvatura etica quando a suscitarla sono immagini aeree. Scrive Bachelard: «La gioia terrestre è ricchezza e pesantezza, la gioia acquatica è mollezza e riposo, la gioia ignea è amore e desiderio, la gioia aerea è libertà». Certo: la valenza morale che immagini siffatte hanno il potere d’imprimere alla nostra vita emotiva, non rappresenta ancora uno vincolo per la soggettività nel senso di un dover essere (sollen) della ragion pratica, il quale non può se non procedere da un giudizio giustificabile ostensivamente o argomentativamente. E tuttavia: ogni agire mossi da una libera necessità interiore le include nel suo stesso senso. L’estetica (fenomenologica) degli atti morali, quindi, lungi dall’essere un ambito marginale d’interesse dell’etica, ne offre il terreno originario di innesto, il preliminare campo di descrizione. «La nostra tesi fa di questa estetizzazione una necessità profonda, una necessità immediata. In questo caso l’immaginazione promuove l’essere. L’immaginazione più efficace, quella morale, non si separa dalla novazione delle sue immagini fondamentali».

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Non si pensi, tuttavia, che abbandonandosi semplicemente alle nostre possibili rêverie aeree si trovi il solido criterio dell’agire per il bene o anche solo la forma visibile che esso dovrebbe necessariamente assumere. Da quanto abbiamo scritto, dovrebbe essere risultato chiaro come nel percorso che, lungo la curvatura etica che l’immaginazione può imprimere alle nostre emozioni, può portarci fino al giudizio di valore etico vero e proprio, lo spettro delle opzioni che su un comune sostrato immaginativo ogni soggettività concreta può giocare è ampio. E Bachelard ne fornisce la prova mettendo a confonto, in modo particolare, l’ascensionismo morale di William Blake con quello di Percy Bysshe Shelley e infine di Friederich Nietzsche.

Tre modi, potremmo dire, attraverso cui prende figura la nostra libertà.

Leggendo Blake, scrive Bachelard, «ci si rende presto conto che egli è l’eroe della lotta fra terrestre e aereo. Più esattamente è l’eroe del distacco, l’essere che alza la testa al di sopra della materia, l’essere estraneo che riunisce due dinamiche: uscire dalla terra e lanciarsi verso il cielo». In Blake l’ascensione coincide infatti sempre con un tormentato sforzo per liberarsi dalla prigionìa di una natura originariamente terrestre. Sono le immagini, evocate dal poeta, del verme che si fa serpente, pesce, uccello e infine bambino, a testimoniarlo. Esse sono indici valoriali di conquiste aeree lente, tardive, dolorose, metamorfiche, per certi versi mai del tutto compiute e dunque permanentemente cariche di tensione, energia, sofferto e ispirato presagio di un’ascesa in atto. «Da questo universo storto, da questo pensiero contorto (…) scaturisce il principio aereo che rappresenta l’Emanazione blakiana: emanazione che permane dolorosa. Diventa libera e diritta pur conservando il sapore primitivo del raddrizzamento».

Del tutto diverso è il volo incorporeo veicolato dalle immagini di Shelley, in particolare nei versi dedicati dal poeta inglese all’allodola, il cui arco invisibile e il cui canto remoto, provenienti dalle profondità sideree e luminescenti dei cieli più lontani e azzurri, sono oggetto dell’interesse di Bachelard. «Nessun poeta ha saputo meglio di Shelley cantare, nel suo aspetto di onda di gioia, la sorprendente invisibilità dell’allodola nella poesia To a skylark. Egli ne ha colto la gioia cosmica, una gioia “incorporea”, una gioia che si rinnova continuamente nella sua rivelazione (…) Come una nuvola di fuoco, essa mette le ali alla profondità azzurra. Per l’allodola shelleyiana il canto è un’occasione e l’occasione è canto (…) una freccia appuntita che corre attraverso la sfera d’argento». Qui l’ascensione morale assume i contorni di una dolce e lenta aspirazione, che si lascia trasportare dal cielo infinito, senza sforzo, senza fatica, dove nelle sfere celesti ritrova le gioie della cullata, in una verticalità che perde il senso di sé, il senso dell’abisso sottostante, la memoria della terra e insieme la paura del volo radente e della possibile caduta. Non c’è qui rabbiosa ribellione ai fardelli che possono gravare sulle nostre spalle. Protagonista – infatti – non è la resiliente volontà blakiana, liberatrice, prometeica, che redime forzando catene, retaggi, memoria, bensì l’ebbrezza incontenibile del desiderio. Aggiungiamo un piccolo appunto nostro alle considerazioni di Bachelard. Psiche, nella famosa favola contenuta nelle Metamorfosi di Apuleio, costretta a salire in cima alla rupe dove, per invidia delle sorellastre, la sua vita avrebbe dovuto aver termine, è sollevata da Zefiro e trasportata giù per il profondo e vuoto declivio in un volo che a noi pare per l’appunto molto shelleyiano. Si tratta di un’ascensione verso il basso privata di qualunque sentimento di paura dell’abisso, e che la consegnerà proprio alle braccia di Eros, il suo misterioso innamorato.

