Diventare se stessi. Identità della persona e senso dell’esistenza nell’ultimo libro di Andrea Zhok

domenica, 20 Gennaio, 2019
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Un libro come non ne escono tanti. È questo il primo commento che mi è venuto di fare terminata l’ultima pagina di Identità della persona e senso dell’esistenza, l’ultimo lavoro di Andrea Zhok, edito da Meltemi.

Già la mole di oltre 360 pagine segnala l’ambizione dell’impresa, che nel titolo sembra, da un lato, guardare al tema dell’identità, molto battuto dalla tradizione analitica anglosassone; dall’altro, con quel richiamo esplicito al senso dell’esistenza, pare piuttosto recuperare l’ampio respiro che si tende a riconoscere al pensiero ottocentesco e novecentesco continentale più classico.

Lo vogliamo sottolineare non per offrire una sponda a coloro che ancora ritengano significativa la distinzione, stereotipata, tra pensatori “analitici” e “continentali”. Bensì per evidenziare, al contrario, come sia possibile muoversi con la massima libertà tra autori convenzionalmente distribuiti lungo quella linea di demarcazione, per tentare di formulare un pensiero che tenga insieme la capacità “analitica” di circoscrizione dei problemi con la vocazione “continentale” di giungere anche a visioni di più ampia sintesi, che siano di utile orientamento rispetto alla nostra vita.

Identità della persona e senso dell'esistenza (Meltemi, 2018) di Andrea Zhok

Identità della persona e senso dell’esistenza (Meltemi, 2018) di Andrea Zhok

Il volume può essere inteso in maniera autonoma, ma per esplicita indicazione dellʼAutore, rappresenta la naturale prosecuzione del precedente Libertà e natura: fenomenologia e ontologia dellʼazione (Mimesis Edizioni), nel quale si perveniva a stringere in un unico nodo lʼidea di volontà libera e quella dʼidentità: realmente libero, cioè, non è lʼatto innescato da un fiat del soggetto tanto puntuale quanto misterioso, come anche la discussione sul free will tende a volte a rappresentarlo; bensì da un ordinamento di valori che costituisce una matrice potenziale di atti volontari e che non è altro che la nostra identità. Di qui prende lʼabbrivio il volume presente, il cui obiettivo è proprio chiarire, secondo lʼapproccio fenomenologico familiare allʼAutore, in che cosa consista tale identità, che si mantiene unitaria pur variando nel tempo, e in relazione alla quale soltanto la distinzione in apparenza paradossale tra “volere” e “volere volentieri” può assumere un senso: to have the will he wants, per citare la formula di Harry G. Frankfurt discussa da Zhok, significa “avere la volontà che vogliamo avere” perché corrisponde a chi vogliamo essere: «Il senso delle nostre azioni, in quanto incarna la nostra libertà, coincide con lʼidentità personale che alimentiamo» (p. 20). Da essa e soltanto da essa possono poi discendere le nostre volizioni particolari, quando le possiamo considerare veramente libere.

La prima mossa con cui Zhok ci guida alla scoperta della struttura della nostra identità ha il profilo di una sorta di succinta “fenomenologia dello spirito”, metodologicamente rinnovata e scientificamente avvertita. Il suo obiettivo è chiarire che cosa si debba intendere come “azione” e sotto quali condizioni essa possa essere imputabile a un soggetto “libero”. Le tappe di questa costituzione, che muove dallʼanalisi del sé sensomotorio e prelinguistico per giungere a quella del sé autocosciente integrato in una comunità di parlanti, consentono di mettere in evidenza lʼessenza telica, conscia e inconscia, e narrativa dellʼagentività a fondamento della nostra identità personale. Soltanto a questo stadio, quando cioè il soggetto è finalmente aperto a un mondo condiviso secondo un piano di vita, indeterminato nei dettagli e nei confini, ma sufficiente ad assicurargli un racconto coerente e attestabile intersoggettivamente di sé, i motivi della sua volontà possono acquisire anche lo statuto di ragioni di cui poter rendere conto oltre che a sé agli altri.

