Fra illusione e previsione: il ruolo del cervello nella costruzione della mente

giovedì, 24 Settembre, 2009
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FRITH Chris, Making up the Mind. How the Brain Creates our Mental World, Oxford, Wiley-Blackwell, 2007, pb. pp. 248, euro 19,20, hb. pp. 248, euro 63,00; trad. it., Inventare la mente. Come il cervello crea la nostra vita mentale, Milano, Raffaello Cortina, 2009, pp. 280, euro 24,00.

Con il testo di cui è recentemente apparsa la traduzione italiana, Chris Frith, neuropsicologo noto in particolare per gli studi condotti sulla sindrome schizofrenica, non soltanto propone un’accurata  introduzione agli avanzamenti più recenti delle scienze cognitive, bensì sviluppa un’articolata e coerente concezione della relazione che intercorre fra mente e cervello. Egli, infatti, oltre ad illustrare una mole considerevole di indagini neuroscientifiche circa il modo in cui il cervello processa l’informazione proveniente dall’ambiente, sostiene l’idea secondo cui non vi sarebbe alcuna distinzione fra mentale e fisico ed anzi questa stessa distinzione non sarebbe altro che un’illusione creata dall’attività del cervello stesso.

Ritenendo che gli eventi e gli oggetti mentali non siano affatto più effimeri e vaghi di quelli fisici, Frith vuole liberare la psicologia dall’etichetta di «scienza soft» e, poiché oggi «possiamo eseguire misurazioni oggettive e hard dell’attività cerebrale» (p.17), a suo avviso, questa disciplina può godere finalmente di uno status non diverso da quello delle scienze naturali.

Per sostenere questa tesi, egli esamina tre dimensioni dell’esperienza nelle quali l’attività «creatrice» e costruttiva del cervello sarebbe particolarmente evidente: la costituzione del mondo fisico, la relazione con il proprio corpo e l’interazione con le  altre menti. Secondo Frith, l’elemento comune alle operazioni svolte dal cervello in questi domini è la formazione di modelli predittivi, cioè modelli relativi alla struttura del mondo esterno,  all’esperienza corporea e al modo in cui agiranno le altre menti in particolari circostanze. Il cervello «scopre ciò che sta lì fuori, nel mondo, attraverso la costruzione di modelli di quel mondo» e, tuttavia, «non si tratta di modelli arbitrari» (p.167). Il confronto tra queste previsioni e le sensazioni effettivamente provenienti dall’ambiente esterno ed interno permette infatti al cervello di valutare la maggiore o minore accuratezza delle proprie previsioni e di creare modelli sempre più appropriati di come stanno effettivamente le cose.

In questa prospettiva, per ognuno dei tre aspetti della vita mentale considerati, la strategia argomentativa dell’autore comprende due passi fondamentali. In primo luogo, egli vuole mostrare come i contenuti della vita mentale cosciente  siano determinati dalle operazioni compiute dal cervello, ossia vuole indagare come i modelli predittivi inconsci arrivino a costituire gli oggetti mentali di cui facciamo esperienza. In secondo luogo, proprio per sottolineare come la mente sia il prodotto del cervello e goda soltanto di un’illusoria autonomia rispetto al substrato che la supporta, l’autore cerca di illustrare lo iato che sussiste fra la coscienza e ciò che il cervello effettivamente compie.

 Il primo snodo concettuale indagato in questa prospettiva è  la relazione della mente al mondo fisico, una relazione che, secondo l’autore, dipende da capacità predittive basate su una forma di apprendimento di tipo associativo. Sulla base delle ricerche di Pavlov, Thorndike e Skinner circa il legame che può intercorrere tra la somministrazione di uno stimolo incondizionato e  una reazione condizionata, e avvalendosi degli esperimenti di Schultz in merito al ruolo dei neuroni dopaminergici nella segnalazione dell’ adeguatezza delle predizioni, Frith sostiene che il cervello costruisce e modula di continuo una mappa del mondo nella quale il valore  degli oggetti dipende dalla maggiore o minore  capacità che essi hanno di procurare o costituire una ricompensa. In questo contesto, la percezione è considerata come «una predizione di ciò che dovrebbe esserci nel mondo» (p.167) e da questo carattere predittivo dipenderebbe la possibilità stessa delle illusioni percettive. Infatti, muovendo dai dati sensoriali grezzi, il cervello è in grado di elaborare modelli diversi di ciò che si trova nel mondo, potendo però incappare anche negli errori dell’ «osservatore bayesiano ideale» e producendo così inferenze scorrette circa la realtà. Nell’ambito della relazione al mondo fisico, infine, molte delle cose che il cervello fa sono per noi inaccessibili. È possibile, per esempio, essere influenzati da stimoli che non si è consapevoli di aver visto, come le sequenze mascherate di volti mostrate da Robert Zajonc nei suoi esperimenti, così come l’amigdala, per esempio, reagisce agli induttori della paura senza che ne abbiamo minimamente coscienza.