Diversamente da Blake, ma addirittura opposto a Shelley, è infine il senso dell’ascensione morale rinvenuto da Bachelard in Nietzsche, in particolare nell’opera poetica, ma anche nello Zarathustra, dove in effetti il filosofo si personifica nel funambolo, che danza sul filo teso tra la bestia e il superuomo. Nietzsche, a tutti coloro che vogliono la vita aerea, dice Bachelard, semplicemente impedisce la fuga. «Non fuggite davanti a voi stessi/voi che salite?». Nell’altezza, il filosofo tedesco trova infatti un’atmosfera chiara, trasparente, vigorosa, elettrica, un’atmosfera virile. «Invece della luce shelleyiana, che bagna e penetra con la sua dolce sostanza in un’anima limpida, la luce nietzschiana è una freccia, una spada. Provoca una ferita fredda». Qui l’azione si riduce al suo fiat, a un colpo di fulmine che fende l’aria e la squarcia senza riscaldarla e dunque senza lasciare spazio ad alcuna consolazione, tiepidezza, compromesso. Il risentimento è il bersaglio, il grande nemico dell’ascensionismo di Nietzsche. E siccome il risentimento è una materia che si accumula, una pesantezza che cresce senza posa, esso si spazza via con un gesto d’ira gioiosa e divina, il quale, come il famoso colpo di remo sulle capricciose acque delle nostre esitazioni, le più insidiose delle quali sono agitate dalla compassione, rompe con gli indugi e apre finalmente un corso nuovo per troppo tempo atteso.

«Getta il tuo peso nel profondo
Uomo! Dimentica! Uomo dimentica!
Divina è l’arte del dimenticare!
Se vuoi volare,
Se vuoi essere di casa nelle altezze,
getta in mare ciò che in te è più pesante!
Ecco il mare! Gettati nel mare!
Divina è l’arte di dimenticare!».

Commenta Bachelard:

«Non si tratta qui, come per lo psichismo marino, di tuffarsi nel mare per trovarvi una rigenerazione attraverso le acque. Si tratta, invece, di buttare lontano da noi tutti i nostri pesi, tutti i nostri rimpianti, tutti i nostri rancori, tutto ciò che dentro di noi guarda al passato; si tratta di buttare a mare il nostro intero essere pesante affinché sparisca per sempre. Annienteremo in questo modo il nostro alter ego pesante, quello che dentro di noi è terra, che dentro di noi è un passato intimo nascosto. Solo allora il nostro alter ego risplenderà. Ci innalzeremo liberi come l’aria, liberi dal mistero dei nostri stessi misteri. All’improvviso saremo sinceri con noi stessi».

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A conclusione di questa lettura incrociata di Simone Weil e Gaston Bachelard, vorremmo svolgere due ultime considerazioni, con lo scopo di sottolineare il rilievo che l’analisi fenomenologica delle strutture dell’immaginazione dovrebbe a nostro avviso avere in ogni preliminare studio sui fondamenti dell’etica. La prima riguarda il rapporto tra etica, immaginazione e ragione, intesa come facoltà del giudizio. La seconda, il rapporto tra etica, immaginazione e sfera degli atti emotivi, ovvero il problema se l’immaginazione partecipi o meno alla costituzione del sostrato dei nostri giudizi di valore etico, oltreché estetico, in modo autonomo rispetto al sentire.

