Il bisogno di trasparenza. Riflessioni sull’Università San Raffaele, nel 10° anniversario della Facoltà di Filosofia, a un anno dalla crisi della Fondazione

lunedì, 27 Agosto, 2012
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Questa riflessione nasce indubbiamente da un’esigenza personale di chiarezza, che chiunque lavori nel complesso del San Raffaele immagino abbia sentito, dai giorni seguiti al suicidio di Mario Cal fino ad oggi. Ma è anche la riflessione di una docente di filosofia, che proprio professionalmente non può evitare di interrogarsi sul senso del suo insegnamento e sulla coerenza fra questo e la sua vita. E dunque è una riflessione che ha interlocutori ideali, anzi ideali destinatari primi: gli studenti. Non necessariamente o non solo i suoi. Ma in qualche modo gli studenti reali e virtuali, forse futuri, di questo ateneo. Potrà ancora avere un senso, e quale, decidere di affidare la propria formazione umana e professionale, negli anni decisivi della propria vita, alla nostra università? La Facoltà di Filosofia presenta al pubblico, in questa ripresa di settembre, in occasione del suo decimo compleanno, una somma di attività, risultati, pubblicazioni, iniziative di ricerca e didattica che dovrebbe rendere orgoglioso di appartenervi qualunque studioso, non solo in Italia. In questo non dissimile dalla fama di eccellenza di cui da sempre godono le altre Facoltà, in particolare Medicina.

L’Università del resto non è stata neppur sfiorata dal ciclone giudiziario che ha travolto l’ospedale, e ne ha visto infine mutare la proprietà. La sua amministrazione è indipendente e libera da ogni ombra, per quello che ne sappiamo. Ma senza dubbio bisognerà presto arrivare a una definizione dei suoi rapporti con la nuova proprietà dell’ospedale; e comunque il grande pubblico, “di fuori”, fatica a distinguere, e al nome San Raffaele associa ancora un solo complesso – come era logico fare ai tempi di don Verzé, che era insieme presidente della Fondazione e rettore dell’Università.

È possibile, allora, rinviare ancora il taglio della continuità col passato – con quella parte del passato in cui l’Università non si riconosce – e in primo luogo attraverso la nomina di un rettore che non lasci alcun dubbio, per prestigio scientifico e culturale e per altezza di profilo etico e deontologico, su questo taglio netto? Sembra evidente che no: ma allora il compito che incombe su ciascuno di noi è contribuire intanto, ciascuno a partire dalla sua esperienza, a una condizione imprescindibile di rinnovamento: la conoscenza di ciò che il San Raffaele è stato, ombre e luci – e quindi di ciò che non deve più essere.

È impossibile, almeno per chi scrive, provarci senza lasciarsi prima attraversare fino in fondo dall’interrogativo che i giornali gridavano l’estate scorsa, come oggi gridano su fatti di ben altra gravità e portata, che riguardano il passato nazionale e le connivenze del nostro Stato. In fondo la domanda è sempre la stessa: come ha potuto un’intera comunità distogliere gli occhi e dismettere l’esercizio dell’opposizione e della critica, di fronte agli abusi di un potere che, svincolato dai controlli senza i quali sempre il potere degenera, sempre finiscono per fare la rovina di imprese potenzialmente grandi e generose? Il complesso San Raffaele è in questo senso parte di una storia italiana che Norberto Bobbio ha definito “tragica”. Dove tragico è precisamente l’intreccio di bene e di male che ritroviamo in modo particolarmente acuto lungo la nostra storia. Il tragico è nel non rendersi conto che il vero male sta proprio nell’intreccio del bene e del male, e soprattutto che esso passa per ciascun individuo. Ciascuno è un potenziale nodo di questo intreccio, anche soltanto con la sua indifferenza, con la sua passiva delega a chi sa e può. Lo è nel ritenere il male la necessaria “ombra” del bene. Nel sottovalutare il fatto che ogni vera coscienza etica nasce come sforzo di dirimere, e poi liberare l’uno dall’altro, il bene e il male, senza concessioni neppur minime all’idea che il fine giustifica i mezzi, e per quanto possa essere doloroso il taglio.

Oggi – in questi giorni, sulla stampa quotidiana e negli altri media – si ribadisce senza sosta che nessun rinnovamento – al livello della comunità nazionale, della repubblica e dello Stato – è possibile senza che sia finalmente fatta luce su troppi aspetti bui della nostra storia. Che la trasparenza e mai la Ragion di Stato debbono orientare i comportamenti di tutti quelli che hanno responsabilità di governo. Eppure “ogni cosa umana è sorta sulla prima pietra di un’anima”, come scrisse uno dei più vividi e coraggiosi fra i nostri spiriti magni, Aldo Capitini. Che si parli di una comunità nazionale o di una comunità di lavoro, di ricerca, di insegnamento, poco cambia. Anzi, semmai si fa più pressante l’interrogativo: come si è potuto ignorare tanto a lungo ciò che oggi fa scandalo? Indagare le ragioni dell’inconsapevolezza è forse il primo compito della filosofia, il più socratico. E poiché è un modo del “conosci te stesso”, non può stare sulle generali: deve scendere in fondo alla coscienza di chi si interroga, e solo da lì, se ne troverà, portare alla luce le ragioni per non chiudere bottega, e con loro – forse – le ragioni da offrire alla domanda di senso degli studenti di oggi – e di domani.

