Analisi politica della lettera di Trichet-Draghi (parte seconda)

lunedì, 17 Ottobre, 2011
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Dobbiamo interpretare la famosa lettera di Trichet-Draghi come una fase di una trattativa, del tipo che il FMI instaura con i paesi che ad esso ricorrono per dei prestiti in valuta, o come un ordine, un tentativo di richiamare il governo italiano all’attuazione di impegni liberamente assunti in sede comunitaria? Forse un po’ tutti e due, ma certo, se si trattasse del secondo, o anche del secondo, la Commissione Europea, non la BCE, sarebbe stata l’organo adatto. Questo è anche il parere dell’economista Franco Bruni in un suo interessante articolo “La BCE deve tornare a fare la BCE” nella Stampa del 12 corr. La questione è rilevante non solo per capire la natura dell’atto, ma anche per identificare la natura politica dell’organizzazione Comunità Europea che si viene costruendo. Questo aspetto è il tema, oltre che dell’articolo di Franco Bruni, anche di Barbara Spinelli, la nostra più appassionata e lucida europeista, in “I padroni dell’Europa”, nella Repubblica dello stesso giorno. La Spinelli si chiede se non possa sembrare che vi sia un deficit di democrazia in un’istituzione –la Comunità Europea – che procede esautorando i governi, sino a dettare al nostro addirittura la tecnica legislativa da adottare nell’attuazione delle sue prescrizioni. Ora anch’io nel mio brevissimo pezzo citavo l’ingiunzione di procedere per decreto legge, con una ben precisa tempistica (il decreto era da varare all’inizio di Settembre, e ratificare alla fine), come un aspetto alquanto sconcertante della lettera. Per me era però –ed è- un segno lampante dell’astrattezza tecnocratica del duo Trichet-Draghi. Sviluppando un po’ questa argomentazione, mi riuscirà, spero, di rispondere alle domande e/o obiezioni postemi dai colleghi Zhok e de Monticelli.

Come tutti sanno, il rapporto Debito/Pil ha un numeratore, il Debito, e un denominatore, il Pil. Per non far crescere il Debito bisogna azzerare il deficit del bilancio pubblico, e questo si fa con misure fiscali: tagli di spesa, aumenti di imposte. Queste misure possono essere episodiche o permanenti. Ad esempio la graduale rimozione delle pensioni di anzianità, un’istituzione che è un unicum in Europa e forse nel mondo, avrebbe degli effetti permanenti sulla spesa pubblica. Per far aumentare il nostro Pil e la nostra produttività del lavoro, lamentevolmente stagnanti da almeno l’inizio del secolo, vi è un certo accordo tra gli economisti che servono delle riforme strutturali che riguardano il mercato del lavoro, i servizi professionali, i servizi pubblici locali, la pubblica amministrazione. Nella lettera del duo vi sono indicazioni piuttosto precise che riguardano sia il numeratore, sia il denominatore. Vi sono dunque delle prescrizioni ispirate all’ortodossia finanziaria (al punto 2 della lettera) e delle prescrizioni alquanto più ambiziose di riforme economiche di ampio respiro (al punto 1 della lettera). I nostri titoli pubblici sono sotto attacco, un attacco non meno insidioso perché strisciante. Il presupposto per adottare dei provvedimenti legislativi d’urgenza dunque c’è. La richiesta di procedere con un decreto-legge non è di per sé infondata. Ma per natura loro, le riforme di ampio raggio del punto 1) della lettera, su cui Draghi insiste nelle sue Relazioni della Banca d’Italia da parecchi anni, richiedono un’attività di governo convinta, continuativa, sistematica, di molti mesi, forse di anni. Non dunque dei soldi freschi da ottenere da un ennesimo condono “per finanziare lo sviluppo”, ma una prolungato impegno legislativo e amministrativo, che potrebbe ben essere “a costo zero” per il bilancio pubblico. Credo che nessun governo, per quanto volonteroso, sarebbe in grado di realizzarle tutte in 5 anni. D’altra parte, il governo italiano non condivide la diagnosi e la terapia di Draghi per l’Italia. Per il governo non c’è affatto bisogno di tali riforme. Anche se le condividesse, è dubbio che avrebbe degli uomini con le capacità per realizzarle. I membri di questo governo, con rare eccezioni, non sono personalità politiche con vero desiderio e capacità di governo. E non è escluso che se pretendessero di tentare di realizzarle, peggiorerebbero la situazione invece di migliorarla: vedi il famigerato art. 8 inserito nel decreto-legge dal Ministro Sacconi, che sospinge il nostro disastrato mercato del lavoro ancor più verso l’età della pietra di quanto già sia.