In rapporto alla prima domanda, non è qui in questione qualcosa come una ragion pratica. La conoscenza che valuta, oltre che del bello, del bene, del buono e del giusto, ha senz’altro vincoli razionali di validità, anzitutto d’ordine formale, grazie ai quali possiamo concludere, per esempio, che se A è un bene e B è un bene, allora anche A+B è un bene e il suo valore è > tanto di A quanto di B singolarmente presi. Quali atti, però, chiediamoci, entrano nella costituzione del sostrato sul quale concretamente s’esercita il nostro giudizio pratico? Riteniamo che la lettura dei nostri filosofi ci suggerisca, magari per contrasto, qualche cosa al riguardo.

Simone Weil, come abbiamo visto, esclude che l’immaginazione possa svolgere alcun ruolo, se non negativo, nel volgerci ai più alti valori. Neppure sull’attività del giudizio di per sé sola, tuttavia, la filosofa sembra far particolarmente conto, benché sottolinei come la ragione discorsiva – ovvero l’antica ragione dialettica di matrice platonica – possa aiutarci a renderci più consapevoli dell’intreccio di bene e di male di cui sono necessariamente intessute le nostre esistenze. D’altronde, come abbiamo mostrato, quel che ella chiama immaginazione, a una più attenta analisi, si rivela piuttosto una ragione sentimentalmente enflata dalle dinamiche di spossessamento e reimpossessamento dell’oggetto d’amore, il cui interrogare gira parossisticamente e reiteratamente a vuoto. E in effetti, Simone Weil, a fronte di tale impasse, richiama proprio la necessità etica di giungere a un più profondo sentimento della realtà, che è quel che in effetti ella davvero intende quando parla di conoscenza non illusoria di essa.

In Bachelard, diversamente, la sfera dell’immaginazione morale ricopre una regione autonoma dagli atti del sentire non meno che dagli atti del conoscere, pur trovandosi a entrambi in vari modi intrecciata. L’orizzonte dei nostri giudizi di valore etico, per il filosofo, prima che un qualunque criterio razionale di valutazione intervenga, pare infatti essere costituito proprio da immagini. E queste ultime, lungi dall’essere illusori travestimenti della realtà, ne rappresentano l’incessante pulsazione onirica, la sempre implicita e dai poeti evocata e tenuta viva rêverie, senza la quale nessuna ascesa al bene potrebbe essere desiderabile o pensabile.

Anche noi siamo propensi a pensarla così.

Qualcosa, però, ancora non ci convince del tutto della ricca fenomenologia aerea di Bachelard. Fatta salva l’autonomia dell’immaginario che ispira l’azione morale, in che senso esso andrebbe – come il filosofo richiede – radicalmente contrapposto alla nostra conoscenza oggettiva del mondo? Non è forse il mondo reale in cui ogni giorno viviamo, a pullulare delle immagini che possono suggerirci e invitarci, secondo una pluralità di figurazioni, all’azione morale, all’azione libera e motivata da necessità interiormente sentite? E non lo è anche in forza di dinamiche percettive incluse nel senso stesso – conoscitivamente esplicitabile – della sua realtà? I prati del sole, in definitiva, restano pur sempre prati, anche se è per aerei ponti di cielo che le nostre anime, finalmente sollevate dopo le faticose risalite delle loro vite ormai trascorse, vi approdano. Non v’è dubbio: i monti della nostra vita sognata non sono semplicemente i monti reali che risaliamo con i nostri scarponcini ben allacciati ai piedi. Ma neppure monti di un’altra vita, confinata nell’universo intimo e solitario di una mitica rêverie puramente soggettiva.

Questo articolo ha offerto la base dell’intervento che l’autore ha fatto l’8 maggio 2012 al Seminario di Fenomenologia della cattedra di Filosofia (Teoretica) della Persona dell’Università Vita-Salute San Raffaele, di cui è scaricabile una traccia con nuove analisi.

Una vita sognata. Spunti per un’etica della verticalità (parte terza). Attorno all’immaginazione nel pensiero di Simone Weil e Gaston Bachelard conclude una serie di post, pubblicati nei mesi scorsi sul Phenomenology Lab, dedicati all’etica della verticalità.

