Sulla libertà del volere. Vincenzo Costa e Roberta De Monticelli: due analisi fenomenologiche a confronto

domenica, 26 Giugno, 2011
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa riflessione di Carla Maria Giacobbe su due opere recentemente apparse in tema di fenomenologia del volere, quelle di di Roberta De Monticelli (2009) e di Vincenzo Costa (2011), che vengono così messe a confronto. Carla Maria Giacobbe è laureata all’università di Catania con una tesi su Libertà e valore morale, e prosegue i suoi studi di laurea magistrale presso la stessa università.

A distanza di due anni l’una dall’altra due proposte filosofiche, per molti versi simili e per altri dissimili, sono state offerte all’attenzione degli studiosi. Due fenomenologie della volontà, l’una delineata da Roberta De Monticelli, l’altra da Vincenzo Costa (già recensita su questo blog: 1 e 2 ). Si tratta di ricerche inevitabilmente connesse con questioni filosofiche sempre aperte, e oggi particolarmente avvertite e affrontate: quella concernente il nodo teoretico pratico della libertà e quella riguardante l’identità personale. Tracciamone brevemente le linee guida.

«Il Sé è uno scarto e una distanza tra sé e sé» (1). Questa la tesi fondante dell’appena uscito Distanti da sé. Verso una fenomenologia della volontà. (Jaka Book, 2011) di Vincenzo Costa il quale, attraverso un’analisi fenomenologica e trascendentale, porta alla luce le condizioni imprescindibili di un agire volontario.

Avvalendosi delle argomentazioni di molti studiosi precedenti e «libero da preoccupazioni esegetiche» (2), Costa abbatte i limiti posti dalle prospettive deterministe, compatibiliste, kantiane e non solo, sulla libertà, e scardina alla base molte delle impostazioni abituali della questione, cercando di eliminare il più possibile gli equivoci che possono dare adito ad errori concettuali.

« […] dobbiamo prima chiarire con quale senso usiamo i concetti, poiché, se non abbiamo pulito questi umili strumenti, non abbiamo neanche la possibilità di interrogare i fatti che la ricerca empirica porta alla luce, e rischiamo di mischiare cose fondamentalmente diverse» (3).

Costa punta, senza esitazioni, alla scoperta teorica delle condizioni e delle strutture a partire dalle quali il fenomeno volontà si manifesta e senza le quali sarebbe inintellegibile. Prima tra le condizioni, per l’appunto, è la distanza tra sé e sé. Immersi in un mondo di possibilità, mondo di cui in quanto esseri umani abbiamo comprensione e a cui attribuiamo significati, subiamo passivamente emozioni veicolanti pensieri e soprattutto valori. Questi ultimi, si manifestano a noi da un punto di vista emozionale già strutturati in una gerarchia assiologica, dettata dal contesto storico e dalla logica delle esclusioni, inclusioni e implicazioni; una volta passati al vaglio del nostro giudizio, tali valori ci interpellano, ci muovono a creare un ideale del nostro sé futuro. Ogni azione compiuta in direzione di quel sé distante, subordinata alla realizzazione del valore ritenuto principale e volta a dispiegare un’intenzione, sarà un’azione propriamente volontaria, e ci permetterà di esperirci nel suo compimento così come nel suo proposito. Laddove l’azione divergesse dall’intenzione e dal giudizio, si potrebbe parlare di debolezza della volontà, che spesso altro non è se non una debolezza del sentire, cioè un non provare più in associazione ad un determinato valore l’emozione che ce lo ha reso manifesto, e perdere in tal modo l’affezione e la motivazione a dispetto della tutela del giudizio sui nostri progetti. Ruolo determinante in questo meccanismo ha il tempo. L’essere umano si percepisce nella sua temporalità, ed è questo che lo differenzia dagli altri esseri viventi. Il sé è rapporto al futuro: pertanto non è il tempo a presupporre un sé, ma al contrario ne è condizione essenziale. Il tempo è vissuto non solo nel modo dell’anticipazione, che ci consente di percepire come ogni azione cambierà la nostra identità per sempre, ma è anche un tempo finito, determinato: è il lasso intercorrente tra la nascita e la morte. L’autore riprende dall’esistenzialismo heideggeriano le funzioni determinanti della morte e dell’angoscia all’interno della progettualità umana. Un Sé dunque che non si perde nel presente, ma che, angosciato dalla possibilità che sola può vanificare tutte le altre (la morte), si “idealizza”, progetta il futuro verso il quale intende dirigersi.

«Se Eva è un inizio, lo è esattamente come ognuno di noi» (4). Questo invece uno dei pensieri ispiratori de La novità di ognuno. Persona e libertà, edito nel 2009 dalla Garzanti, nel quale Roberta De Monticelli, attraverso una rigorosa analisi logica, costruisce una fenomenologia della volontà, scindendo questa complessa nozione nelle sue componenti più semplici. Anche l’autrice milanese opera una ricognizione dei limiti che caratterizzano le concezioni più note e più condivise del volere umano, con un excursus che va dagli stoici fino alle più recenti sperimentazioni di Libet e alle teorie di Searle; e districandosi tra concezioni negative, politiche e positive della libertà, offre come punto di partenza una divisione in tre livelli della stessa:

L1. Libertà è il potere di agire conformemente al proprio volere (e a nient’altro).

L2. Libertà è il potere di determinarsi a un’azione.

L3. Libertà è il potere di essere in accordo con il dovuto.