1. L’accusa e le domande della società civile

“Romanzo criminale”, “bancarotta morale e finanziaria”. “Prete-tycoon che di faccendieri, tangentari, bancarottieri ha fatto il suo esercito in nome di Dio”. (A.Statera, “La Repubblica” 2/01/2012). Sono solo alcune delle espressioni con cui, dopo la morte di don Verzé, la stampa ha rievocato la storia del San Raffaele e quella del suo fondatore. Furono violente come pugni in faccia a un morto, ma anche come grida di sdegno. Comparvero anche su quella parte della stampa che meglio fa il suo mestiere, quella più vigile e pronta a denunciare ogni sorta di illegalità e di abuso, ogni episodio dell’infinita vicenda di corruzione e malversazioni che domina il rapporto fra imprenditoria e pubblici poteri in Italia. E dunque sono implicite domande, domande di ragione e giustificazione che salgono, comunque, dalla società civile. “Sono almeno 40 anni che su don Verzé tutti sanno tutto: Chiesa, giudici, giornalisti, politici, cittadini” (M. Travaglio, “Il Fatto Quotidiano”, 3/01/12). Questo “tutto” è oggi una serie di imputazioni di cui spetterà finalmente ai giudici valutare il fondamento.

Ma se questo fondamento c’è, come hanno potuto i responsabili operare indisturbati, così a lungo? Ecco: trovarsi oggi a esercitare la propria professione di docente nell’Università che don Verzé ha fondato e di cui fino all’ultimo è stato rettore, anzi nella Facoltà che per vocazione ha più direttamente a che fare con l’etica e financo con la teologia, la Facoltà di Filosofia fondata da Massimo Cacciari nel 2002, non è un fatto trascurabile. Sembra una “questione morale” e “civile” enorme, impossibile da liquidare, neppure con la risata al vetriolo che le parole di Marco Travaglio suggerirebbero: non insegnerà lì a sua insaputa, anche qualche moralista impenitente?

È una questione la cui portata va ben oltre il suo significato strettamente personale, ma proprio dalla filosofia che ci induce a sollevarla trae la sua spina più acuminata. La spina di un paradosso che può sembrare, agli occhi del cittadino qualunque o del virtuale studente, la quintessenza di quell’italianità cinica e moralmente indifferente denunciata tante volte. Ancora peggio, se a ben predicare è proprio chi tanto male (forse?) razzola. Sembra la quintessenza dell’opacità, dell’assenza di trasparenza verso se stessi, della rinuncia alla logica prima che all’etica… Peggio, sembra la caricatura dell’intellettuale italiano, anche recentemente investito dalla luce della ribalta dei comici. “A libro paga di quel malfattore di prete”, come scrive Maurizio Crippa (“Il Foglio” 24/12/11), con inusitata violenza attaccando chi scrive per un articolo in cui dava conto, con gioia, della volontà unanime di radicale rinnovamento, espressa nel novembre dell’anno scorso dall’Università a facoltà riunite (“Il Fatto Quotidiano”, 23/12/11). Bene, che cosa posso rispondere?

Premetto che, se non fossi convinta che la questione non riguarda il caso irrilevante di un modesto professore di filosofia e di qualche decina di suoi allievi – di fronte ai quali tuttavia chi scrive ha sempre sentito il dovere di rispondere, anche perché sarebbero loro le prime vittime di una fiducia mal riposta – non mi verrebbe neppure in mente di rendere pubblica una meditazione che, come questa, parte dai sentimenti, dalle convinzioni, dal lavoro di una singola persona: e perché dovrebbe interessare altri? Ed è ancora più difficile giustificare questa esposizione a fronte dell’altra opinione, che condivido con tutti i colleghi dell’Università, che i docenti non abbiano parte di responsabilità nelle disavventure amministrative del complesso San Raffaele: cosa effettivamente altrettanto incontestabile. Il “tutti sapevano”, refrain già avanzato l’anno scorso da Aldo Grasso sul “Corriere della sera” (18/12/11, vedi la risposta pubblicata sul “Corriere” del giorno dopo in “Interventi e repliche”), se era assolutamente inaccettabile come accusa di omertà, almeno nei confronti di altre persone che non fossero gli stretti responsabili delle decisioni amministrative e gestionali, era un’accusa tanto generica quanto indeterminata: chi sapeva cosa? Qui, non più a caldo, ma dopo un anno di dibattiti e una pausa di riflessione, possono cominciare i distinguo, senza i quali non esiste discernimento morale.

Che nessun fine, anche il più nobile, giustifichi mezzi illeciti, dovrebbe essere un assioma per chiunque. Se anche l’Università fosse stata messa in piedi e poi gestita con mezzi illeciti, allora chiunque lo avesse saputo e avesse accettato di esservi assunto e di lavorarvi condividerebbe la responsabilità almeno morale di questi illeciti. A questo non si sfugge. Tuttavia né l’amministrazione dell’Università risulta indagata, né le sue scelte strategiche paiono nel complesso orientate ad altri fini che quelli dell’eccellenza effettivamente ottenuta e riconosciuta, né gestite con altri mezzi che quelli regolati dalle normative che disciplinano la gestione di tutti gli atenei del sistema universitario nazionale, pubblici e privati, né rifornite d’altro sostentamento per quanto riguarda la ricerca che quelli ottenuti attraverso le competizioni nazionali e internazionali per cui mezzo vengono selezionati i programmi di ricerca vincenti.

