Più che spezzati, smemorati. Gli errori e i silenzi della fiction della Rai sul commissario Calabresi

giovedì, 16 Gennaio, 2014
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Riceviamo da Matteo Pedrazzini, che ha recentemente dedicato una tesi alla strage di Piazza Fontana raccontata dai giornali, questo contributo a proposito delle prime puntate della fiction Rai Gli anni spezzati, entrambe dedicate al commissario Luigi Calabresi. Volentieri lo pubblichiamo.

La prima conseguenza sottesa all’atto di scrivere è scegliere, ad esempio, tra questa o quella parola, tra questa o quella struttura narrativa, tra questo o quel fatto; la stessa dinamica è presente anche dietro la macchina da presa nella realizzazione di un film o di uno sceneggiato che, non a caso, prendono le mosse da un lavoro di scrittura preliminare alle riprese.

La linea editoriale dichiarata dalla Rai riguardo alla serie televisiva Gli anni spezzati è di raccontare i cosiddetti anni di piombo “dal punto di vista di chi ha combattuto cercando di salvare la nostra Repubblica” (www.fiction.rai.it), ovvero attraverso la vicenda di tre personaggi, “gli uomini del dialogo”, Luigi Calabresi, Mario Sossi e Giorgio Venuti che vissero i diversi snodi di quel periodo: dal suo inizio alla sua fine, passando per il progressivo affermarsi del terrorismo. Le prime due puntate della fiction (regia di Graziano Diana), dal titolo Il commissario, hanno avuto come oggetto la figura di Luigi Calabresi: il vice-responsabile della squadra politica della Questura di Milano nel periodo che culminò con la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

La dichiarazione d’intenti della Rai risulta però insufficiente a fronteggiare le critiche scaturite da questa ricostruzione: le due puntate de Il commissario sono costellate di imprecisioni e di errori storici, che si sarebbero potuti evitare grazie a una più scrupolosa consultazione dei documenti che la bomba scoppiata alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, e quanto ne è seguito, ha prodotto: articoli di giornale, libri, testimonianze e filmati. Non va dimenticato che la Produzione si è avvalsa dell’operato di tre consulenti storici, nessuno dei quali però storico di professione: Adalberto Baldoni, Sandro Provvisionato e Luciano Garibaldi. Se si fosse agito con più attenzione, si sarebbe saputo, a titolo esemplificativo, che a Milano, il pomeriggio del 12 dicembre, non splendeva certo il sole; che i primi giornalisti a presentarsi a casa Pinelli la notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969, comunicando a Licia la tragedia del marito precipitato dagli uffici del quarto piano della Questura di Milano, non furono Camilla Cederna (L’Espresso) e Giampaolo Pansa (La Stampa), ma due inviati del Corriere della Sera. Inoltre la presenza di un manifesto contro CasaPound nella camera di un attivista anarchico è la conferma di un’insipienza storica non giustificabile dal momento che questa organizzazione nacque addirittura nei primi anni Duemila, per la precisione il 26 dicembre 2003.

Senza voler prescindere dalla pertinenza di questi giudizi di carattere strutturale, lo sceneggiato ha generato anche critiche e considerazioni a un livello più profondo, che chiamano in causa, ancora una volta, il passato e la memoria di questo Paese. Il commissario è stato seguito da più di 5 milioni di telespettatori nel corso della prima puntata e da circa 4,6 milioni durante la seconda (Anni spezzati, 9,6 milioni per deludere tutti, il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2014, p. 15), alla fine però la curiosità si è trasformata in un diffuso ed esplicito malcontento per quel che si è visto: a tal proposito basta leggere i commenti postati sul sito www.fiction.rai.it di seguito alle due puntate on demand dello sceneggiato. Molte di queste parole di disapprovazione sono il segno di un conflitto tutt’ora irrisolto legato alla strage del 12 dicembre, un conflitto che vede la contrapposizione di verità storiche diverse e inconciliabili in gran parte legate ai due simboli nati, loro malgrado, da quella circostanza: il commissario Luigi Calabresi e il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, ingiustamente accostato alla bomba della Banca Nazionale dell’Agricoltura, la cui vita venne spezzata nei locali di un luogo che è diretta emanazione del ministero degli Interni dello Stato italiano.