Un percorso, quello da L1. a L3. che viene sviluppato con dovizia di particolari, ma che qui possiamo solo spiegare come uno sforzo di costruire, sulla solida base della libertà negativa, una libertà che tracci l’identità della persona attraverso le sue scelte (quindi la determini) e che, adeguandosi alle esigenze poste dalla realtà circostante, si orienti verso i valori perseguiti dal soggetto. L1 ed L2 offrono in sostanza le condizioni necessarie al compimento di L3. Ponendo l’esempio di un fumatore che ha il proposito di smettere di fumare ma si accende un’altra sigaretta, l’autrice ci mostra come questi in tal caso sia libero nel senso che ne diamo in L1 e in L2, ma non in L3, perchè

«l’accordo o il non accordo con sé stessi è l’accordo o il non accordo del comportamento volontario effettivo con la priorità di valore che il fumatore riconosce come propria.»5.

Dov’è la volontà in questo schema? La volontà è esattamente quel potere di determinarsi all’azione enunciato in L2. Ed essendo una disposizione dell’agente, che lo determina in quanto essere libero, essa è libera, o non è.

«Quando ci chiediamo se la volontà è libera, è la natura di quel potere detto volontà che qualifichiamo con la parola libera. […] una volontà non può che essere la volontà di qualcuno: la sua, la tua, la mia, la nostra. […] è impossibile interrogarsi sulla natura della volontà senza interrogarsi su quella dell’agente volontario in quanto soggetto di volizioni e azioni.» (6).

Quindi per arrivare alla libertà va definita la volontà, e per definire la volontà libera bisogna dimostrare la libertà. E libertà e volontà sono gli insostituibili elementi di cui consta la nozione di persona. Percorso, quello in direzione dei tre concetti, che sale uno ad uno i gradini dell’argomentazione logica, fornendo tesi, approfondimenti e confutando apparenti eccezioni. I due autori sembrano appartenere allo stesso schieramento, allo stesso diretto o indiretto tentativo di salvaguardia della libertà, attraverso la nozione di volontà.

Tuttavia un’analisi in parallelo dei testi può mettere in risalto accentuazioni e sfumature concettuali specifiche. Libertà, volontà e identità personale sono come abbiamo già detto indissolubilmente legate, ma i due autori arrivano a tracciarne i connotati puntando ad obiettivi diversi: la De Monticelli punta a trovare i presupposti fenomenologici della libertà e della persona, mentre Costa ad evidenziare le strutture trascendentali della volontà. Ne derivano differenze notevoli, anche nella determinazione di molti termini. Partiamo per esempio dal concetto di scelta. Per Costa è una nozione gravida di errori di impostazione, scorrettamente utilizzata.

«Bisogna recidere questo legame, che la tradizione ha spesso istituito tra volontà e scelta. […] In questo caso, sembrerebbe che prima appaiano tanti valori (possibilità) , e che, poi, la volontà debba decidersi per uno di essi. […] I valori si manifestano, nell’atto emozionale, come già gerarchizzati, cosicchè nella volontà non ha luogo alcuna scelta» (7).

Laddove si parli di decidersi tra valori alternativi, del non sapere cosa ha valore per noi, è possibile invece introdurre il concetto di scelta, ma con uno specifico significato: «sciogliere il nodo, e vedere, nel corso dell’esperienza, quale scopo si mostra (corsivo mio) di maggior valore, […] capire meglio che tipo di uomini si vuole essere» (8).

Di contro, uno degli elementi base del saggio demonticelliano è proprio la decisione.

«decidersi è l’atto del volere per eccellenza» (9).

Ma quali sono le differenze tra i due processi che introducono l’atto volitivo?

«I termini “causa di sé stesso” e “autonomia” dobbiamo intenderli seguendo il reperto fenomenico che abbiamo cercato di tracciare finora: cioè non come un inizio assoluto ma come adesione a ciò che si è passivamente delineato come valido nel momento dell’esistenza. […] pertanto, seguendo la nostra ragione intesa come facoltà di sentire i valori e di esplicitarne le relazioni reciproche, diveniamo il fondamento delle nostre azioni» (10).

Una ragione che sente, una passività iniziale. Questo è il primo assunto teorico di Costa. Una passività che però «non allude al determinismo, ma proprio all’imporsi di ciò che ha valore, come condizione di un volere razionale» (11) specifica Costa riprendendo Husserl. Lo strumento attraverso il quale la De Monticelli esplica i primi sviluppi dell’attività volitiva, anche lei attingendo alle tematiche husserliane, è la teoria degli atti. Partendo da una categorizzazione degli atti, che isola la nozione di atto mentale, posta per catturare la «presenza essenziale di un polo soggettivo di qualunque vissuto relativo a oggetti» (12), l’autrice mostra gli ingranaggi di questo marchingegno. Gli atti sono gerarchizzati in atti di base, atti liberi in senso lato e atti liberi in senso proprio.

I primi constano di percezioni ed emozioni: atti che non sono liberi, che pongono il livello dell’oggettivazione evidenziale (primo livello di emergenza della persona) e che per essere ritenuti “adeguati” o “inadeguati” debbono comportare una posizionalità rispettivamente dossica e assiologica (il legame emozione-valore è dunque presente anche qui). In nostro potere è l’accogliere o rimuovere i dati acquisiti come motivi ulteriori di azione, potere che rappresenta il nostro secondo livello di emergenza, quello della gestione della passività, e che è costituito dai suddetti atti liberi in senso lato. Si giunge così alla categoria degli atti liberi in senso proprio, attraverso i quali, motivati da ciò che abbiamo selezionato tra emozioni e percezioni, impegniamo il nostro futuro comportamento.