E allora? Non hanno dunque ragione da vendere tutti quei colleghi che ritengono incongruo e dannoso, come una sorta di excusatio non petita, fonte di confusione e divisioni inopportune, che ci si immischi in questioni che non ci riguarderebbero, soprattutto pubblicamente, e di fronte all’incertezza sul destino, non di qualche centinaio di scienziati e studiosi, ma di qualche migliaio di lavoratori certamente innocentissimi di ospedale e dintorni, il cui posto di lavoro è forse a rischio? Non è, anche questa meditazione, quando resa pubblica, una riprovevole manifestazione di un qualche narcisismo ferito?

Non credo, se si ammette la sensatezza dell’interrogazione al di là delle espressioni violente con cui fu posta, se si ammette dunque la sensatezza dell’accusa e la giustezza dello sdegno, e si ritiene quindi un dovere rispondere, e non si trova altro mezzo per cominciare a farlo che un esame della propria coscienza. In ogni caso l’impegno di chi difende la sostanza etica della filosofia sfiorerebbe il ridicolo senza un corrispondente obbligo pratico. Quest’obbligo oggi si esprime con le parole: de te fabula narratur. Anche di te. Oggi la società civile, attraverso il dibattito pubblico e le discussioni private chiede ragione anche di questo. Come è stato possibile scindere il rettore visionario e i suoi affascinanti fiduciari dall’imprenditore dai metodi più che discutibili? Come è stato possibile credere – come indubbiamente ho creduto – al progetto di università ideato da don Verzé e progettato – per quanto riguarda la mia Facoltà – da Massimo Cacciari? Come è possibile crederci ancora, come ancora ci credo?

2. Politica e morale. Una storia italiana

Forse è proprio questa la questione che può davvero interessare anche altri. Non la circostanza che vivessi da una quindicina d’anni a Ginevra, dove insegnavo sulla cattedra che era stata di Jeanne Hersch, né la circostanza che, forse per quest’unica ragione, venissi chiamata per cosiddetta chiara fama (la dizione che si riservava spesso ai docenti di università estere richiamati in patria con la cosiddetta legge per il rientro dei cervelli) – cioè in base a una legge dello Stato, e sulla base di un finanziamento dallo Stato stesso messo a disposizione di questa iniziativa. Constatazione comunque che dovrebbe avere un certo peso, quando si parla delle fonti di finanziamento dell’Università San Raffaele.

Quello che invece può forse interessare ognuno è quanto, allora come oggi, fosse esiguo in questo paese, in pubblico come in privato, lo spazio della riflessione e discussione propriamente morale e assiologica, rispetto all’urto delle parti politiche contrapposte. Da lontano era difficile capire quanta questione morale e civile fosse implicata, spesso malamente inghiottita dai fondamentalismi ideologici, nel conflitto “politico”. Da lontano, il conflitto politico pareva simile a quello normale negli altri paesi civili: diverse tradizioni, diversi progetti di società, diverse fedi. Ben poco c’era, altrove, che potesse diversificare i contendenti sul piano dell’etica pubblica, del rispetto per la legalità, della lealtà verso la Costituzione e le scelte fondamentali condivise dalla nazione, dalla laicità dello Stato ai diritti di libertà degli individui al prestigio indiscutibile della scienza, della conoscenza, della ricerca. Su quest’ultimo punto, certo, anche da lontano le cose non sembravano andare molto bene da noi. Avevo studiato alla Scuola Normale di Pisa, e attraverso borse di studio avevo goduto del privilegio immenso di studiare a Monaco, a Zurigo, a Bonn e infine a Oxford – completamente a spese dello Stato italiano. Avevo trovato maestri magnifici. E sentivo forte, insieme con la gratitudine, e, perché negarlo, l’amor di patria, il desiderio di restituire all’università italiana un po’ del molto che mi era stato dato, di portare il mio piccolo contributo di studio e di esperienza. Nessun altra università però pareva minimamente interessata al mio lavoro. Cosa uno facesse era anzi del tutto irrilevante di fronte alla prima e sola questione: “ma chi ti porta”? Non avevo proprio chi “mi portasse”, né l’avevo mai avuto, nonostante abbia avuto ottimi maestri. Non nego di essere stata forse im-portabile, o forse insopportabile…. Della nuova facoltà in costruzione al San Raffaele sentii parlare anzitutto dagli antichi compagni di studi logici e di filosofia del linguaggio. Rispetto alla situazione media delle facoltà umanistiche italiane sembrava magnifico, quello che insieme con Cacciari stavano costruendo.