Dunque, le preoccupazioni della Spinelli sono forse eccessive. La Comunità Europea non può dirci di ripristinare l’ICI prima casa, perché sarebbe un’imposizione troppo specifica, anche se di assoluto buon senso. Sarebbe facile farla passare per un’indebita intromissione. E la Comunità Europea non può imporci di riformare il nostro mercato del lavoro, perché questo è un obiettivo troppo generale, difficilmente articolabile in un’unica serie di passi precisi controllabili, e inoltre perché il governo non lo condivide. Da questo punto di vista, è già un miracolo che il governo abbia accettato di riportare entro la presente legislatura l’obiettivo dell’azzeramento del deficit del bilancio pubblico, certamente politicamente costoso per il principale partito di maggioranza. Il duo un parziale successo con l’invio della lettera l’ha ottenuto.

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4 commenti a Analisi politica della lettera di Trichet-Draghi (parte seconda)

  1. Guido Cusinato
    lunedì, 17 Ottobre, 2011 at 19:02

    Non mi sembra un miracolo: il governo ha deciso di cambiare linea perchè lo spread con il bund tedesco stava schizzando fino ad arrivare all’inizio di agosto a 400 punti (e ora ci stiamo riavvicinando). La lettera era solo puro ornamento. O in altri termini: il problema non mi sembra la lettera ma un governo che non sa governare l’economia. Una nave di capitani a tempo perso senza nessuno al timone.

  2. Claudio
    giovedì, 20 Ottobre, 2011 at 11:51

    cit. “E la Comunità Europea non può imporci di riformare il nostro mercato del lavoro, perché questo è un obiettivo troppo generale, difficilmente articolabile in un’unica serie di passi precisi controllabili, e inoltre perché il governo non lo condivide”..

    Non solo la “BCE” non può imporcelo, ma non ha nessun diritto e nessuna competenza per farlo, per riformare il mercato del lavoro occorre in prima istanza che si instauri un tavolo di lavoro (studio, analisi, ipotesi, … ) tra esponenti governativi (possibilimente esperti in materia di giurisprudenza del lavoro) e parti sociali (possibilmente esperti delle realtà e delle problematiche lavorative, componente che sta venendo sempre meno nei vertici di certe sigle), dunque,un piano che richiede parecchio tempo, la convergenza di componenti diacroniche e sincroniche (riguardo per esempio alle componenti diacroniche gli attori dovrebbero conoscere a fondo la storia delle imprese).

    In conclusione, per fare politiche lavorative serie ed innovative, servono persone competenti e preparate, non uno come Sacconi, per intenderci.

  3. Giacomo Costa
    giovedì, 20 Ottobre, 2011 at 15:20

    Ringrazio gli autori di entrambi gli interventi.
    Evidentemente, sono in molto maggior sintonia con il secondo.
    Se il governo si è indotto a fare quel poco è perché la BCE dispone di un potere effettivo, quello di controllare, in una certa misura, il corso dei titoli pubblici italiani. Dunque la lettera non può essere “solo ornamento”. Così, a mio avviso è sorprendente la misura, modesta ma non nulla, in cui il governo italiano ha accettato le prescrizioni contenute nella lettera. Infatti se, come si può ipotizzare, la BCE agisce in supplenza della Commissione, non può lasciar andare a fondo l’Italia, perché c’è il rischio che con l’Italia possa essere travolta tutta la zona dell’euro. A differenza di Barbara Spinelli, io invece di allarmarmi per le supposte imposizioni, o intromissioni, della BCE, proponevo la tesi che tale potere è piuttosto limitato. Non solo dal fatto che la BCE può spingere la sua pressione sul governo italiano misurando gli acquisti di titoli pubblici solo fino a un certo punto, ma anche dal fatto che le sue richieste di riforme più sostanziose possono essere stravolte e diventare per il governo italiano un alibi per fare quello che avrebbe fatto comunque: nuovi condoni, nuove aggressioni predatorie all’ambiente, tutto quello che, in aggiunta all’art. 8 del decreto di Settembre, ci sta preparando con il nuovo “decreto sviluppo”.

  4. Guido Cusinato
    lunedì, 14 Novembre, 2011 at 18:04

    La lettera è puro ornamento nel senso che l’azione che conta è il potere della BCE di comprare o meno i titoli di stato italiano. A confronto scrivere e ricevere lettere non conta nulla. Detto questo concordo con Giacomo Costa quando osserva che invece di allarmarsi per le supposte imposizioni, o intromissioni, della BCE, si tratta di dare più potere politico all’Europa della moneta comune. Quanto alle riflessioni della Spinelli mi sembrano astratte: noi viviamo già in una semi-democrazia perché dove non c’è pieno pluralismo informativo non c’è vera democrazia. Quindi una intromissione della BCE in una semi-democrazia già malata non è necessariamente antidemocratica. In ogni caso non me la sento di stare vicino a un’area di pensiero contingente alla filosofia di Ferrara, quando la settimana scorsa al Teatro Manzoni parlava di un “partito dello spread intenzionato a ribaltare la democrazia in Italia”. O la Daniela Santanchè, che custode della Costituzione, avverte: “Non ce ne staremo a guardare mentre cancellano la volontà del popolo sovrano”. O del Sallusti che dà del criminale a Monti.

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