«Sono quelli che possiamo chiamare atti autocostitutivi : questi sono fonti d’identità personale attraverso il tempo, prendo un impegno nei confronti di me stesso futuro» (13). Eccoci al terzo livello di emergenza: l’emergere temporale della persona sul suo essere presente e passato (cioè il sopravvivere a ogni sé presente).

Di qui vengono formulate due affermazioni:

(L’) Attraverso atti liberi in senso lato emerge una personalità che distingue un essere (umano) intrinsecamente, vale a dire mediante uno stile motivazionale e i contenuti di un percorso di esperienza.

(L”) Attraverso atti liberi in senso proprio, o atti autocostitutivi, emerge un’identità personale che si attesta attraverso il tempo con la responsabilità attuale del sé presente, passato e futuro.

Forte è la somiglianza tra le due teorie. Ma qualcosa suona diversamente. Per quanto la volontà sia qui definita dalla De Monticelli come disposizione agli atti autocostitutivi, agli atti liberi in senso lato viene attribuito uno status che in Costa non si individua facilmente. Gli atti liberi in senso lato sono inseriti dall’autrice nella cosiddetta “zona grigia della spontaneità”, ed hanno un ruolo di notevole importanza nel nostro divenire persone, poiché costituiscono «il fondamento saldo della nostra familiarità col mondo» (14). Tale zona, ben nascosta alla coscienza, è la zona nella quale si costituisce il suddetto stile motivazionale, il cui corretto sviluppo è di cruciale importanza nella nostra esistenza. Qualcosa di assimilabile parrebbe essere la volontà reattiva in Costa, cioè quel livello della volontà nel quale si agisce rispetto alle circostanze determinate.

«Si tratta di una volontà effettivamente eteronoma, in cui il soggetto si perde nei particolari e non li giudica a partire da un progetto complessivo […]. La volontà è qui reattiva perché il Sé si lascia determinare da motivazioni irrazionali, cioè da motivazioni di cui non può dare ragione […]» (15).

Ma a cosa corrisponde esattamente nello schema di Costa lo stile motivazionale di cui parla la De Monticelli? E sussiste nella sua opera il livello di emergenza di (L’) da lei individuato? Allo stesso modo, facendo un piccolo salto indietro per tornare alle fondamenta, potremmo chiederci: è ammessa in Costa la libertà come esplicitata in L2, libertà che costituisce l’essenza del libero arbitrio demonticelliano? Parrebbe di no. Poiché per l’autore le azione volontarie, e quindi realmente libere, sono solo quelle che vertono ad uno scopo che si è posto (o in un certo senso abbiamo posto) come superiore ad ogni altro, mentre la possibilità di divergere dal proposito non è contemplata dal sistema libertario. In Costa vi è «la necessità di non accordare alcun ruolo, nella formazione della volontà razionale, ai motivi non razionali (per esempio alla paura)  […] Se non possiamo addurre ragioni diremo, piuttosto, che il soggetto è stato determinato da motivi oscuri, psichici, riconducibili effettivamente alla sua natura psico-fisica, che la sua azione pur scaturendo da una costrizione interna, non è libera, non scaturisce dall’autonomia. L’esperienza che il soggetto fa della sua azione è pertanto, in questo caso quella di una costrizione, di qualcosa che si è imposto senza essere riconosciuto degno di essere perseguito» (16). Badiamo bene, ciò non implica un dualismo tra ragioni ed emozioni, perché l’emotività contiene una struttura razionale che il nostro giudizio non fa altro che esplicitare. Ma implica che solo una coerente risposta al nostro giudizio costituisce volontà. Al contrario, nella De Monticelli, troviamo la seguente affermazione:

«Si può vivere il proprio stesso volere come una sorta di tirannia. Non c’è dubbio dal punto di vista fenomenologico, che esiste una forma di disperante coazione interiore. Eppure essa non si oppone alla volontarietà del nostro agire» (17). E ancora:

«La circostanza che io non approvi una mia decisione, che me ne senta responsabile e che al contempo la disapprovi e mi disapprovi, implica che sono stato infine io a prenderla. Implica cioè appunto l’ammissione di quel tanto di libertà che tutti i filosofi riconoscono come condizione necessaria della responsabilità morale e delle azioni» (18).

Due affermazioni contrastanti, che costituiscono probabilmente la sostanziale differenza tra le due fenomenologie. In entrambe il senso di colpa ha un ruolo riconosciuto, ma se nell’autrice è prova di responsabilità e volontarietà, in Costa è sì “una struttura razionale” (19), ma lo è in quanto reazione del sé a quella  che definisce come un’azione “incontinente”. La volontà in senso pieno e la libertà intesa come in L3 (cioè come accordo con il dovuto) sono concettualmente raggiunte da entrambi gli autori. Ma il salto dal bianco al nero di Costa, oltre a lasciare fuori la cosiddetta zona grigia, lascia monca una definizione: quella del Sé, non quello cui si tende, ma quello da cui si progetta in funzione di un obbiettivo futuro.

«Sarebbe sbagliato pensare che “l’azione presuppone un sé”.» (20).