Sulla bellezza dell’agire per il bene. Spunti per un’etica della verticalità (parte prima)

La bellezza di Prometeo. Spunti per un’etica della verticalità (parte seconda)

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4 commenti a Una vita sognata. Spunti per un’etica della verticalità (parte terza). Attorno all’immaginazione nel pensiero di Simone Weil e Gaston Bachelard

  1. Corrada Cardini
    martedì, 3 Aprile, 2012 at 14:57

    Molti spunti di riflessione e analisi si ricavano dai post di Stefano… e decisamente, a mio avviso, il Bachelard ci apre un orizzonte che la Weil tende a chiudere e rendere fossile. Al di là del fatto che il linguaggio della Weil risulta a mio avviso, come dire, un po’ trasandato, in quanto mescola idee e concetti religiosi e filosofici con eccessiva disinvoltura, la visione di Bechelard ha il merito di cogliere un aspetto del processo epistemologico e della nascita del giudizio che troppo a lungo è stato relegato nel mondo degli artisti, dei mistici, dei visionari, quello dell’ immaginazione come capacità di dare forma visiva alle istanze etiche e conoscitive degli uomini… come modalità decisiva dell’intelligenza del dato reale e di quello potenziale, in quanto possibilità del reale. In fondo, sono convinta, l’etica fonda se stessa sulla tensione verso il bene comune, strettamente inerente al principio dell’armonia e della piacevolezza del vivere e del convivere che è presente come personale e collettiva visione di ciò che è il meglio per la comunità e la specie cui si appartiene… e oltre. Nello spazio vuoto, nella percezione della mancanza, nella frustrazione della insoddisfazione sta racchiusa ogni possibilità che si apre, stanno l’inizio della libertà creativa, l’origine di nuove e più adeguate risposte, la sperimentazione di nuove forme di espressione di noi stessi, di equilibrio fra noi e il mondo.

    PS…mi si perdoni quella che può sembrare l’arroganza dell’inesperto.. ma mi limito a esprimere le sensazioni, a dare forma scritta alle immagini e ai pensieri che le parole lette mi ispirano…

  2. martedì, 3 Aprile, 2012 at 16:12

    In attesa di elaborare i pensieri che a una prima troppo rapida lettura il bel saggio di Stefano suscita in me – e questi giorni sono affannosi (dato l’impegno a dare il proprio piccolo contributo a uscire se mai sarà possibile dal fango senza fine in cui l’opacità dei responsabili e la cattive frequentazioni hanno gettato ANCHE l’Università San Raffaele) posso fare una prima osservazione? La foto – splendida – di Corrada, ma in questo caso anche il suo soggetto, sono due esempi di ciò che in S. Weil è il “divino”. Nè più né meno. Bellezza, giustizia e verità sono altrettanti nomi del divino, nel senso che hanno la stessa inesauribilità rispetto a ogni tentativo di definizione concettuale, e lo stesso status di valori intrinseci, vale a dire modi del bene. C’è un senso in cui l’equiparazione di tutti i valori intrinseci alla sfera del divino sdrammatizza la stessa nozione di divino, rendendocene a portata di mano il contenuto. Anzi, per la foto di Corrada, a portata di sguardo.

  3. Andrea Zhok
    mercoledì, 4 Aprile, 2012 at 14:25

    Le pagine di Stefano presentano un problema di lettura non trascurabile: sono scritte troppo bene sul piano letterario per non tendere a nascondere le asperità teoriche che vi si annidano. Una lettura superficiale potrebbe vederle come un elegante e suggestivo gioco comparativo tra autori così radicalmente difformi da consentire decorsi argomentativi fin troppo liberi. In effetti cos’hanno in comune Simone Weil, Gaston Bachelard e Roland Barthes? Il passaporto francese? Siamo certi che quando parlano di immaginazione o fantasia parlino della stessa cosa?

    Se ho inteso bene, questa è però solo una (involontaria) trappola esegetica. In verità credo che ci sia un sottotesto fondamentale e perlopiù latente in queste pagine di Stefano, un sottotesto che si può evincere in modo complementare attraverso le pagine del suo dialogo Sulla Vita. Ciò che mi sembra qui si suggerisca è una visione dove la divaricazione accademica tra etica ed ontologia viene non colmata ma dissolta, attraverso una considerazione delle idealità etiche come già sempre primariamente intuibili sul piano delle esperienze primarie. La ‘verticalità’, l’immaginario dell’alto versus basso, è qualcosa di affine ad un’affordance gibsoniana, ma spogliata fenomenologicamente di tutti i residui naturalistici e psicologistici: è un’intuizione sensibile, ma non nel senso di un mero dato impressionale, come morta materia della cognizione, bensì come qualcosa di intrinsecamente dotato di senso, un apriori materiale motivante e solo perciò anche cognitivamente efficace. Noi non abbiamo bisogno di essere introdotti culturalmente al senso dell’immaginario della verticalità e dell’altezza, ma esso è operante in noi ben prima che spiegazioni culturali in senso proprio possano essere accolte. L’immaginazione non è antitetica alla realtà (versus Weil), né è trascendente la realtà (versus Bachelard): essa è la vita nella realtà, così come essa primariamente ci si manifesta. L’immaginazione così intesa è ‘metafora viva’ ed ‘immaginazione produttiva’ al tempo stesso, segnalando una dimensione originaria di senso.