Certo, avevo anche sentito parlare male di don Verzé. Questo “male”, però – quello che mi giungeva all’orecchio – erano le sue simpatie “politiche”. Il male era il fatto che – si diceva – alla base delle sue fortune c’erano quelle di un uomo che si apprestava a scendere in politica per cambiare l’Italia, e non in meglio. Fortune la cui origine è oggi di nuovo sotto la lente, anche giudiziaria, di chi indaga sui fatti che diedero origine alla cosiddetta Seconda Repubblica. E io appunto non avevo capito fino a che punto “politica” in Italia voleva dire, purtroppo, stare da una parte o dall’altra rispetto alla legalità, alla lealtà verso lo Stato e le amministrazioni, alle regole e a tutto il resto. Sottostimai di molto la portata morale prima che penale (mi riferisco almeno all’ingiustizia purtroppo accertata che fu l’ottenere lo spostamento delle rotte aeree da un luogo ancora non urbanizzato a un luogo che già lo era e molto intensamente, con gravi e ingiustificati danni degli abitanti) di quell’alleanza “politica”, o meglio, di quell’intreccio d’affari privati e di risorse pubbliche. Ma allora né questa ingiustizia né eventuali altre erano sotto i riflettori, e questo rendeva naturale spiegare l’ostilità di alcuni al “prete manager” con le sue simpatie “politiche”, peraltro non facilmente classificabili dato che già correva fama anche dell’amicizia di don Verzé e Fidel Castro. Bisogna dirlo, però, che negli anni queste voci critiche si assopivano sempre di più, mentre crescevano in consensi e gli omaggi, e non solo degli uomini politici: un cardinale come Martini scrisse un libro a quattro mani con don Verzé e venne a presentarlo nella sua “basilica”, quella che sfora il cielo e il bilancio: con il direttore del “Corriere” Ferruccio de Bortoli e il sempre amato Massimo Cacciari.

Del resto io non avrei avuto a che fare con don Verzé se non come rettore: mi presentarono a lui, e fu allora che udìi per la prima volta il famoso mantra – “non cerco credenti, ma pensanti”. Non c’era dubbio su questo: ed era l’essenziale, per una persona a torto più spaventata dalla simbologia, o meglio forse dalla paccottiglia, “religiosa” del luogo che dalle “irrilevanti” simpatie politiche di quello strano signore in cravatta e crocetta che non cessava un istante di lodare lo spirito di libertà e la sua vera incarnazione – Massimo Cacciari, il quale in fondo era un’icona della (sparuta ormai) sinistra intellettuale italiana. Al quale fui grata, come agli altri colleghi, di avermi chiamato su una cattedra che, sulla base del dottorato che avevo messo in piedi a Ginevra, chiamarono “filosofia della persona”. E mi gettai a capofitto nella nuova impresa. Nel giro di pochi giorni conobbi i miscredenti più prestigiosi della casa: da Edoardo Boncinelli a Emanuele Severino, tanto per menzionare due concezioni del mondo e della vita che più antitetiche è impossibile trovarne. Più tardi arrivò Vito Mancuso. Ero felice di aver ritrovato alcuni degli antichi compagni di studi: come Michele Di Francesco, con il quale avevamo scritto un libretto a due mani sulla logica modale, Leibniz e i mondi possibili, ancora da ricercatori….

Del fatto che avessi sottovalutato, o non veramente compreso, che cosa fosse la “politica” in Italia, dovetti accorgermi ben presto. Nei miei studi non avevo mai sentito attrazione per la filosofia sociale e politica – studiavo indubbiamente da sempre anche il risvolto etico dell’impegno logico e filosofico, e la sostanza morale dell’identità degli individui; ma fui colpita, e molto, fin dall’inizio, da come la “politica” in Italia mettesse quotidianamente in questione quelli che dovevano piuttosto essere i presupposti pre-politici, e universalmente obbliganti, di qualunque convivenza civile. La coscienza di questo fatto si fece largo dal lato della bioetica e delle questioni relative alla gestione della procreazione e del fine vita, dove la Chiesa cattolica italiana e i partiti che la sostenevano avevano sferrato un attacco violentissimo ai diritti civili più elementari come l’habeas corpus, e alla nozione stessa di laicità dello Stato, come si vide poi a partire dal caso Welby, e a finire con il caso Englaro. Il mio interesse per il risvolto morale della “politica” nacque dal senso di soffocamento e di inaudita violenza morale che mi pareva di subire da tutti coloro che andavano cianciando di “partito della vita” e “partito della morte”, qualificando in quest’ultimo modo i difensori dell’autonomia inviolabile della persona rispetto alle scelte ultime riguardanti il trattamento medico cui sottoporsi, o no. Era davvero una questione di vita o di morte: ma della persona e della sua libertà, cioè delle ragioni stesse del mio insegnamento accademico, oltre che della mia vita propria. E su questi punti il San Raffaele pareva ben piazzato: l’università era all’avanguardia nella ricerca biologica, anche quella minacciata dalle nuove tendenze del magistero, e l’ospedale lo era nella clinica e nel rispetto della personalità dei pazienti. Importanti interventi dello stesso don Verzé lo confermavano, e anzi si diceva che da questo punto di vista il San Raffaele fosse un’isola felice nel contesto della Sanità lombarda, completamente colonizzata da Comunione e Liberazione.