Chi è il soggetto che tende al Sé futuro? Oltre alla costituzione psico-fisica, storica e socialmente contestualizzata, vi è un “polo soggettivo” con la personalità e lo stile motivazionale enunciati nella De Monticelli? Gli atti volontari precedentemente compiuti, hanno lasciato traccia nel Sé? Il sé costiano si percepisce nelle sue azioni, si esperisce allo stesso modo in cui «un uomo conosce la posizione dei suoi arti senza osservarla» (21). Ma non si profila affatto nitidamente.

«Se nel sentirci situati sentiamo il nostro poter-essere e se il nostro poter-essere costituisce il nostro Sé, allora l’identità dell’essere umano dobbiamo pensarla in maniera un poco diversa da come pensiamo l’identità di una pietra: «La medesimezza del se-Stesso esistente autenticamente è separata da un abbisso ontologico dall’identità di un io che permane nel variare delle sue esperienze vissute». Questa medesimezza non va intesa come la somma delle nostre esperienze, poiché non siamo la somma di tutti i vissuti che nel teatro si presentano. Il nostro sé è invece di natura temporale. Pertanto, assumere come principio ontologico l’essere presente diventa un modo per interdirsi l’accesso alla comprensione del modo di datità del soggetto del volere» (22).

Inoltre, i voluti dell’individuo, sebbene siano posti ad un altro livello rispetto ai semplici vissuti di questo, permangono in qualità di “valori decaduti” che ne tracciano una storia, ma non una personale fisionomia. Dunque cosa ne è dell’uomo che non agisce più in base ai suoi valori e si è perduto nella quotidianità, nel presente? Costa contempla questa ipotesi:

«Dove si smarrisce il senso di sé stessi come fatti di tempo, come un progetto lanciato o da lanciare nell’esistenza, lì si stabilisce un vuoto su cui le condizionalità psicofisiche possono innestarsi […] Nell’estrema vicinanza all’attimo che viviamo vi è qualcosa di potentemente dispersivo, di nebbioso […] lì è la distanza stessa tra sé e sé a venire meno» (23). In tal caso, in Costa, verrà meno anche il sé, che come abbiamo visto è lo scarto tra sé e sé.

Di contro nello schema demonticelliano, il potere causale iniziale, l’unicità della persona e, appunto, la novità di ognuno, costituiscono l’insostituibile ossatura dell’agire libero.

«Che cosa costituisce l’identità di una persona, se deve essere più che la sequela dei suoi atti o la storia dei suoi accidenti […]? E se non può essere una sostanza separabile da questi atti, da questi accidenti, da tutti i fenomeni della persona, dal corpo e dall’aspetto che ha, dal suo crescere e mutare, dalle circostanze in cui vive, dagli incontri che fa […]? E se, tuttavia, deve esistere come qualcosa di diverso dall’identità biologica più quella sociale (status) della persona?» (24).

La persona nel paradigma demonticelliano è un intero le cui parti sono indivisibili tra loro, un intero la cui unicità è costituita dal fatto che «finchè vive, vive in formazione» (25). Attraverso lo strumento della libertà, precedentemente mostrato nei suoi più sottili meccanismi, la persona si definisce, all’interno del connaturato contesto contingente. Attraverso la distinzione in due modelli identificativi (modello anagrafico e modello ecceità), e la formulazione di due criteri di identità essenziale (epistemologico e ontologico), l’autrice milanese propone una serie di splendide definizioni di persona.

(P) Una persona è un produttore di essenza nuova da circostanze;

o una macchina per trasformare le contingenze in un destino,

o una macchina per interiorizzare l’esistenza, per trasformarla in

essenza personale.

O un trasformatore di corpo in anima. (26)

La De Monticelli asserisce comunque di aver offerto solo cenni per una definizione completa di identità personale, e nella speranza che la ricerca prosegua e completi il lavoro, pone una Condizione di Adeguatezza per una teoria dell’identità personale:

«(CA): Una teoria adeguata dell’identità personale deve comportare l’esistenza di una relazione fra identità anagrafica (o numerica) e personalità (o identità essenziale), che sia certo meno forte dell’equivalenza logica ma più forte dell’equivalenza estensionale (o nel solo modo attuale)» (27).

Condizione che non va probabilmente nella direzione dell’indagine di Costa. Del resto non era ad una teoria dell’identità personale che questi puntava, ma a strutture trascendentali che sono state rintracciate ed esplicate esaurientemente. I testi su cui si è riflettuto sinora, La novità di ognuno. Persona e libertà e Distanti da sé. Verso una fenomenologia della volontà, percorrono due strade parallele su veicoli somiglianti ma sostanzialmente differenti, ognuno prefiggendosi la sua meta. Tuttavia, essi presentano una caratteristica comune: l’accuratezza analitica, che colloca i due docenti e pensatori tra i più validi ricercatori, in ambito di filosofia morale, oggi operanti in Italia.