    Questa visione, che, se l’ho intesa correttamente (Stefano mi smentirà altrimenti) mi trova profondamente in accordo, tuttavia cela a mio avviso un problema. Non si tratta di un errore, ma piuttosto di un non detto che può far sorgere dubbi paralizzanti ed interpretazioni altamente problematiche.
    Se ammettiamo che il senso intuitivamente disponibile già all’interno delle nostre pratiche sensibili primordiali abbia un carattere assiologico, possiamo trarne spunto per una sorta di riconduzione dell’etica all’estetica? O per un’abolizione della rilevanza di tale separazione?
    Se sì, com’è allora possibile che l’intuizione assiologica primaria non ci consegni un orientamento assiologico di per sé capace di guidarci nell’azione?
    Se no, cosa subentra (geneticamente?) ad autonomizzare le due sfere? Ovvero: cosa c’è di più nelle pretese dell’etica che non sia già disponibile nelle intuizioni primarie di senso? E perché c’è bisogno di tale di più?

  4. Stefano Cardini
    giovedì, 5 Aprile, 2012 at 15:59

    Andrea ha letto bene sia in superficie sia in profondità quanto ho scritto. E in effetti, ho cercato (forse non abbastanza) di smarcarmi subito da ogni stringente responsabilità esegetica sugli Autori, laddove, nell’abstract, scrivevo di volerne soltanto ripercorrere alcune pagine in modo molto libero. È un approccio che si può discutere. E tuttavia se la fenomenologia crede che vero e unico vincolo al discorso ben fondato siano in definitiva le cose stesse, il rischio va un po’ corso. I tre Autori, quindi, dal mio punto di vista, in comune hanno una sola cosa, ma essenziale. In questi scritti gettano luce, certo secondo stili e interessi diversi, e in alcuni casi commettendo errori interessanti, sulla relazione tra alcune almeno delle nostre tipologie di atti immaginativi e le nostre istanze morali. Approfondendo in quale senso ciascuno, a mio parere, l’ha fatto, ho cercato di esplorare diverse possibilità di svolgimento del tema, mostrando anche dove per me il discorso regge di più alla prova delle cose, ovvero, della descrizione fenomenologica tout court. Venendo al merito teoretico, ritrovo perfettamente i fenomeni di cui parlo in queste frasi di Andrea: «La ‘verticalità‘, l’immaginario dell’alto versus basso, è qualcosa di affine ad un’affordance gibsoniana, ma spogliata fenomenologicamente di tutti i residui naturalistici e psicologistici: è un’intuizione sensibile, ma non nel senso di un mero dato impressionale, come morta materia della cognizione, bensì come qualcosa di intrinsecamente dotato di senso, un apriori materiale motivante e solo perciò anche cognitivamente efficace (…) L’immaginazione non è antitetica alla realtà (versus Weil), né è trascendente la realtà (versus Bachelard): essa è la vita nella realtà, così come essa primariamente ci si manifesta. L’immaginazione così intesa è ‘metafora viva’ ed ‘immaginazione produttiva’ al tempo stesso, segnalando una dimensione originaria di senso». Non avrei saputo dir meglio. Sarei più cauto, invece, sul senso di questa affermazione: «Noi non abbiamo bisogno di essere introdotti culturalmente al senso dell’immaginario della verticalità e dell’altezza, ma esso è operante in noi ben prima che spiegazioni culturali in senso proprio possano essere accolte». In un certo senso, senza dubbio, questa frase discende dalle precedenti. Con Bachelard, però, ho cercato anche di mettere in evidenza il gioco sottile e intricato che, su un comune sostrato di valorizzazione immaginativa, la soggettività storica concreta (gli individui Blake, Shelley, Nietzsche, per intenderci), possono svolgere. Non è facile distinguere, in effetti, il punto d’innesto di questa genesi, che implica sempre in qualche modo una presa di posizione interpretativa. Anche perché è caratteristico delle affordance immaginative, in particolare, suggerire valorizzazioni non solo polivalenti ma talvolta opposte. Inoltre, in