Cade qui il problema della genesi dellʼidentità del soggetto come soggetto morale, svolta a partire dallʼanalisi di alcune tra le più diffuse patologie della personalità, dalla schizofrenia alla melanconia, fino ai disturbi dissociativi della personalità. I motivi di questa scelta, per nulla ovvia, riguardano la ricerca di soglie a partire dalle quali qualcosa come unʼidentità personale venga messa in crisi al punto da rendere impossibile la costituzione di un soggetto capace di esercitare unʼazione che, oltre a essere volontaria, sia liberamente orientata, al bene o al male. E questo perché: «Il Sé come persona autocosciente matura in un ambiente normativo rappresentato da altri soggetti, che lo riconoscono come Sé normale. Ogniqualvolta ci rivolgiamo a un soggetto che non conosciamo, o quando riteniamo che la nostra azione verrà valutata da sconosciuti, noi assumiamo tacitamente le caratteristiche di un Sé normale, idealizzato e anonimo. È difficile sopravvalutare il peso di questo tacito Sé normale, che eleggiamo implicitamente a nostra aspettativa di umanità, a nostro riconoscitore ideale, a nostro esemplare compagno di qualunque comunità o società possibile. Tale normalità è la cornice entro cui supponiamo possa muoversi la nostra iniziativa, la nostra ragione, la nostra intenzionalità» (p. 123). Per quanto storicamente e culturalmente circostanziabile, quindi, da questo Sé normativo è impossibile prescindere per ragioni essenziali, se vogliamo dare un senso allʼidea di una ragione pratica.

Non è possibile, in questa sede, dare conto adeguatamente delle analisi dedicate alle patologie che investono, in varie forme, lʼidentità personale. Il loro sforzo, anzitutto, è teso a mostrare come schizofrenia e malinconia rappresentino forme “allontanamento dalla realtà” per tramite di un “dissolvimento del senso”. Se, però, nel primo caso, il disturbo origina a livello della temporalità immanente della coscienza del sé sensomotorio, muovendo per così dire dal basso verso lʼalto, nel secondo muove dallʼalto verso il basso, investendo il sé riflessivo e la sua progettualità nel mondo, il cui orizzonte temporale di dispiegamento presuppone, ma al contempo travalica, la pura e semplice struttura temporale ritenzionale-protensionale di base della vita di coscienza. Così, allʼesistenza vuota e priva di salienze dello schizofrenico, dal significato in perenne dissolvenza, fa da contraltare il reiterato scacco in cui sprofonda la volontà del malinconico, oscillante tra ciò che vorrebbe, perché dovrebbe essere, e ciò che è. In entrambi i casi, comunque, lʼidentità del soggetto è in questione in radice. E con essa la possibilità di approdare a una compiuta personalità morale.

Più sottile si rivela lʼimpatto sulla genesi del soggetto morale da parte dei cosiddetti disordini della personalità, secondo la classificazione più recente del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder (DSM-5), per i quali «Neppure lʼammissione di una sofferenza vissuta in prima persona risulta indispensabile per riconoscere unʼanomalia o distorsione nella personalità del soggetto». Ciò che infatti, al di là delle differenze, accomuna tutti questi casi è «La conservazione di una coerenza identitaria della personalità, la quale tuttavia non riesce a conciliarsi con lʼambiente sociale e culturale circostante» (p. 193-4).

Più in particolare, il narcisista, lʼistrionico, le personalità dipendente e borderline, sono tutti caratterizzate da un inadeguato “amore di sé” al quale corrisponde lʼassenza di unʼinteriore alterità ideale, che svolga una funzione stabilizzante del comportamento. Il risultato è un ordine di disfunzionalità sociale che non si limita a manifestarsi in riferimento a uno specifico intorno storico e culturale relativo a una comunità ben circostanziata, bensì a ogni ordinamento relazionale stabile tra soggetti autocoscienti come tale: «Queste personalità agiscono compulsivamente così da impedirsi proprio lʼappagamento affettivo di cui hanno bisogno. Non possono evitare di comportarsi in un modo che li rende inadatti a essere pienamente riconosciuti come alter ego» (p. 202).

Se prendiamo in esame, invece, le personalità paranoidi, schizoidi e schizotipiche, troviamo che in comune hanno una dinamiche esattamente opposta rispetto alle precedenti: «Qui non ha luogo una proiezione irrigidita verso lʼaltro cui ci si rivolge (invano) per ottenere appagamento e senso, bensì una ritrazione dal rapporto con lʼaltro, e una simultanea perdita dei criteri di obiettività» (p. 203). A tale perdita corrisponde quella che lʼAutore definisce “deformazione assiologica” che infrange la possibilità di confidare in qualcuno come alter ego, co-soggetto. Infatti, «Soggetti diversi possono divergere ampiamente nei modi in cui, di volta in volta, interpreteranno la validità intersoggettiva. Ma finché rimangono sensibili alla sua dimensione di ideale normativo, di spinta a considerare e conciliare ragioni plurali, essi restano co-soggetti normali. Chi invece sistematicamente si flette senza resistenza al giudizio altrui, o lo manipola e strumentalizza, o vi rimane impermeabile, non può costituirsi in alter ego e dunque non può rappresentare un co-costitutore del nostro mondo» (p. 206).