1 Distanti da sé. Verso una fenomenologia della volontà, V. Costa, Jaka Book 2011, p.62.

2 Ivi p.26.

3 Ivi pp. 14-15.

4 La novità di ognuno. Persona e libertà. R. De Monticelli, Garzanti 2009, p.12.

5 Ivi p. 121.

6 Ivi p. 143.

7 V. Costa, op.cit., pp. 124-125.

8 Ivi p.126.

9 R. De Monticelli, op.cit., p.147.

10 V. Costa, op.cit. p. 135.

11 Ivi pp. 128-129.

12 R. De Monticelli, op.cit., p. 186.

13 Ivi p. 201.

14 Ivi p. 226.

15 V. Costa, op.cit. p. 89.

16 Ivi pp.114-115.

17 R. De Monticelli, op.cit., p.115.

18 Ivi p.117.

19 V. Costa, op.cit., p. 129.

20 Ivi p.84.

21 Ivi p.77.

22 Ivi p.78.

23 Ivi p.133.

24 R. De Monticelli, op.cit., p.356.

25 Ivi p.367.

26 Ivi p.368.

27 Ivi p.338.

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7 commenti a Sulla libertà del volere. Vincenzo Costa e Roberta De Monticelli: due analisi fenomenologiche a confronto

  1. Stefano Cardini
    mercoledì, 29 Giugno, 2011 at 06:29

    Non aggiungo nulla alla bella analisi comparativa di Carla Maria. Metterei solamente in evidenza un punto più specifico in cui le analisi di Costa e De Monticelli divergono e che a mio parere avvalora ulteriormente la cornice da lei offerta. Non ho con me i testi, quindi vado a memoria. De Monticelli critica esplicitamente il concetto aristotelico di “debolezza della volontà”, trovando fenomenologicamente più fine la nozione, già agostiniana, di “conflitto tra volontà”. Costa invece pare ricorrere nella sua analisi soprattutto al primo. Questo accentua in De Monticelli il tema della responsabilità dell’io, chiamato in modi che possono essere anche tragici a scegliere tra ragioni confliggenti emerse come motivi possibili d’azione sul piano dell’affettività. È in questi snodi esistenziali che per De Monticelli l’io “plasma” se stesso, rendendo conto a se stesso e agli altri delle proprie scelte. In Costa l’ordine assiologico è invece qualcosa che in qualche modo sembra imporsi – prima affettivamente quindi razionalmente – all’io, il quale può acconsentirvi o meno solo per difetto di volontà, ovvero, di ragione. Le effettive determinanti della scelta, come pure dell’ordine assiologico che alla fine prevale, paiono così sfumare indietro, verso una dimensione storica profonda di cui i l’io in definitiva non è il vero protagonista. C’è più Heidegger e, benché possa apparire strano, più Fichte in Costa. De Monticelli, diversamente, sembra offrire più chance all’individuo che si fa carico di essere interprete, passo passo, del proprio destino. In Costa la storia e le ragioni che in essa si manifestano gravano sull’io in modo, è vero, ontologicamente tragico. Ma forse, proprio per questo, lo sollevano un poco dall’essere il vero artefice della propria esistenza.

  2. Guido Cusinato
    mercoledì, 29 Giugno, 2011 at 08:02

    L’apparizione della attenta recensione di Carla Maria Giacobbe mi spinge ad esplicitare alcune riflessioni provvisorie che erano sorte dalla lettura dei due testi, entrambi molto belli, di Roberta De Monticelli e di Vincenzo Costa. Implicitamente ambedue fanno propria la tesi di una articolazione valoriale come sfondo in relazione al quale si costituisce l’individuo, tesi sviluppata all’inizio del Novecento in particolare da Max Scheler. Ma mentre De Monticelli articola questa relazione nel senso di un vero e proprio processo di posizionamento che trova il proprio fulcro in un altro topos centrale del pensiero scheleriano, quello di “persona e atto”, Costa, più sensibile al pensiero heideggeriano, analizza questa relazione in riferimento a una fenomenologia della volontà. Naturalmente condivido pienamente l’idea secondo cui la volontà presuppone una articolazione valoriale. La mia perplessità è relativa al fatto che Costa forse non riesce a compiere del tutto il passaggio, annunciato a pagina 101, “dal possibile alla gerarchia dei valori”. Afferma giustamente che la scelta della volontà non può essere fra possibilità equivalenti, ma poi, se non fraintendo, reintroduce l’ontologia del possibile nella stessa gerarchia dei valori: «le possibilità sono strutturate in maniera gerarchica» (Costa, 2011, 101). In questo modo però si toglie spazio alla creatività della persona: se così fosse che ne è della mia libertà? Se mi trovo di fronte non solo i valori, ma anche l’ordine concreto di priorità delle possibilità tale ordine è qualcosa che s’impone prima affettivamente e poi riflessivamente senza lasciarmi molto spazio. A mio avviso la libertà non è nel dare il proprio assenso a un ordine gerarchico di possibilità già date, ma nel far erompere attraverso l’atto una nuova possibilità. La libertà consiste nel determinare le condizioni per l’apparire di una possibilità nuova. Quello che è predato non è allora la gerarchia delle possibilità, ma solo la presa di posizione individuale nei confronti della strutturazione valoriale, cioè il mio ordo amoris. La costituzione dell’identità personale non si limita a un momento riflessivo di autointerpretazione, ma ha bisogno dell’atto. Ho già espresso altrove la tesi che l’atto è la cellula della persona e che ogni atto libero è un ulteriore tassello nella delineazione della fisionomia di una persona.
    Per concludere una breve riflessione sul titolo del libro di Costa “Distanti da sé”. È un titolo che mi è piaciuto subito. Leggendolo mi ero chiesto se con questa presa di distanza da sé si potesse intendere anche una trascendenza da se stessi, nel senso di un una “messa fra parentesi dell’ego” (nel senso di una riduzione fenomenologica che ha presente il concetto platonico di “katharsis”). Se cioè dietro ci fosse l’idea che l’identità personale potesse articolarsi solo negli spazi aperti dal gesto della trascendenza da se stessi (ammetto che qui penso all’ultimo Platone, quando ritiene che il maggiore di tutti i mali non sia l’influsso del corpo, ma l’eccessivo amore di se stessi).
    La prospettiva in realtà è diversa. La maturazione della vocazione personale è pensata da Costa nell’orizzonte della volontà pura di Cohen. In questa prospettiva fino a che punto è possibile evitare il concetto di un modello compiuto di ciò che si deve diventare, nel senso delle ideae ante res? È solo attraverso un vero atto di trascendenza nei confronti della propria autoreferenzialità che si possano dischiudere quegli spazi in cui è possibile dare forma alla propria identità personale. La mia idea di fondo è che sia possibile costituire la propria identità personale, e quindi realizzarsi, solo in senso eteropoietico, cioè solo negli spazi che si dischiudono nell’atto di trascendere la propria chiusura egocentrica grazie al contagio di una esemplarità altrui. Altrimenti, senza l’esemplarità, il rischio è quello di voler raggiungere questa trascendenza da se stessi tirandosi su per il codino.
    Come dicevo sono impressioni provvisorie che devo ancora rimeditare, le offro così perché il nuovo libro di Costa mi ha colto mentre ero ancora intento nella lettura di quello precedente.