3. “Un Paese tragico”

Per questa via, dell’attentato alle più elementari libertà civili, aveva dunque fatto irruzione nei miei studi contemplativi la realtà della “politica” – di quella cui ancora mi ostino a mettere le virgolette, perché la politica non dovrebbe rimettere in questione le acquisizioni morali e cognitive dell’uomo. Ma una volta aperti gli occhi, era difficile non vedere il resto. Una cosa lentamente capivo: che a questa anomalia italiana, una “politica” che sta da una parte e dall’altra della Costituzione, della legge e anche della morale, che dunque è un conflitto non semplicemente politico, ma morale e civile – con pessime conseguenze per entrambe le cose, perché la politica non si fa con la morale né la morale e la civiltà possono sostenersi sui partiti – è da ricondursi la desolata constatazione di Norberto Bobbio, che l’Italia è un paese tragico, nonostante le sue maschere comiche, che sono quelle dei padroni gabbati e dei servi contenti. In fondo i lavori di tema “civile” scritti in questi anni non furono per me che un commento angosciato e interrogativo a quella constatazione. Chiunque oggi ha modo di verificare, in un modo o in un altro, che quella constatazione è ancora più vera e profonda di quanto si possa credere. E certo lo si vede ancor meglio quando questo “tragico sotto veste comica” rischia di travolgere le stesse ragioni di una vita che sia, come può, socraticamente al servizio della chiarezza nel pensiero e nell’azione – oltre che di mettere a rischio la fiducia morale che qualunque insegnante implicitamente chiede ai suoi studenti.

Aver disdegnato, per così dire, il pensiero degli uomini che furono, in questo paese e nei suoi momenti di crisi o di rinascita, di svolta e di speranza, “presenti al loro tempo”, alle nostre fragilità e alle nostre eccellenze, aver inseguito quasi soltanto in altre lingue e in altri mondi le tracce degli esploratori dell’umano, non essersi resi conto della parte di responsabilità che gli intellettuali hanno nella scarsa educazione civile di una comunità, che permette al bene e al male di intrecciarsi così “normalmente”, per lunghissimi anni, senza vera opposizione – questa è la vera colpa d’omissione, di mancata attenzione, che oggi veramente rimprovererei alla maggior parte degli studiosi di filosofia, e a me stessa per prima. Soprattutto se è vero che alla filosofia, nel nostro mondo di oggi, restano ben poche altre ambizioni che di servire – come scrisse Michael Dummett, il più grande fra i maestri che ebbi la fortuna di trovare – i fondamenti dell’educazione alla civiltà e alla cultura. Allora bisognava capire e spiegare come noi, in particolare, siamo diventati questo paese tragico, e come rifondarci a una vita diversa. Si può ancora provare.

4. La vita di dentro. Il nostro Lab

Ma dentro, in Università, come stavano le cose? C’era veramente la perfetta libertà, la ricchezza e la pluralità di prospettive, la bella collaborazione fra scienziati e filosofi che il progetto prometteva? Sì. Senza dubbio sì, su questo sarebbe veramente ignobile negare il vero. Con niente – puro entusiasmo e piacere del buon lavoro – fondammo, con la collaborazione di alcune persone sia dentro che fuori dell’ateneo San Raffaele, tutte spinte da pura passione filosofica, che vuol dire dunque a spese del loro tempo e a volte anche del loro denaro – un cosiddetto Centro di Ricerca in Fenomenologia e Scienze della Persona, che – ciascuno può vederlo accedendo alla pagina dedicata sul sito della Facoltà di filosofia – gestisce una rivista in lingua inglese, Phenomenology and Mind, con un comitato scientifico impressionante, che contiene molte personalità di grande prestigio nei loro campi di studio. Da questo sito ufficiale, che fa parte dello spazio web dell’Università, si accede con un semplice clic al Phenomenology Lab, il “laboratorio” interattivo che è in libero accesso anche da fuori, in rete – e che raccoglie le riflessioni e discussioni quotidiane, su argomenti filosofici e più in generale di attualità, di una piccola ma sempre più estesa comunità – filosofica dapprima, in partnership con l’Università Statale di Milano, ma poi aperta a tutti, molto frequentata anche da insegnanti medi e altri cultori dei vari argomenti discussi. È uno spazio che si può letteralmente definire una porta aperta fra la Facoltà di filosofia e il mondo: porta il logo dell’Università, e come tale potrebbe benissimo essere “cacciato via” dall’Università stessa, alla quale invece si accede cliccando proprio sul suo logo: ha dunque anche un’appartenenza ufficiale. Ma nessuno lo ha mai cacciato via o chiuso, nonostante, da che esiste, alberghi interventi anche durissimamente critici nei confronti delle autorità interne, come pure dialoghi e discussioni senza altro limite che quello del rispetto e del decoro. È dunque un visibile e frequentato spazio di libertà, su cui ognuno può seguire anche le prese di posizione in relazione ai recenti avvenimenti, fino alla morte di don Verzé e oltre – e in relazione ad altri, più lontani, episodi di diverbi e discussioni interne all’Università. Vi collaborano attivamente e a titolo gratuito alcuni fra i migliori studiosi italiani di fenomenologia, ma chiunque, purché a viso aperto (regola che recentemente, purtroppo, alcuni hanno voluto infrangere) può esprimervi la propria opinione. È vero che né per questo spazio, né per il Centro, né per la rivista, abbiamo mai ottenuto il minimo finanziamento – anzi, neppure il minimo sconto sulle prestazioni editoriali, visto che la casa editrice della rivista era pur sempre quella del San Raffaele. Meglio così, a posteriori!