La rassegna si conclude con lʼanalisi della psicopatia, ovvero della personalità antisociale. Lo psicopatico, in forza della sua impulsività, irresponsabilità, manipolazione di persone e regole sociali a tutela dei propri interessi, ha come tratto costitutivo una tendenza a mentire sistematicamente e senza vergogna, anche quando è portato allo scoperto. Ciò lo rende socialmente temibile, anche perché generalmente soggetto a esplosioni di rabbia non di rado violente. Per tutte queste ragioni, esso costituisce un obiezione frontale a ogni funzionamento sociale, familiare, relazionale in genere. Lo psicopatico né ambisce né spera nulla, né per sé e né per altri. Di nulla che riguardi il suo passato, quindi, può pentirsi. Di nulla che riguardi il futuro preoccuparsi. E per nulla che gli accada, provare orgoglio, commozione, risentimento. Se qualcosa come un amore di sé traspare esso non ha la forma di una prendersi cura intertemporalmente del proprio destino, ma di una estemporanea autoesaltazione narcisistica, che non procede molto oltre la rêverie autogratificante o autoconsolatoria.

Dallʼanalisi di queste forme anomale di personalità, lʼAutore fa discendere due conclusioni di rilievo.

La prima concerne lʼidea di patologia. Questʼultima non può essere pensata come unʼessenza comune alle sue diverse forme, sebbene non manchino tra di esse affinità e sovrapposizioni parziali. Ma come una famiglia di anomalie che si distanziano in varie direzioni dalla personalità che funge da norma tacitamente presupposta a fondamento minimo di una convivenza sociale funzionale. La seconda investe direttamente lʼidea humeana della fallacia naturalistica, in base alla quale alcuna norma può essere dedotta da un fatto del mondo (no ought from is). Se le cose stanno come indicato, infatti, vale semmai il contrario. Lʼesistenza di una forma di vita, infatti, non è un fatto bruto, bensì una costitutiva volontà di preservarsi e prosperare in modo conforme a una propria norma, implicante per ciò stesso il realizzarsi di determinati fatti: «La forma logica della normatività qui diventa perciò la seguente: data la volontà di vivere e perpetuarsi di una forma di vita, il presentarsi di certi stati di cose (“is”) esige lʼassunzione di certe istanze normative (“ought”)» (p. 214).

Lʼexcursus attraverso il quale vengono esplorate le condizioni a partire dalle quali può costituirsi un soggetto morale è molto esteso, correndo talvolta il rischio di far perdere di vista lʼobiettivo più generale del volume: definire i termini generali di unʼesistenza ben riuscita, esistenza che richiede un soggetto capace di esercizio morale in comunione con altri co-soggetti. Infatti: «Quando ciò non accade, quando qualcuno ha verso atti e giudizi altrui un atteggiamento strumentale, manipolativo, o indifferente, subordinandoli a impulsi, bisogni o compulsioni cui non può sottrarsi, allora esso viene considerato un soggetto spiritualmente anomalo, un soggetto morale mancato» (p. 307).

Per comprendere sotto quali condizioni questo sia possibile, tuttavia, è necessario esplorare la dinamica alla base di un problema classico della filosofia “continentale”, da Kierkegaard, a Heidegger fino a Sartre, quello dellʼautenticità. Potremo riassumere soltanto nelle linee generali la questione, che in effetti ritorna nel volume a più riprese e secondo angolature diverse. Anzitutto, come a questo punto è scontato, in relazione al problema dellʼidentità personale. Quindi in connessione con la dimensione narrativa del Sé, fondamento imprescindibile della nostra progettualità nel mondo.

Un punto che ci sembra necessario sottolineare è come la ripresa di questo classico tema, anzitutto, muova ancora una volta dallʼanalisi di una patologia mentale: il disordine dissociativo della personalità (DID). Lʼesistenza del fenomeno delle personalità multiple, infatti, pone alcuni interrogativi cruciali circa le condizioni definitorie di unʼidentità personale. Se è innegabile che il processo di “coerentizzazione” di atteggiamenti e intenzioni, debolissimo se non assente nella prima infanzia, non impedisce anche a una persona matura di riscontrare una pluralità difficilmente conciliabile di moti dellʼanimo «La pluralità che rintracciamo nelle differenti personalità dei multipli non è qualcosa di toto coelo estranea alla normalità di una persona unitaria. Ciò che però differenzia in modo cruciale una personalità dissociata rispetto a una normale è lʼinteriore incomunicabilità tra atteggiamenti e comportamenti divergenti, che vengono separati da barriere amnestiche e costituiti in “personalità” monodimensionali» (p. 226). Allʼinterno di una personalità unitaria, infatti esistono conflitti, per esempio tra inclinazioni e doveri, timori e aspirazioni, ma non contraddizioni. Se i primi sono affrontabili ordinando, gerarchizzando, differendo o modulando i loro rapporti, i secondi rappresentano nodi che non si sciolgono se non attraverso la rimozione temporanea di uno dei profili di personalità in gioco: non è possibile nello stesso tempo e sotto lo stesso riguardo, per esempio, assumere il ruolo di “vittima” e di “persecutore”, come accade, a volte, a chi ha subito traumi infantili sviluppando un attaccamento disorganizzato. «Al contrario, in unʼidentità personale ben funzionante i conflitti vengono gestiti attraverso la creazione di ragioni per agire, ragioni che possono essere mobili e in evoluzione, ma che consentono di conservare una continuità intertemporale nellʼorganizzazione dellʼazione» (p. 232).