  3. lunedì, 4 Luglio, 2011 at 22:58

    Vorrei in primo luogo ringraziare Carla Maria Giacobbe per questa attentissima e articolatissima recensione comparativa. Per quanto mi riguarda, trovo assai fedele la rappresentazione che l’autrice dà dei pensieri che ho cercato di esprimere. E per quanto riguarda Vincenzo Costa, che mi appresto a leggere, mi sembra un’ottima introduzione che focalizza subito il punto centrale – ma qui dovrebbe valutare con più cognizione di causa l’autore.
    Mi permetto quindi di intervenire sulla base di questo testo, e prima di aver completato la lettura, appena iniziata, del libro di Enzo.
    Se posso esprimere in altri termini il punto fondamentale che sembra distinguere le nostre analisi: la distanza da se stessi – che è, come ben chiarisce Carla, il progetto di sé che sottende in definitiva molte (per non dire tutte, che mi sembra eccessivo) azioni e decisioni – è (heideggerianamente?) il fenomeno in cui appare il modo d’essere (o esser coscienti) che chiamiamo volontà. Volontà come un modo, diciamo rapidamente, di proiettarsi nel futuro – questo, pur tralasciando la ricchezza di sviluppi che certamente a questa idea si associa, sembra essere l’essenziale del volere per Costa. Mentre a me questo sembra solo un aspetto del volere, che io ho legato essenzialmente non tanto alla temporalità (anche) quanto (più specificamente) all’individuazione. Ciò che la tradizione ha chiamato la facoltà di volere (che non saprei come definire se non è la disposizione di cui le decisioni, esplicite o implicirte, sono attimi) è parso allora come l’ultimo, più consapevole livello del vivere che ci individua: il prendere posizione, cioè l’avallare o respingere come motivi di ulteriore esperienza o d’azione i dati di fatto e di valore, selezionati da un ordine di priorità anch’esso modificabile, che incontriamo – selezionando così anche il tipo d’esperienza che faremo, e la persona che diventeremo.
    Ben si capiscono le dispute millenarie sul libero arbitrio, in presenza di questo fenomeno: tutto il male e tutto il bene che portiamo al mondo. Paradossalmente, aggirare hedeggerianamente la questione della libertà – ecco una domanda che vorrei fare a Enzo – non sarà il modo filosofico di fare come la maggior parte dei tedeschi ha fatto al tempo di Heidegger, e la maggior parte degli italiani ha fatto durante il quasi ventennio berlusconiano, cioè consentire e far funzionare un “sistema” (determinati costumi, determinati pregiudizi ecc.) senza neppur essere consapevoli che lo si sta appunto tenendo in vita, perfino quando ci se ne lamenta? Le decisioni “libere in senso proprio”, cioè veramente libere, ci costringono a uscire dalla zona grigia della spontaneità, che è in definitiva quella della conformità o comunque dell’automatismo, e ad assumersi la responsabilità del proprio essere e vivere e agire. La tradizione dice che condizione perché la nozione di responsabilità abbia senso è il libero arbitrio. A me sembra di fare un passo oltre, e dire che questa condizione è l’individuazione, di cui il cosiddetto libero arbitrio è parte o modalità essenziale, purché correttamente intesa…
    Ma senza responsabilità (di quello che si fa di se stessi, in ultima analisi) veramente tutta l’esperienza del bene e del male è illusoria. E con essa l’etica, il diritto, la politica. Se così fosse: non sarebbe questo un prezzo troppo alto da pagare alla liquidazione heideggeriana della persona?

  4. Vincenzo Costa
    giovedì, 7 Luglio, 2011 at 17:12

    Vorrei innanzitutto ringraziare vivamente Carla Maria Giacobbe per avere preso in considerazione il mio lavoro, e per la sua lettura attenta e allo stesso tempo generosa. Credo abbia colto i punti essenziali, e anche i suoi limiti. Limiti che vengono giustamente messi in luce anche dalle letture attente di amici quali Stefano, Guido e Roberta, e che mi spingono ad approfondire ulteriormente alcune questioni, e a precisarne altre, ma dando al tempo la possibilità di lavorare, dato che quello che ho cercato di presentare in Distanti da sé è, in fondo, e cerco di dirlo già nell’introduzione, un lavoro preparatorio e preliminare, che si muove e si vuole muovere all’interno di certi confini, guardandosi dall’oltrepassarli.