5. Passato e presente

Se questo spazio conferma ancora una volta che non c’è servitù se non volontaria (ma, io credo, non c’è proprio mai stata servitù per quanto riguarda tutte le attività scientifiche e didattiche della nostra facoltà, almeno a mia conoscenza), come stanno le cose rispetto al resto della vita accademica? Per le altre facoltà, non ho competenza a parlare. Ma per la mia posso dire due cose.

La prima è che in passato ci sono stati alcuni episodi in cui molte più persone di quelle che si sarebbe potuto immaginare hanno infine sostenuto la volontà del rettore su provvedimenti o esternazioni discutibili, discussi e a parere di chi scrive erronei o inopportuni. Ma dunque non si può parlare di volontà di un padrone, ma di una maggioranza di persone che condivisero le opinioni del loro rettore (o del loro presidente, in questioni che riguardassero piuttosto il consiglio di amministrazione, al quale l’università era pressoché completamente estranea. È certo inquietante che in una sola persona si accentrassero tutte le cariche supreme delle diverse istituzioni da lui fondate. Ed è l’ovvia ragione per la quale è oggi così urgente una riforma della governance, oltre che una discontinuità con il passato).

Quello che è certo è che l’esigua minoranza che in quelle occasioni manifestò, anche aspramente e pubblicamente, il suo dissenso, non fu penalizzata con provvedimenti amministrativi o restrittivi di libertà, di alcun genere. Dunque era perfettamente possibile dissentire, manifestare il dissenso, e continuare a lavorare in quella facoltà. Una pur non completa storia di alcuni di questi dissensi – non completa perché cominciarono prima che il Lab nascesse – è facilmente rintracciabile, appunto, sul nostro Phenomenology Lab.

La seconda cosa è che se non saranno rivisti e rifondati i meccanismi della direzione dell’Università, in un modo che assicuri la perfetta trasparenza delle decisioni e delle loro motivazioni, e una vera rappresentanza del corpo docente a quei livelli di governance in cui si prendono le decisioni cruciali per il suo avvenire, oltre che naturalmente la perfetta trasparenza dei meccanismi gestionali, allora l’Università non avrà veramente meritato di sopravvivere al suo fondatore, qualunque siano i risultati di eccellenza di cui resta capace. E questo per una ragione molto semplice, che ha a che vedere precisamente con quella colpevole sottovalutazione dell’elemento illegale e immorale della politica italiana, di cui oggi farei certamente ammenda, ma che molte persone hanno sottovalutato quanto me, e ancora rischiano di sottovalutare. E questo, si badi, a prescindere purtroppo dal colore “politico” con cui si simpatizzi.

Perché il veleno che ammorba – forse da sempre, in ogni caso oggi – la “politica” italiana è l’enorme, capillare diffusione della mentalità consortile. Su di essa si basa quello che resta dei partiti politici di un tempo, che erano ben altrimenti temibili macchine di produzione di consenso, ma anche rappresentanti in qualche modo e coi loro limiti di opzioni valoriali e progetti di società effettivamente differenti: fino, almeno, al momento in cui si pose, specificamente a loro riguardo, la “questione morale”, i partiti erano qualcosa di più che consorterie di affari e di interessi particolari. Ma la mentalità consortile è in Italia dominante precisamente e soprattutto a livello di immissione nel mercato del lavoro: non si entra in molte professioni che in un modo o nell’altro “portati” dalle rispettive consorterie, ed è particolarmente vistoso, ad esempio, nella sanità lombarda il potere immenso che ha finito per assumere una di esse, nota per la sua spregiudicatezza e i suoi legami con l’amministrazione regionale. La mentalità consortile è per eccellenza la mentalità che rigetta, implicitamente e sistematicamente, l’assunzione individuale di responsabilità, l’esercizio personale della critica e del dissenso, e più in profondità ancora la ricerca personale del vero negli ambiti che debordano il proprio, specialistico – e questo è un aspetto tipico della vita del ricercatore italiano, che si accentua semmai oggi nel ricercatore “umanistico”, nell’intellettuale generalista. Al punto che ormai o si è fustigatore di professione – giornalista in qualche fortunato piccolo o grande giornale che riesce ancora a farsi leggere – oppure si fanno in generale gli affari propri, si è magari squisiti critici della cultura o raffinati pensatori della politica ma raramente si prende posizione nel dibattito pubblico: e i pochi che lo fanno vengono spesso derubricati dai colleghi a “politici” e “guidati da interessi di parte”.