Il ruolo dei modelli predittivi, secondo Frith, è fondamentale anche per la costruzione dell’esperienza corporea e in particolare per la capacità di distinguere i movimenti di cui siamo gli autori  da quelli che sono invece provocati da eventi esterni. Come suggerito dalle osservazioni di Helmotz circa la stabilità del campo visivo nonostante il movimento oculare continuo, il cervello è in grado di prevedere come le nostre sensazioni si modificheranno in seguito all’esecuzione di una particolare azione. Questo meccanismo permetterebbe di sopprimere le sensazioni corporee previste, identificando così i cambiamenti che dipendono dalle proprie azioni e quelli che invece derivano da eventi ambientali o dai movimenti altrui. La sensazione di controllare i nostri atti dipenderebbe dunque dalla neutralizzazione delle sensazioni che li accompagnano e all’origine dei deliri di controllo degli schizofrenici si troverebbe proprio la mancata soppressione delle sensazioni corporee che caratterizzano il movimento autoindotto. Per quanto riguarda l’esperienza consapevole, inoltre, sono moltissime le operazioni che il corpo compie al di sotto di questa soglia. Non soltanto, infatti, come mostrato da Fourneret, siamo in grado di correggere i nostri movimenti per raggiungere un obiettivo sperimentale senza averne consapevolezza, bensì, come illustra Benjamin Libet, il cervello sceglie quale azione intraprendere molto prima che noi ne percepiamo consciamente l’intenzione.

La centralità dei modelli predittivi  è infine illustrata dall’autore in relazione al mondo delle altre menti. La capacità di distinguere il movimento biologico da quello inorganico e la capacità di interpretarlo in termini di scopo, così come l’imitazione automatica delle azioni intenzionali e la possibilità di empatizzare l’esperienza mentale del dolore, costituiscono secondo Frith gli indizi a partire dai quali possiamo costruire una predizione in termini di causa-effetto del comportamento altrui. Anche in questo contesto, che è fondamentale per la costituzione di modelli che rendono possibile la comunicazione, non siamo consapevoli della maggior parte degli elementi che influenzano la predizione. Come mostra Kilner, infatti, è proprio perché tendiamo ad imitare automaticamente il movimento intenzionale che l’esecuzione di un particolare compito motorio è resa più difficile dall’osservazione di movimenti diversi da quelli che ci proponiamo di eseguire.

L’interazione con altri agenti intenzionali, anche nel caso in cui la percezione visiva non sia coinvolta, ci influenza dunque profondamente e, a causa dei processi imitativi automatici, tendiamo ad assumere i tratti comportamentali di coloro con i quali interagiamo. Per questo Frith giunge ad affermare che la tentazione di concepirsi come un’ «isola di stabilità» rispetto ad un contesto esterno ed intersoggettivo in perenne mutamento, al pari del «senso del sé» che spesso l’accompagna, non è  che «un’altra delle tante illusioni che il mio cervello produce» (p. 213). Così come la sensazione di avere un accesso diretto ed immediato al mondo fisico ed intersoggettivo sarebbe completamente ingannevole, l’idea che il sé sia autonomo rispetto a tutto ciò che lo circonda sembra insostenibile. In questo quadro, sulla base non solo degli studi di Libet, ma anche degli esperimenti da lui stesso condotti a proposito della localizzazione della volontà nel cervello, l’autore sostiene che le scelte non vengono determinate da noi in modo libero ed unitario, bensì  sono il prodotto dell’attività di una serie di aree cerebrali che operano secondo i vincoli provenienti dal corpo, dall’ambiente e soprattutto dal mondo sociale.

La prospettiva di Frith sembra dunque inficiare la possibilità di concepire decisioni ed azioni libere e suggerisce semmai un’idea estremamente ristretta e qualificata di libertà, la quale, piuttosto che all’illusorio soggetto agente, viene attribuita al cervello, un organo capace non soltanto di «produrre azioni appropriate», ma anche di compiere scelte inconsce (pp. 86-87). Complessivamente, sulla scorta di un’interpretazione marcatamente riduzionistica della relazione mente-corpo, il resoconto di Frith non riconosce all’essere umano alcuna possibilità di non essere completamente “giocato” dal suo cervello e proprio a questo punto diventano evidenti la problematicità e la discutibilità dell’approccio teorico adottato.  L’idea di essere in grado di autodeterminarsi liberamente è infatti profondamente radicata nella nostra esperienza e sembra poter essere compatibile con altri approcci allo studio della mente sviluppati nell’ambito delle scienze cognitive. Adottando una visione emergentista e non riduzionista del mentale è infatti possibile concepire un certo grado di libertà come una proprietà emergente ed irriducibile  dell’essere umano, salvando così anche uno degli aspetti caratteristici della dimensione fenomenica della coscienza. Proponendosi in maniera del tutto aprioristica di ridurre il mentale al fisico, assimilando l’esperienza vissuta nella prospettiva di prima persona alla logica degli eventi descrivibili in terza persona, il neuropsicologo si libera dello spessore fenomenico dell’ esperienza in modo tanto frettoloso quanto azzardato, lasciando al lettore il dubbio che gli interessantissimi dati illustrati nel  testo siano compatibili anche con un resoconto più ricco e complesso della vita mentale e possano dunque essere vagliati a partire da una differente prospettiva filosofica.

Recensione pubblicata in “RIFL. Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio”, Natura umana e linguaggio, Numero 1, 2009.


 


Un riferimento classico in questa prospettiva è costituito da VARELA, Francisco J., THOMPSON, Evan, ROSCH Eleanor (1991), The Embodied Mind: Cognitive Science and Human Experience, Cambridge (Mass.), MIT Press; trad. it. (1992), La via di mezzo della conoscenza. Le scienze cognitive alla prova dell’esperienza, Milano, Feltrinelli. Per una prospettiva specificamente fenomenologica sul tema si veda invece DE MONTICELLI, Roberta, CONNI, Carlo (2008), Ontologia del nuovo. La rivoluzione fenomenologica e la ricerca oggi, Milano, Mondadori.

 

 

 


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