    Vorrei allora, dandomi il tempo di riflettere con più calma su quanto emerge dalle osservazioni di Carla Maria e degli altri amici, cercare soltanto di evidenziare maggiormente questi limiti, e forse accennare al perché ho voluto mantenermi al loro interno.

    1) In primo luogo, ho cercato di delineare le linee elementari di una “fenomenologia” della volontà, senza sconfinare in una metafisica della volontà. Con questo non voglio minimamente usare il termine metafisica in un senso negativo. Semplicemente, ho cercato di fare emergere con quale senso possiamo usare il termine volontà, e perché questo senso non è riducibile al mero desiderio o a meri impulsi. E tuttavia, ho cercato di evitare la domanda classica: Esiste la libertà del volere? Per diverse ragioni. La prima è che non ero e non sono in grado di rispondere, se questa domanda allude a un volere come inizio assoluto, come atto che interviene nella vita personale quasi senza ragioni. La seconda è che, dal punto di vista metodologico, per giungere a quella domanda (e io credo a una sua completa riformulazione, dato che la posizione classica della domanda potrebbe essere un tranello da cui tenersi alla larga) dobbiamo prima avere chiaro il senso con cui usiamo il termine volontà. Da questo punto di vista il libro cerca di mostrare che il termine volontà mantiene un senso peculiare e determinato senza necessariamente postulare un soggetto o un atto di volontà che accade come un’interruzione netta del flusso di coscienza. Dunque, che la volontà si manifesta nel tempo, e senza postulare un atto sottratto al tempo.

    2) Certo, questo indebolisce un poco il senso di volontà o di libertà, che diviene una libertà situata, e il Sè un Sé storico, che cerca se stesso nella storia, a volte attraverso errori, sviste e trasformazioni. Non so se questo indebolisca il concetto di responsabilità. Da un certo punto di vista penso che il primo atto di responsabilità consiste forse nel prendere coscienza della nostra storicità. Per questo vorrei dire a Roberta: non so se aggiro la questione, e su questo punto è più a Husserl che mi ispiro che a Heidegger, ma mi sembra che la responsabilità cominci con il prendere coscienza che prendiamo posizione, come dici tu, sempre a partire da un ambito di possibilità, da un orizzonte emotivo e intellettuale, che certo non ci detemina, e questo è il punto per cui credo che il determinismo sia una cattiva metafisica, ma certamente ci situa. Agire, prima di essere un atto della spontaneità, significa rispondere. È vero: dobbiamo scegliere, ma lo facciamo sempre (nella nostra vita individuale e in quella storica e collettiva) essendo situati. Da questo punto di vista, alludendo a un tema su cui sto cercando di lavorare ma che non mi è del tutto chiaro, penso che la responsabilità consista innanzitutto nel non piantare in asso le proprie precedenti decisioni, anche quelle nella quali non ci si riconosce più. Se in passato abbiamo deciso di fare delle cose, perché pensavamo che fosse giusto farle, il corso dell’esperienza ci può insegnare che ci eravamo sbagliati, che dobbiamo cambiare la nostra presa di posizione, che avevamo trascurato un valore importante o non eravamo capaci di scorgerlo. Vorrei dire: la volontà e la libertà sono un esercizio della ragione, una capacità di aderire alle ragioni che mi si mostrano, e queste ragioni si fenomenizzano processualmente, gradualmente. Per questo, la volontà è anche una ricerca di sè. Decidere, prendere posizione, significa sempre anche esporsi all’errore. È l’esperienza a guidare la volontà, e se le cose stanno così allora non possiamo saltare oltre la nostra ombra. Ma su questo punto, in effetti mi sembra che le nostre analisi viaggino su un binario assai simile, persino nella forma espressiva.

    3) Un ultimo punto vorrei appena accennare, relativo al nesso possibilità-valori, che è Guido a menzionare. Si, in effetti alla fine i valori sono, nell’impostazione che cerco di suggerire, possibilità gerarchizzate, e quindi un poter essere che il sé riconosce come desiderabile. Ed in effetti, Husserl cerca di costruire un’etica formale e non materiale dei valori che io riprendo e faccio mia. Non so se sia possibile un’etica materiale dei valori, ma mi sembra che in un lavoro preliminare ci si debba chiedere: a quali condizioni qualcosa è un valore? Che cosa significa per il sé che qualcosa è un valore? Invece, almeno in questo lavoro non sono voluto entrare in una discussione circa i valori che dovrebbero guidare la volontà. Del resto, questo è un problema di filosofica morale o di etica, mentre il testo vuole essere un semplice testo di descrizione dell’esperienza.
    Ed è vero, per le ragioni cui accennavo prima, cerco di mantenermi lontano da una discussione sulla nozione di “persona”, che rimane per me ancora un concetto difficile da comprendere, di cui bisognerebbe prima decostruire la storia, mettere in luce come si è costituito, quali trasformazione ha subito. Un lavoro lungo rispetto al quale non penso di avere le coordinate necessarie. E comunque, la questione è sempre: è possibile trattare il concetto di persona in maniera fenomenologica, cioè descrivendo strutture dell’esperienza? Per il momento non penso, o almeno io non ne sono capace.