Ma questa situazione fa sì che degeneri inevitabilmente anche una forma del “noi”, dell’intenzionalità collettiva, che potrebbe avere una sua nobiltà, un suo senso, un suo ruolo: l’orgoglio di appartenenza, così caratteristico ad esempio delle “buone” università nei paesi dove la meritocrazia è più onorata che da noi. Ecco, fin dall’inizio mi colpì col suo aspetto enigmatico il grande orgoglio di appartenenza che faceva parte, anche in università, del clima generale del San Raffaele. Cominciò qui una riflessione sull’intreccio di bene e di male che là parevano in districabili. Perché non c’è dubbio che qualcosa, forse molto, di cui essere orgogliosi c’era: lo può anche oggi vedere chiunque, che la produttività scientifica, è, in ciascuna facoltà secondo gli standard internazionali adottati dalle diverse discipline, certamente fra le più alte in Italia e in Europa. Ma l’orgoglio di appartenenza resta moralmente compatibile soltanto se si associa ai più limpidi, ai più trasparenti, ai più controllabili e – purtroppo – spietati metodi di reclutamento e promozione degli individui nel campo della ricerca e dell’insegnamento. Così, secondo una proposta che feci a suo tempo, ed è rintracciabile sul Phenomenology Lab (un articolo sui concorsi universitari, con le loro spaventose “cordate”: ma proveniva dall’esperienza di una commissione per un’altra università, e statale: non la nostra), dovrebbe addirittura non essere permesso neppure vincere un dottorato nella stessa università dove si sono fatti gli studi! Se invece si coniuga con un meccanismo di auto-legittimazione dall’alto, per il quale ciò che piace al vertice diventa espressione di un “noi” non verificabile dal basso, come in alcune infelici espressioni pubbliche del defunto rettore, purtroppo, ebbe a verificarsi – allora questo “noi” rischia terribilmente l’involuzione a espressione di una mentalità consortile. Allora il disprezzo per le forme, le norme, le procedure – che in svariati suoi scritti don Verzé rivendica, quasi con superiore orgoglio derivante dalla divinità della sua missione, purtroppo – diventa veramente l’arma micidiale dell’affarismo accademico dominante, e dominante fino ad oggi assai di più fuori che dentro l’ateneo del San Raffaele. È un affarismo ben noto, per il quale ciascuno si occupa di promuovere il suo campo, e lo fa tramite accordi consortili, in un reciproco chiudere gli occhi rispetto all’eventuale misura di favoritismo, clientele eccetera che giocano nelle promozioni. Ecco: da questo, in buona misura, la nostra università sembrava finora preservata. Ma il rischio che incombe su un corpo in cui si sia diffusa l’abitudine a delegare le questioni decisionali a non controllabili vertici, e non si incoraggi quella della discussione, della critica, del dissenso come buona pratica normale e costante della formazione delle decisioni, è terribile. Lo statuto che il defunto rettore fece approvare nel settembre di quest’anno peggiora di molto, rispetto allo statuto del 2003, il problema di una università i vertici della quale non rappresentano a sufficienza il corpo docente, e il corpo docente non è a sufficienza chiamato a condividere l’informazione e discutere le decisioni.

6. Una grande speranza

Ecco perché alcuni di noi hanno tanto tenuto a che i docenti si assumessero finalmente le loro responsabilità nel contribuire a determinare il futuro destino dell’Università – che in definitiva sono loro, insieme con gli studenti, a costituire: loro e nient’altro. Era importante che ci si potesse apertamente e anche individualmente pronunciare sulle opzioni che si sarebbero profilate per questo futuro. Che si potessero discuterle, valutarle – il che presuppone anzitutto l’esserne informati con esattezza ed esaustività. Il merito principale di aver smosso le acque va ad alcuni colleghi della Facoltà di Medicina, che si sono fatti carico del compito più oneroso, dato il peso specifico della loro Facoltà, di richiamare, fin dai giorni immediatamente successivi al suicidio di Cal, tutti i colleghi alla necessità di una riflessione comune alle tre Facoltà. In seguito a queste iniziative, si è finalmente ottenuto che il 23 novembre e il 21 dicembre le tre facoltà si riunissero a deliberare sulle prospettive dell’Università; la discussione su un documento redatto da alcuni di noi e presentato dal Prorettore (accessibile da https://www.phenomenologylab.eu/index.php/2011/12/consiglio-interfacolta/) ha condotto a uno statement votato all’unanimità, in cui si esprime la volontà di dare un segno di discontinuità rispetto ai metodi passati di direzione, che si articola in tre punti, riguardanti rispettivamente la nomina su base elettiva del rettore e le condizioni poste sul suo profilo scientifico, culturale e deontologico; la maggior rappresentanza dei docenti negli organismi decisionali, infine la revisione dei meccanismi gestionali nel senso di un’assoluta trasparenza.