questa genesi, anche il linguaggio conta, eccome, ed è certo un pilastro della dimensione storico-culturale dell’esperienza estetica ed etica. E tuttavia, io resto convinto che, alla base, non tutto si risolva in esso, tutt’altro. Mi rendo conto, però, che la questione meriterebbe di entrare maggiormente nel dettaglio delle esemplificazioni per essere intesa con sufficiente evidenza. L’idea di curvatura etica, per esempio delle nostre emozioni di gioia, come anche il richiamo da me compiuto alle figurazioni possibili (al plurale, quindi) per un’azione libera in quanto interiormente necessitata, volevano andare proprio nella direzione di mostrare in che modo un comune sostrato immaginativo originario, può essere orientato da prese di posizione storiche concrete lungo crinali etici differenti. Modi diversi d’intendere la nostra libertà, e insieme, il nostro senso di responsabilità verso noi stessi e verso gli altri, le forme della sua esplicazione nella azione concreta: stili etici differenti cui ispiriamo prevalentemente la nostra condotta. Bachelard sottolinea come l’immaginazione possa essere educata, soggetta cioè a una ben concreta e storica Bildung. La nostra condotta, quindi, quand’anche vissuta come libera e interiormente necessitata, può in effetti variare parecchio a seconda che la nostra immaginazione sia stata (prevalentemente) educata attraverso immagini ascensionali di un genere o di un’altro. Il fulmine di Nietzsche che ambisce a spazzare via d’un sol colpo, con un istantaneo e resoluto fiat, gli scrupoli della nostra coscienza compassionevole, non equivale alla lenta, tormentata e dolorosa emancipazione mistica dai ceppi delle illusorie certezze, forze e ricchezze terrene di Blake, che s’aspetta e ricerca una tenace e dolorosa metamorfosi cui assegna indiretto valore. Il percorso resta acensionale, certo, in forza della comune radice antepredicativa. Ma è interpretato a partire da orientamenti etici diversi, basati pertanto su orientamenti immaginativi diversi, benché di una medesima famiglia. Lungo questa traiettoria, che nel tempo si condensa ed eventualmente stratifica e cristallizza in figurazioni esemplari, mitiche e/o storiche, appartenenti ai diversi ordini di una tradizione (Prometeo, Epimeteo, l’allodola di Shelley, il funambolo di Nietzsche, ma anche, su un raggio della comunità più ristretto, il nonno, l’amico, il maestro …), affinché dalla sfera estetica, o meglio proto-estetica e insieme proto-etica, si entri in quella propriamente etica, del theorein etico, io credo debba subentrare la funzione giudicante: ostensiva, e dunque di nuovo prossima alla dimensione proto-estetica e proto-etica attraverso l’esibizione di esemplarità, ma anche argomentativa, funzione che non può basarsi solamente sugli atti d’ostensione del valore, perché attinge anche alla concatenazione delle ragioni e al calcolo delle possibili/probabili/imponderabili conseguenze della nostra azione. Naturalmente, arrivati qui, l’immaginazione può nuovamente far presa sull’oggetto delle nostre decisioni razionalmente assunte, anche a partire dalle conseguenze in concreto seguite. Ma il susseguirsi e intrecciarsi dei momenti estetico ed etico dell’agire, non deve oscurare la differenza tra questi piani né l’ordine della loro genesi possibile. L’etica risponde alla domanda su che cosa sia meglio fare, e ambisce a divenire norma generale e poi universale, tra i modi del bene, prioritariamente dell’agire buono e giusto in confomità a uno scopo, giustificabile ostensivamente, argomentativamente e, sotto certi vincoli, retoricamente (perché anche la persuasività e dunque la condivisibilità dei nostri migliori propositi ha un valore etico, benché derivato). Tutto questo non è già, fin dall’inizio, rinvenibile nelle nostre immagini verticali. Ma i miei, mi rendo conto, sono solo appunti disordinati.

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