    Tuttavia, su un punto, e mi sembra quello fondamentale e decisivo, sono d’accordo con Guido: il sé è chiamato a prendere posizione rispetto a valori, ma questi non sono meri oggetti, poiché i valori, nella storia, si manifestano attraverso esempi, attraverso individui che li incarnano, li testimoniano e che, pertanto, interpellano il soggetto e lo mettono in movimento. Vorrei dire: l’altro mette in movimento il soggetto verso se stesso, l’altro sarebbe la prossimità stessa di me a me, e forse, allora, la persona sarebbe, descrittivamente, la presenza dell’altro in me. Se questo accade, se in generale qualcosa di simile può veramente accadere, se non è solo una delle illusione attraverso le quali agli esseri umani piace pensare a se stessi, allora l’esemplarità sarebbe la condizione dell’essere persona, o la persona sarebbe la capacità di rispondere prendendo posizione, come forse anche Roberta sarebbe incline a pensare.

    Come dicevo, si tratta solo di pochi cenni disordinati, che cercano di inserirsi in una discussione che sarebbe bello proseguire, dandosi il tempo di lasciare agire quello che gli altri pensano dentro di se stessi. Da parte mia posso solo ringraziarvi per le tante sollecitazioni, che mi aprono a nuovi problemi che, si, forse, ho cercato troppo violentemente di escludere per delimitare un campo di lavoro più controllabile.

  5. Corrada Cardini
    giovedì, 7 Luglio, 2011 at 18:34

    Mi chiedo, da donna della strada, a chi pensiamo quando si parla di io, di persona, quando si parla di volontà individuale (debole o in conflitto) e di controllo sul proprio destino. Io vedi miliardi di individui senza connotati, che trascinano un’esistenza mirata quasi esclusivamente a sopravvivere alle aggressioni esterne, di natura sociale o naturale, che sono plasmati dal tempo e dal luogo in cui casualmente sono stati concepiti e destinati a costruirsi come esseri viventi, geneticamente destinati a fare quanto è in loro potere per garantire un futuro alla propria linea ereditaria e alla specie in genere. Tra questi alcuni riescono ad alzare la testa, guardare oltre, formulare e realizzare strategie efficaci e magari vincenti. Ma non sempre questo significa che le loro scelte miglioreranno le condizioni della specie o della loro comunità, anche questo, anzi, è spesso un effetto imprevisto, casuale o secondario rispetto ai motivi di fondo che hanno guidato l’azione o il pensiero, o entrambi. E allora come teorizzare la possibilità certa che ogni uomo sia in grado di esercitare volontà e ragione? Ma io non sono che una che passa di qua…

  6. domenica, 10 Luglio, 2011 at 15:00

    Una che passa di qua, e che tuttavia pone una questione cruciale. Come teorizzare questa possibilità certa, chiedi, Corrada? Ebbene, ti invito – come invito tutti i frequentatori del nostro Lab – a leggere il libro di Nando dalla Chiesa, La convergenza – Mafia e politica nella Seconda Repubblica, Melampo Editore-. Nessuno, vi prego, mi obietti che la sto buttando in politica – quel libro è una gigantesca raccolta di fatti antropologici, e insieme un trattato sull’esistenza, la volontà, la libertà, le scelte, il crimine, la rettitudine e l’eroismo. Corrada, vi troverai argomenti numerosissimi, alcuni possenti altri sottili, per sostenere quella certezza, e anche per riempire di vivido contenuto quella nozione di persona che – qui mi rivolgo a Enzo Costa – non vedo perché sia così difficile da pensare, dato che il sinonimo del termine quale io (e la maggiore parte di noi) lo usa è “agente volontario e razionale”.
    Ma se debbo esplicitare l’argomento che io uso, è questo. Io, in quanto dico no alle vigliaccate e ai soprusi, credo di essere in grado di esercitare volontà e ragione. Ma non mi riconosco assolutamente alcuna peculiarità, soprattutto alcuna speciale virtù rispetto alla maggiotr parte degli umani miei simili. Ergo…

  7. Carla M. Giacobbe
    domenica, 10 Luglio, 2011 at 16:22

    Innanzitutto vorrei ringraziare di cuore la redazione per aver pubblicato questa mia recensione, gli interessati per l’attenzione che le hanno dedicato, e tutti i commentatori per i complimenti fatti, sono a dir poco onorata.
    Vorrei ringraziare il professor Costa per l’approfondimento qui fatto della questione e per i chiarimenti gentilmente dati, e dirgli che il discorso del “non piantare in asso le precedenti decisioni” è esattamente ciò che nella lettura che ho fatto del suo testo risulta non ben specificato perché, come ha spiegato, posto non al centro dell’indagine. Leggerò con piacere i futuri sviluppi della questione, sempre tanto complessa quanto avvincente, proprio per la possibilità di esperirla in ognuno di noi. Ovviamente ringrazio anche la professoressa per le sue parole e mi approprio del consiglio dato a Corrada Cardini sul libro di Nando dalla Chiesa! E se posso vorrei dire che penso che anche se la si buttasse in politica, sarebbe soltanto un modo per calare concetti che possono sembrare tanto fumosi e impalpabili nella “situazione” personale o ancora meglio a tutti comune, rendendoli finalmente più corposi.
    …ergo, è bello valutare quante e quali possibilità abbiamo, per utilizzare volontà e ragione a tutti appartenenti, e quanto la pratica vada incontro alla teorizzazione.

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