In conclusione: oggi l’opinione pubblica rispetto all’Università (non all’Ospedale, che suscita ben altre tensioni, interessi, preoccupazioni) sembra divisa fra un’indifferenza silenziosa che tuttavia la morte di don Verzé ha scosso, e la consapevolezza che nessun bene, anche il più grande, può giustificare mezzi legali e immorali. La prima condizione perché sia giusto adoperarsi a preservare questo bene di tutti che è l’Ateneo e i suoi centri di insegnamento e di ricerca è che sia chiaro oltre ogni dubbio che non sono stati adoperati mezzi illegali e immorali per promuovere e sviluppare l’Università. Ma la seconda condizione è che vengano davvero riformati i metodi di direzione e di decisione, nel senso di una vera democrazia interna – o se si preferisce, di un’effettiva valorizzazione della consapevolezza e della responsabilità personale di ciascun individuo. Non diversamente da quello che avviene in una comunità scientifica, del resto, dato che neppure un’addizione può essere eseguita “collettivamente”, e che una decisione è effettivamente collettiva solo quando è stata compresa, discussa e infine approvata da ognuno. Altrimenti è solo consortile, e deriva da una mistura della forza di alcuni e dell’indifferenza di molti. E questa è anche la ragione per cui dissentii, e vivamente, anche dai sostenitori della tesi che “solo la perfetta unità può salvare il San Raffaele” (“Corriere della sera”, 2/01/12), se per “perfetta unità” si dovesse intendere l’esclusione o la repressione di voci critiche, voci dissenzienti, voci alternativamente proponenti. Se c’è un momento in cui la discussione, anche aperta, anche sotto gli occhi della società civile, è invece vitale al rinnovamento e al rilancio della nostra università, è proprio questo. E i prossimi giorni, o settimane e mesi saranno decisivi, in questo senso. Per questo infine rivendico non solo la legittimità – che è ovviamente fuori questione – ma anche la “giustezza”, in un momento come questo, di rendere pubblica qualunque meditazione che faccia, come questa, propri gli interrogativi profondi che la società civile oggi non può non indirizzare a tutti “noi”. Per irrilevante che sia il punto di vista di un singolo, per minuscola che sia la sua storia e per trascurabili che siano le sue opinioni a fronte di un’opera così grande come quella di cui parliamo – un’opera che riflette in profondità il bene e il male della civiltà che l’ha promossa: bene e male non hanno infine altra radice che le singole persone, i loro pensieri, le loro azioni.

7. Le cose nuove.

C’è in questa riflessione una risposta per chi oggi vede la nostra università da attuale o potenziale studente? La riflessione è già troppo lunga per attardarsi ancora: se c’è, sarà trovata. Ma una sola cosa vorrei dire, che a torto potrebbe sembrare una fuga e un filosofema. Quello che la riflessione forse ha messo in luce, proprio attraverso una piccola storia fra mille, è che il “vero male”, l’intreccio del bene e del male, è stato dentro ciò che è stato fuori, nella società civile che ha consentito entrambi. Se ne vediamo meglio la natura, ci sarà meno arduo il vero lavorio del discernimento, la vera “discrezione” – dopo tante parole. In qualunque manifestazione di questa società civile operano persone che con le loro azioni determinano la prevalenza dell’uno o dell’altro. In ciascuno di noi alberga qualcuno capace di far sentire chiaramente le ragioni del bene, nel contesto in cui opera.

Quanto difficile sia far prevalere la vita dell’intelligenza e la voce della coscienza nel fragile tessuto della civiltà italiana è in fondo ciò che abbiamo imparato – purtroppo – anche da chi con questa fragilità ha giocato un’azzardata partita, riuscendone, infine, sconfitto e travolto. Don Verzé è stato il cultore della libertà, il coraggioso autore di uno scritto serenamente ma profondamente critico verso la Curia Romana e il Vaticano, dunque verso la dirigenza della sua stessa chiesa (“Corriere della sera”, 3 settembre 2010). Ma anche lui ha in fondo, proprio secondo una logica che si radica nella storia tragica di questo Paese, opposto il cielo e i suoi fini superiori a quei vincoli e a quei limiti – quelle leggi – che su questa terra noi dobbiamo porre consapevolmente, liberamente a noi stessi, se non vogliamo essere travolti dalla forza bruta che le leggi umane, per quanto imperfette e a volte mediocri, disciplinano. Sta in questa capacità di auto-limitarci, il vertice della nostra libertà di creature finite, non oltre questi limiti – oltre i quali purtroppo non sta il cielo, ma la forza, la violenta “politica” che ancora oggi, ancora adesso prevale. Che tanta parte ha avuto, infine, tanto nell’ascesa quanto nella caduta di questo angelo Raffaele: nella sua contraffazione in plastica e oro. Come in quasi tutte le tragedie morali e civili di un Paese, il nostro, dove è stato possibile – in contesti ben altrimenti drammatici – disprezzare la definita e finita coscienza umana in nome degli interessi celesti. Togliere il nome di Dio alle imprese umane: che possono tentarsi “al cospetto del cielo”, certo – ma non in suo nome. Solo nel nostro è legittimo compierle: e perciò, nel rispetto dei limiti che coscienza e ragione pongono alla nostra stessa volontà. Togliere il nome di Dio al bene che possiamo fare noi, questo a me sembra oggi il primo passo per dirimere il groviglio, separare il bene dal male, rendere al cielo quello che è suo e a noi quello che è nostro. Anche se “di un buon angelo” avremo sempre bisogno, ma è altra cosa.

E per far questo c’è bisogno di giovani forze, di intelligenze nuove, da cui imparare.

L’Università San Raffaele non potrà infine rinascere che dai suoi studenti, dagli studenti che vorranno farla propria. Da sempre chi insegna impara così, da chi sta all’inizio della vita, e vede cose nuove.

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