È una grave mancanza aver relegato la figura di Pinelli e quella di sua moglie Licia sullo sfondo, così come aver mostrato l’orrore del salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura dopo la deflagrazione e non aver ricordato le vittime dell’attentato e i loro familiari (costretti dalla Cassazione nel 2005 al pagamento delle spese processuali) se non appena prima dei titoli di coda. Questi sono alcuni dei più importanti aspetti che denotano come i curatori della fiction abbiano scelto una semplificazione estrema sia della strage di piazza Fontana, sia, più in generale, del periodo compreso tra la contestazione studentesca e la morte di Calabresi (17 maggio 1972), un periodo tra i più complessi e magmatici che il nostro Paese abbia mai attraversato. Semplificare è un’arte difficile da maneggiare, ma è al contempo intrinseca al medium televisivo, soprattutto nella trasposizione di fatti, come la strage del 12 dicembre 1969, dalle molteplici sfumature e implicazioni nella storia d’Italia; fatti che molte persone hanno vissuto sulla propria pelle, o anche solo come spettatori partecipi; fatti su cui molti si sono documentati e si sono spesi per fare chiarezza, per offrire una visione d’insieme il più possibile lucida e obiettiva. Il commissario pone la questione se la televisione sia un medium adatto a raccontare la vicenda di piazza Fontana scegliendo tecniche narrative, come la fiction, dove è intrinseca una forte componente di immaginazione e di invenzione. Se questa considerazione può prestare il fianco alla quantità di pubblico che il piccolo schermo riesce ancora oggi, nonostante la continua ascesa di internet, ad attirare, allora bisogna chiedere con forza che anche alla funzione divulgativa di questo mezzo venga conferita una qualità di gran lunga superiore rispetto a quella vista nelle prime due puntate de Gli anni spezzati: non può più bastare che le persone, in particolar modo i più giovani, sentano parlare della strage di piazza Fontana (o di altri eventi che hanno segnato la Repubblica italiana), può essere un inizio, questo si, ma è anche tempo di una maggiore coscienza, conoscenza e riflessione su questi fatti. Bisogna avere il coraggio di mettere a confronto e far dialogare le verità storiche nella loro interezza e complessità, comprendendo anche quelle più scomode e più vergognose per lo Stato; quando si riuscirà a realizzare, ma anche solo ad avviare questo progetto, ci saranno anche maggiori possibilità per un confronto più civile e costruttivo tra le parti in causa, tra le diverse posizioni.

Il commissario ha dato prova che la strage di piazza Fontana è un evento ancora vivo nell’opinione pubblica: l’oblio è solo apparente, basta davvero poco, questa fiction ad esempio, per rinfocolare il dibattito e i ricordi. Ma lo sceneggiato ha mostrato, forse inconsapevolmente e comunque in maniera quanto mai implicita e velata, anche un aspetto che, di solito, passa sotto silenzio nella ricostruzione di quei giorni: l’atteggiamento spesso insofferente di Marcello Guida (Questore di Milano) e di Antonino Allegra (responsabile della squadra politica della Questura di Milano) nei confronti di Calabresi suggerisce una responsabilità rilevante anche di queste due figure istituzionali nella conduzione acritica delle indagini sui mandanti della bomba e financo sulla morte del commissario: traspare la sensazione che non tutte le misure possibile siano state prese per proteggere l’incolumità del commissario, all’indomani della morte di Pinelli, e che anzi la durissima campagna del Lotta Continua che lo indicava come il principale responsabile della morte dell’anarchico sia stata presa con una leggerezza non giustificata. Ai funerali di quest’ultimo Guida e Allegra vengono inquadrati vicini, costernati e imbarazzati, defilati, ma appena dietro i familiari di Calabresi che aprono il corteo funebre. Sorge spontaneo chiedersi, ammesso e non concesso che tutta la vicenda di piazza Fontana sia andata così come ce la racconta il regista Graziano Diana, perché negli apparati dello Stato abbia prevalso la linea di condotta più inquinata e ottusa senza una netta opposizione che lo impedisse. A questa domanda, al momento, né Diana né la Storia né lo Stato hanno dato risposte davvero convincenti.

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