La costruzione intertemporale di tali ragioni, però, chiama in causa la questione di unʼidentità narrativa del Sé, cruciale per dare uno svolgimento compiuto del tema dellʼautenticitàSe la normalità è quella forma di esistenza personale che permette il riconoscimento interpersonale e la rimessa in discussione delle proprie credenze, lʼautenticità è quella normalità in cui tale capacità di distanziamento obiettivante è un abito spirituale esercitato in modo ricorrente e autonomo, così da rimettere in discussione il proprio Io come tale, come esso si offre in una storia adeguatamente socializzata, ovvero, sufficientemente condivisa con altri.

Della nostra identità narrativa sono parte, infatti, quattro tratti non negoziabili, che costituiscono altrettanti vincoli non arbitrari alla nostra libertà. Essi sono la nostra attualità sensibile, la nostra identità disposizionale, la nostra collocazione spazio-temporale e il nostro passato rammemorabile per altri. A questi si aggiunge infine il senso narrativo che possiamo dare al nostro passato, sulla base del quale integriamo il nostro presente e nutriamo aspettative sul futuro.

Il nostro destino, quindi, non è semplicemente “nelle nostre mani”. E tuttavia dalle nostre mani deve ricevere un senso, che altrimenti non ha. Il limite dello storicismo, in particolare idealistico, nel volume esemplificato da Hegel, è avere preteso, da un lato, di elaborare una fenomenologia di una coscienza intesa come “disincarnata”. Dallʼaltro, di concepire la Storia, individuale e collettiva, come “chiusura”. Al contrario: «La Storia, nella misura in cui vuole essere vera e dunque allʼaltezza della realtà, deve ammettere lʼinderogabilità della contingenza, lʼimpossibilità di una consolazione definitiva, di una promessa garantita, di una rassicurazione ultima. (…) Al tempo stesso deve garantire lʼinesauribilità delle possibilizzazioni, cioè la perenne possibilità di nuove possibilità» (p. 340). Dove per possibilità sʼintendono possibilità reali: «Che qualcosa sia semplicemente concepibile senza contraddizione, o plasticamente raffigurabile nella nostra fantasia, non lo rende affatto una possibilità che possa divenire realtà. Le possibilità del nostro presente dipendono dal nostro passato, sia da quello che abbiamo personalmente deciso che da quello storico generale allʼinterno del quale siamo da sempre collocati» (p. 324). Ciò non costituisce minaccia alla mia libertà. Se il mio punto di partenza non è negoziabile, e dunque le mie possibilità reali sono circoscritte, lʼindirizzo della mia azione è perfettamente libero.

È qui che il tema dellʼautenticità incontra quello della libertà. Perché, infatti, si chiede Zhok, tale esercizio di messa in questione radicale di Sé dovrebbe essere preferibile al suo contrario? Perché essere autentici, insomma, anziché perdersi in una frenesia edonistica (Kierkegaard), nella chiacchiera mondana (Heidegger) o nella mediocrità della malafede (Sartre)? La risposta richiede la ripresa del concetto di valore, in effetti estraneo a tutti e tre i pensatori che hanno fatto del tema dellʼautenticità uno dei cardini delle loro filosofie.

In estrema sintesi, una vita che assume come proprio abito spirituale lʼautenticità è una vita che ha più valore perché più vera, più reale, più libera. Per una mente pensante e agente, infatti, un incremento di conoscenza della realtà, anzitutto propria, così come un incremento della possibilità di azione è, a parità di condizioni, sempre preferibile a un decremento. Così: «Determinarsi alla finità cui siamo consegnati percorrendo le possibilità reali è la precondizione per “realizzare qualcosa”, e per “diventare qualcuno”. Chi non voglia, o non possa, determinarvisi conduce unʼesistenza nella sfera delle sole possibilità virtuali, come mero rinvio, o distrazione, o appagamento fantastico» (p. 351). E questo, con buona pace di Hume, discende da una entelechia, ovvero, da un fatto normativo. Indimostrabile, perché presupposto da ogni dimostrazione.

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